IBUKIi RRT Dip OYI1ZN Ì>=> N.5 III DEI LIBRI DELMESEl Dossier n. 7 Tradurre un verso di Shakespeare Paragonarti a un giorno d'estate? di Roberto Piumini Shall I compare thee to a sum-mer's day? / Thou art more lovely and more temperate...". Così inizia il diciottesimo sonetto di Shakespeare. Occupiamoci del solo primo verso, abbastanza concluso in sé perché le scelte linguistiche che lo riguardano non siano in relazione troppo stretta con i seguenti. Chi ha tradotto senza preoccupazione metrica, giustamente conserva in prima posizione la perplessità, solo in parte retorica, di "shall I": "Dovrò paragonarti a un giorno d'estate?" (Ser-pieri); "Devo paragonarti a una giornata estiva?" (Cecchin), o, come Rossi, togliendo una sfumatura di dubbiosità, ma aggiungendone, per così dire, una oratoria, con un "dunque": "Ti comparerò dunque a una giornata d'estate?". "Comparare" è scelta foneticamente più vicina a "compare", ma porta, in italiano (meno ai tempi di Rossi, forse?), un alone semantico di tipo scientifico, scolastico-pedante. Ecco un caso in cui il verbo italiano diverso raccoglie meglio il senso dell'originale: "paragonare" è più complesso, più alto, più integrato e colto di "comparare". Se si opera una traduzione in versi, e si sceglie ragionevolmente l'endecasillabo, quali problemi sorgono? C'è subito, naturalmente, la brevità. L'italiano, a parità di contenuto se- mantico, occupa più spazio dell'inglese. Virgillito risolve in "Ti dirò uguale a un giorno d'estate?". E una soluzione legittima, ma alleggerisce un po' troppo il gioco dubitativo di cui abbiamo parlato: in "dire uguale" manca l'idea dell'affronto psicologico, e in qualche modo l'oltranza, che c'è in "paragonare". In realtà, volendo fare dell'esercizio, un endecasillabo fedele a tutte le intenzioni delle traduzioni non metriche, potrebbe essere "Dovrò paragonarti a un giorno estivo?" o anche "Dovrò paragonarti a un dì d'estate?" Ora, "giorno" è, evidentemente, meglio di "dì", ma "d'estate" è meglio di "estivo" (in poesia non esistono sinonimi, per non parlare, con sano materialismo poetico, della maggior funzionalità di rima di "estate" rispetto a "estivo"), e l'uno esclude l'altro, almeno in questa formulazione del verso. Gi e iocando a queste ipotesi, remerge invece un endecasillabo che, in realtà, era già presente, come parte, nella versione di Serpieri: "Paragonarti a un giorno d'estate?". Che cosa viene a mancare, in questa traduzione? Il "devo", o il "dovrò". È una sottrazione grave? Non sembrerebbe: "paragonarti", soprattutto messo a inizio verso, irrompente ed energico com'è, contie- ne tutto quello che serve riguardo all'intimità polemica, direi quasi la gestualità, la teatralità, di " shall I". La sostantivazione del verbo sembra, anzi, esprimere felicemente l'approccio di un ragionamento "colto a metà", di una discussione lirica già in corso nell'animo del parlante. Obiezione possibile: "paragonarti", rispetto a "dovrei paragonarti" o "devo paragonarti", o "ti dirò", toglie la marca soggettiva: potrebbe riferire sulla possibilità astratta di paragonare il fair youth al giorno d'estate, e non al paragone possibile per il poeta parlante. Occorre notare, innanzitutto, che l'intero sonetto non vive di rigorosa soggettività rispetto al poeta: si parla, al quattordicesimo verso, di "this" (questo verso, o questa poesia), e niente più. Tutto il sonetto vive in una specie di indeterminazione, in cui l'oggetto (tu, le tue virtù e bellezze) sta sospeso di fronte non a un "io", ma a uno sguardo generale, all'intera storia e umanità. Ma, secondariamente, e solo in apparenza contraddittoriamente, non è certo la mancanza di un "io" dichiarato che può togliere a questo sonetto l'immanenza del parlante-amante-asseverante, l'intensa e ininterrotta soggettività del canzoniere shakespeariano. Ecco una soluzione che, ai vantaggi della forma poetica compiuta, non unisce tradimento, o approssimazione: "Paragonarti a un giorno d'estate? / Tu sei più incantevole, e più lieve..." rpiumini@tin.it IBUKIi ti? RRT PIP Dip OYnSN Tradurre i grandi classici Un anno con Clarissa di Masolino d'Amico Da più di quarant'anni traduco libri, commedie e copioni cinematografici, ma, avendo cominciato a farlo prima di sapere come si faceva, credo di avere imparato tutto - o di non avere imparato niente - da solo. In ogni caso, mi allargò il cuore, una volta, sentire addirittura George Steiner affermare in pubblico che le teorie della traduzione sono, all'atto pratico, perfettamente inutili. I soli consigli costruttivi che io ho mai letto in proposito riguardano il fine e non i mezzi del traduttore, e li formulò Matthew Arnold a proposito del tradurre Omero. Secondo il grande critico vittoriano, il traduttore dovrebbe porsi l'obiettivo di pro- "Isingto use the Waiting My Bonnet but to tie Ans shut the Door unto my House No more to do bave I TillHis beststep approaching Wejourney to the Day And teli each other how We sung To Keep the Dark away " Emily Dickinson (n. 850) •A ÉBMKIk tlZ RRTDipOYnZNoM^ÉRHKI» ti? RRTDI z e >- e fL S à n =E? tè «0 as s M •ut i Z w p e & n Contro la traduzione di Guillaume Colletet Son stufo di servire, basta con l'imitare, Le versioni sviliscono chi è in grado di inventare: Sono più innamorato di un Verso che ho prodotto