IBUKIi Èffc => N.5 Vili IBUKIi ^ì? HR[ piP D"ip OYflEN Scrittori tradotti da scrittori Per una biodiversità linguistica di Valerio Magrelli Nel 1993, Michael Krauss ipotizzò che circa la metà delle seimila lingua parlate nel mondo sarebbe scomparsa in pochi anni. Ho ripensato spesso alla sua dichiarazione, perché nello stesso periodo fu inaugurata la cosiddetta "trilingue" della Einaudi, ossia la serie internazionale della collana "Sts" (Scrittori tradotti da scrittori). Concepita da Giulio Einaudi, l'idea di presentare, sulla scorta di una versione italiana, alcuni significativi casi di incontro tra due lingue straniere, conobbe molte difficoltà, innanzitutto sul piano della realizzazione tipografica. Perciò quel segnale sembrò confermare l'opportunità di una scelta tanto temeraria sotto il profilo del mercato. L'iniziativa ha infatti inteso testimoniare il desiderio di difendere, se non le specie minacciate di estinzione, almeno il senso della loro differenza - di "biodiversità" parla, ad esempio, lo studio di Claude Hagège, Halte à la mort de langues (Odile Jacob, Paris 2000). Se la compresenza di tre lingue ha rappresentato una novità editoriale (cui accosterei, fra i pochi casi analoghi, la traduzione tedesca di Beckett da Suhrkamp), l'interesse dell'esperimento è consistito in quella sorta di "lettura attiva" provocata dal viaggio nel reticolo testuale. Si è cominciato con Humpty Dumpty di Lewis Carroll tradotto da Antonin Artaud (versione italiana di Guido Almansi e Giuliana Pozzo), e con Tifone di Conrad recato in francese da André Gide (versione italiana di Ugo Mursia). Il primo titolo si è imposto per la violenza dei cortocircuiti attivati: basti considerare la distanza tra il delicato mondo vittoriano del reverendo Carroll e lo sconvolto universo psichico artaudiano che emerge dalle lettere riprodotte nel volume. Rispetto a questo estremo caso di collisione linguistica, la versione gidiana di Tifone si raccomanda invece per la fittissima trama di relazioni biografiche e riflessioni teoriche che la sottende. Le due uscite seguenti hanno presentato Ezra Pound traduttore di Cathay (a cura di Alessandra Lavagnino e Mita Masci), e Paul Valéry confrontato alle Bucoliche di Virgilio (a cura di Carlo Carena). Tramite le versioni interlineari dell'orientalista Ernest Fenellosa, l'autore dei Cantos tradusse in inglese una celebre antologia di testi classici cinesi. Pertanto, a fianco della versione italiana dall'inglese, firmata da Mary de Rachewiltz, è stata offerta quella che le due curatrici hanno redatto, per la prima volta, a partire dal cinese. Quanto all'altro titolo, è sufficiente ricordare il saggio di Valéry Variazioni sulle Bucoliche (in appendice al volume), dove si parla della vita mentale come di un'unica "onda di traduzioni" - definizione che si attaglia bene al senso della serie trilingue. Quinto volume, Mal vu mal dit di Samuel Beckett, tradotto in inglese dallo stesso autore (III seen ili said) e presentato nella versione italiana di Renzo Guidieri (Mal visto mal detto), con un saggio di Nadia Fusini che ci mostra un Beckett nudo e teso, sperduto, come egli stesso scrisse, "dentro gli spazi solitari e desolati dell'autotraduzio-ne". Molto andrebbe detto anche sul Cimetière marin di Valéry tradotto in spagnolo da Jorge Guillén (a cura di Giuseppe E. Sansone), e su The Raven e altre poesie di Poe offerto nel portoghese di Ferdinando Pessoa (a cura di Paolo Collo), per non dire del l'Anna Livia Plurabelle (da Finnegan's Wake) di James Joyce, tradotto in francese da un'équipe di scrittori fra i quali spiccava Samuel Beckett, e in italiano dallo