Che di tutti quei Libri in prosa che ho tradotto. Seguire passo passo l'Autore come schiavi, Cercare soluzioni senza averne le chiavi, Distillarsi lo Spirito senza capo né coda, Far di un vecchio Latino un Francese alla moda, Spulciare ogni parola come fossi un Grammatico CQuesta funziona bene, quella ha un suono antipatico), Dare a un senso confuso uno sviluppo piano, Unire a ciò che serve tutto un linguaggio vano, Parlare con prontezza di quello che più ignori, I Dotti, dei tuoi sbagli, rendere spettatori, E seguendo un capriccio spinto fino all'eccesso Capire chi neppure si capì da se stesso: Ormai, questo lavoro mi ha talmente stancato Che ne ho il corpo sfinito, lo spirito spossato. a M Z e f m% R S * V* % (trad. dal francese di Valerio Magrelli) 'V U 3 vi e ^ a M Z e f IR« w ss 5S V» w tè FffRT pi» Dlp YI UN ÉKMKIi tt? HRTpit? DTp 2= durre sui suoi lettori un effetto quanto più possibile analogo a quello che l'originale presumibilmente produceva sul pubblico al quale era destinato. Per esempio. Shakespeare oggi risulta in gran parte oscuro anche ai suoi ascoltatori inglesi, ma è ovvio che la sua lingua era perfettamente intellegibile agli elisabettiani; in traduzione dunque non dovrebbe risultare oscuro. D'altro canto, la sua non era certamente una lingua bassa, colloquiale, quindi far parlare oggi Amleto con la disinvoltura di un giornalista sportivo è fuorviarne. Ancora. Il blank verse era una misura nuova, ancora in fase di sperimentazione, che agli orecchi di allora doveva suonare eccitante come, poniamo, le terzine di Dante ai primi lettori della Divina Commedia - quindi renderlo nei nostri ovvi endecasillabi significa immiserirlo. Eccetera, eccetera. Quanto ai mezzi... una formula per tradurre non c'è, ovviamente se parliamo di letteratura, perché ogni vero scrittore ha una voce propria e pertanto pone problemi diversi. E ben per questo che tradurre può essere un rompicapo appassionante! Infatti non si traduce per la gloria (delle traduzioni si ricordano in genere solo gli errori), ma per denaro, o, se si è fortunati, per passione, per curiosità. Come nessun altro, il traduttore ha l'occasione di interrogare il cervello dello scrittore, e se il cervello è di qualità, il tempo trascorso ad analizzarlo è ben speso. Quando proposi a un editore coraggioso Clarissa di Samuel Ri-chardson, che col suo milione di parole ha fama di essere il più lungo romanzo in lingua inglese, sospettavo che valesse la pena studiare un libro così importante e famoso. Adesso lo so. Il periodo passato a dialogarci fu una ininterrotta beatitudine. E, ponendo un libro grosso le stesse difficoltà di uno piccolo, il lavoro diventò anche sempre più leggero e piacevole. La difficoltà maggiore è sempre quella del tono di un'opera, e quando si traduce si perde sempre tempo e si macinano molte pagine prima di imbroccare quello giusto; dopodiché si deve tornare indietro per uniformare il tutto. Ma con Clarissa una volta trovato il tono che mi soddisfaceva c'erano ancora millecinquecento pagine dove si trattava semplicemente di applicarlo, e a quel punto tutto filò. La mia ininterrotta, anzi crescente ammirazione per Richard-son fece sì che quando arrivai in fondo - e il finale, con buona pace di Edward M. Forster e della sua teoria dell'impossibilità di concludere soddisfacentemente un romanzo, è sublime - mi dissi: "peccato". Grazie al portatile, che consente di operare rapide correzioni e di avere sempre tutto sotto gli occhi, e poi anche di sfruttare i momenti liberi in treno, in albergo o in vacanza, ci avevo messo solo undici mesi, molto meno del previsto. Prima di cominciare pensavo di im-pegnarmici sporadicamente, e all'editore avevo chiesto almeno due anni. Sennonché tradurre non è come scrivere. Si "scrive" anche pensando, anche facendo altro. Tradurre è come spaccare la legna. Se invece di romperti la schiena vai a spasso, quando torni trovi lo stesso mucchio che avevi lasciato. Anzi, peggio: trovi che la legna si è inumidita, che qualcuno ha portato via dei pezzi. Perché se ti allontani troppo dalla traduzione in corso, rischi di perdere le soluzioni che ti sembrava di avere trovato; di dimenticare i criteri che avevi adottato. Torni, e dei personaggi che si davano del tu ora si danno del lei; i pollici sono diventati centimetri; non capisci perché avevi evitato un aggettivo ovvio, lo introduci trionfalmente, e dopo venti pagine trovi la ragione dell'omissione. Già, perché i veri scrittori, altra cosa nota ai traduttori, non usano le parole a vanvera, e quindi conviene seguirli il più possibile. Chi si allontana dal primo senso di una parola per motivi magari rispettabili, mettiamo di eufonia, o per altri meno rispettabili, mettiamo per superficialità, lo fa a suo rischio: immancabilmente la parola introdotta senza vera giustificazione capita poco dopo nel testo originale, e bisogna tornare indietro e pensare meglio. Di trasmissibile ad altri temo che il lavoro su Clarissa mi abbia lasciato solo queste considerazioni. Tradurre può essere accostato, ancora, al risolvere i cruciverba. Non si può insegnare; intrattiene chi lo fa; può essere moderatamente istruttivo. Soprattutto, bisogna avere fiducia nell'esistenza, sempre, di una soluzione ideale, che è lì. Basta cercarla. damico.@tiscalinet.it