stesso Joyce con l'amico Nino Franck. Curato da Maria Bosinelli, il volume si avvale di un saggio di Umberto Eco, mentre George Steiner ha firmato lo studio sull'Antigone di Sofocle nella traduzione di Hòlderlin (in appendice, l'adattamento di Bertolt Brecht). Meno noti, i Selected Poems di William Blake nella traduzione francese di Georges Bataille (versione italiana di Giuseppe Ungaretti, cura di Annamaria Laserra), e Bahette's Feast di Karen Blixen, autotradotto dall'inglese al danese (a cura di Annamaria Segala), cui sono seguiti quattro racconti di Poe tradotti in francese da Baudelaire col titolo Abitazioni immaginarie. Il catalogo si ferma ai Quaranta sonetti di Shakespeare curati Carlo Ossola, che Yves Bonnefoy ha in gran parte tradotti in francese proprio per questa edizione, in omaggio alla versione italiana di Ungaretti. Questi i volumi usciti fino ad ora. Per il momento la collana è sospesa, ma la speranza è che possa riprendere il percorso sin qui delineato. valmag®libero.it 5 Z w E P e t 6 ri Ariel Lewin (a cura di) Gli ebrei nell'impero romano Saggi vari Steven E. Aschheim G. Scholem, H. Arendt, V. Klemperer Tre ebrei tedeschi negli anni bui Ma che bel castello... di Gabriella Bosco >o M ai se 2 .s Z, W E e s V Ho chiesto spesso a grandi scrittori — da Alain Robbe-Grillet a Michel Tournier, da Hector Bianciotti a Eugène Ionesco a Natalie Sarraute - quale fosse la loro idea sulla traduzione letteraria, ottenendone opinioni disparate, spesso anche antitetiche. La risposta più interessante è forse quella che mi diede Julien Green, americano di Francia, perfettamente bilingue, che mi disse: "La traduzione non esiste. Il passaggio da una lingua all'altra trasforma sempre". E specificò: "Quando leggo dei miei libri tradotti in italiano, per esempio, trovo che sono più belli, un po' come quando guardo un quadro nudo e poi lo guardo con il vetro davanti: trovo che ci guadagna". Julien Green conosceva anche l'italiano, per aver abitato nel nostro paese, e aveva modo di apprezzare il risultato del lavoro di traduzione. "Il vetro interposto", diceva, "si fa però particolarmente sensibile quando a tradurre è uno scrittore, qualcuno cioè che di mestiere scrive romanzi e traduce occasionalmente, come prova d'autore, esercizio retorico, esibizione (in senso buono)". Mi è capitato di dover prendere in mano una di queste traduzioni, di una grande scrittrice che si esprimeva attraverso II silenzio del mare di Ver-cors: per una nuova edizione Einaudi, bilingue, mi venne affidata qualche anno fa la curatela del libro, e mi trovai di fronte al problema - volendo congiuntamente l'editore e io conservare in toto la traduzione originale di Natalia Ginzburg - di alcuni suoi interventi forti sul testo. Uno dei personaggi del libro, l'ufficiale tedesco Werner von Ebrennac, che s'installa in casa del protagonista e di sua nipote (siamo nella seconda guerra mondiale, nel periodo di occupazione tedesca della Francia) parla - come scrive Ver-cors - un francese corretto: è persona colta, che ama profondamente la Francia e la sua cultura. Il personaggio è interamente costruito sul contrasto tra la sua grande civiltà come persona e la barbarie del ruolo che deve giocare nella Storia. Il suo francese corretto, per effetto di ricerca stilistica da parte di Vercors, presenta allora alcune durezze espressive, che non sono veri e propri errori sintattici o grammaticali, e però diventano segnali strettamente correlati al suo modo di essere. Natalia Ginzburg non li tradusse, questi segnali, minimi sì, ma tali da venire perfettamente percepiti dal lettore francese. Scelse di non tradurli. Un esempio? Per dire che la casa dei suoi "ospiti" gli piace di più del castello dove avrebbe dovuto andare se i suoi uomini non si fossero sbagliati nel condurlo, l'ufficiale dice: "lei c'est beau-coup plus beau chàteau". Tradotto dalla Ginzburg: "Questo castello qui è molto meglio". Avrebbe potuto lasciare: "Questo è castello molto più bello", conservando il leggero manque che disturba il francese. Sono numerosi i passaggi del libro in cui la Ginzburg raddrizzò, se così si può dire, il francese del tedesco. Perché il risultato italiano ci guadagnasse? Per fastidio nei confronti del personaggio? Per ipercorrettismo? Lasciai ovviamente la sua traduzione intatta, ma come curatrice segnalai in nota (nota al testo francese) ognuno di quei segnali voluti da Vercors. Ripensando alla verità, a doppio taglio, del vetro di cui mi aveva parlato Julien Green. boscog@cisi.unito.it □ e a M Z e ? m a x v* & * 3 e ^ e M z e a- s 3S 4: fè HR[ più? Dip OYniNoM^ IBUKIi HRTpiP Dlp ^ Fenoglio traduttore dall'inglese Reverente all'utopia di Franco Marenco Che cosa dice il partigiano Johnny quando, fuggiasco, arriva in vista di casa, e si propone di "purgarsi dello schifo generale che è stato in Italia"? (Primavera di bellezza, 15) Dice: "Li-terature and love-making will make me forget the whole affair", e il prestito dall'inglese sta a segnare l'utopia di civiltà, di integrità, di fiducia in sé e negli altri che lui associa a quella lingua, a quella cultura, in quel momento così lontana. Un'utopia autoironica, che sottolinea la situazione disperata in cui il personaggio si trova - per non dire dell'ulteriore sottolineatura, tra il nostalgico e il beffardo, che si ha in "I'm loth to get out like this" ("davvero mi ripugna uscirne così"), che è lingua non dell'oggi ma dell'altroieri, letteraria e arcaica, lingua dei grandi poeti che lui conosce bene: più distante, più libresca è la forma che quel sogno di pace assume, e meglio ci rendiamo conto di quanto esso sia amaro e irreale. Il Quaderno di traduzioni (curato da Mark Pietralun-ga per l'edizione Einaudi del 2000, pp. XXII-287, Lit 26.000), tutte dall'inglese, dà conto della lunga frequentazione di Fenoglio con questa utopia, che lui costruisce come altro rispetto a quello che lui si sente come italiano, come piemontese, come scrittore. Prendere a prestito, assimilare, tradurre significa allora avvicinarsi a un'antica, perduta fonte di civiltà, non in accordo ma in antitesi con l'oggi; significa re- cuperare il senso di un'esperienza collettiva che superi la miseria atomizzata del presente, e quindi inventarsi un'espressione forte e sicura, che includa e non escluda, che sappia rendere il senso totale dell'esperienza - insomma una lingua ibrida e cosmopolita, una sintesi di diverse tradizioni, che sappia raggiungere un'antica e difficile meta delle patrie lettere, l'eleganza dell'ineleganza. Questa è la particolare natura ideologico-esistenziale del vincolo che unisce Fenoglio all'inglese. La traduzione, della poesia specialmente, diventa allora un difficile confronto con il diverso e il lontano irraggiungibile, una immedesimazione che segnala una distanza - ma non è così per tutti i grandi traduttori? Questo confronto Fenoglio lo affronta con la consueta, severa determinazione, senza però disancorarsi da un preciso retroterra: dal verso inglese il suo italiano ricava la nettezza delle immagini, la concisione del tema, il ritmo narrativo, e lo fa con esigente lavorìo, con solidi richiami intertestuali. È il programma del modernismo letterario anglosassone che Editrice La Giuntina - Via Ricasoli 26, Firenze www.giuntina.it