Politica finalmente ripubblicata l'immane mappatura del terrore staliniano ricostruita da un dissidente controverso Settant'anni nella macchina tritacarne di Fausto Malcovati Aleksandr Solzenicyn ARCIPELAGO GULAG ed orig. 1973-80, a cura di Maurizia Calusio, introd. di Barbara Spinelli, trad. dal russo di Maria Olsufieva, pp. XC-1590+814, Ut 85.000+85.000, Mondadori, Milano 2001 Se esistesse una classifica dei libri più citati e meno letti, Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn occuperebbe senza alcun dubbio uno dei primi posti. Anzitutto per la sua, fino ad oggi, irreperibilità: l'edizione Mondadori degli anni settanta è da tempo introvabile. In secondo luogo per la sua lunghezza e la sua complessità: circa duemilacinquecento pagine, fittissime di date, riferimenti storici, personaggi, episodi. E questo, purtroppo resta un grosso problema (oltre al prezzo, ma lo vale tutto) anche oggi: si è ormai disabituati ad affrontare un libro che richiede settimane se non mesi di attenta lettura. In terzo luogo per i drastici pregiudizi da cui è stato accompagnato fin dalla sua prima uscita: destra e sinistra utilizzarono subito l'immane lavoro di Solzenicyn per avallare a scatola chiusa (dunque, ho il sospetto, senza una accurata lettura) le proprie tesi sullo stalinismo e sulla involuzione totalitaria, evitando così un vero dibattito e una reale, articolata comprensione del fenomeno. La roboante indignazione della destra è abbastanza comprensibile nella sua rozzezza; l'atteggiamento riduttivo, reticente se non addirittura infastidito della sinistra, anche se altrettanto comprensibile, resta tuttavia imbarazzante. E qui non posso non citare subito le pagine chiare, lucide, documentate, intelligenti (con un gustoso pizzico di ironia) di Barbara Spinelli, che nella parte finale della sua introduzione dedica giusto spazio alla "storia italiana" dell Arcipelago. Comincia con un'affermazione che non lascia dubbi: "Lo scrittore venne sminuito, schivato, in genere ignorato (...) Il Pei seppe costruire un muro, attorno alla figura del dissidente e alla sua opera, che lo teneva a distanza e lo rendeva leggermente sospetto". Barbara Spinelli contestualizza la sua affermazione, dichiarando che, certo, "erano anni gloriosi per il Pei, era l'epoca di Berlinguer, del compromesso storico, della lotta al terrorismo brigatista", e tuttavia insiste, con una serie di episodi in cui sono coinvolti Terracini e lo stesso Togliatti, sull'atteggiamento del Pei, che non ha ancora avuto una convincente smentita: questa nuova edizione po- "II Pei seppe costruire un muro attorno alla figura del dissidente e alla sua opera trebbe essere un'ottima occasione per riaprire un dibattito serio e corretto. Perché la questione non sta, come sembra a un certo punto affermare la Spinelli, nella possibilità o meno di "credere ancora nel comunismo, una volta visti in faccia i Gulag", ma nella necessità di riesaminare la storia dello stalinismo alla luce, anche ma non solo, della questione Gulag così come la documenta Solzenicyn, di inserire tale questione, in tutta la sua inaudita mostruosità, in una valutazione più complessa dell'intero fenomeno: e credo che in questo senso le ricérche storiche sullo stalinismo negli ultimi anni abbiano fatto e continuino a fare importanti passi avanti. Ci sono due o tre altri punti su cui la Spinelli apre un dibattito arduo e ostico. Anzitutto "la somiglianza fra le due utopie mortifere del Novecento, quella nazi-fascista e quella comunista". L'introduzione della Spinelli si apre con la testimonianza (al processo svoltosi a Parigi nel 1949 contro la rivista "Lettres Fran^aises", ostile a Kravcenko e alla sua denuncia dei lager staliniani) di Margarete Buber-Neumann che, prigioniera prima di un lager sovietico nel 1938 poi di uno nazista nel 1940, afferma l'assoluta identità o perlomeno comparabilità tra le due forme di reclusione. Sulla questione dice la sua, con la consueta lucidità, Adriano So-fri, nel bel numero della rivista "Diario" dedicato alla memoria della Shoah (titolo: Mi ricordo, in cui c'è anche un buon intervento sui lager staliniani di Marcello Flores): Sofri, dopo aver ricordato proprio le memorie di Margarete Buber-Neumann, parla dell'esempio triestino (la Risiera di San Sabba e le foibe del Carso) e porta nella discussione un elemento fondamentale, ossia la distinzione imprescindibile delle matrici da cui i due fenomeni (lager nazisti, lager staliniani) traggono origine. Se per il nazismo l'eliminazione della razza ebraica rientrava in un preciso e dichiarato programma ideologico del partito, in Unione Sovietica la persecuzione dei presunti nemici del regime veniva considerata una necessaria _ difesa e un rafforzamento dell'integrità ideologica e della solidità politica; per questa ragione "i discendenti del comunismo vedono nei crimini compiuti in suo nome il tradimento delle loro speranze". Sofri conclude affermando che "la 'storia' allontanata dalle storie delle persone rischia di destituire dalle radici l'identità passata e dunque di sradicare la presente". Proprio per evitare qualsiasi sradicamento, è importante evidenziare del Gulag, così come ce lo descrive Solzenicyn, le caratteristiche che lo rendono fenomeno unico, eccezionale, ben distinto da qualsiasi altro fenomeno analogo: anzitutto la durata (settant'anni circa, dal 1918 alla fine degli anni ottanta), la quantità di vittime (circa quaranta milioni-, una stima approssimativa per difetto, secondo Solzenicyn), la capillarità sociale (tutte le classi vi furono coinvolte) ed etnica (non vi fu minoranza che non sia stata colpita più o meno duramente) e soprattutto la sia pur fittizia, ma ben esibita e conclamata "legittimità" dei processi (con verbali, richiami ai codici, dichiarazioni sottoscritte dagli imputati, e così via) e delle condanne sia alla fucilazione sia al lager. E poi ancora la totale assenza fino ad oggi di sanzioni ufficiali della mostruosità del fenomeno, attraverso processi (molti dei giudici, anche tra i più efferati, finirono a loro volta nel meccanismo "tritacarne", ma non certo per volontà di giustizia) o perlomeno pubblicazioni di documenti; l'esiguità, rispetto al numero delle vittime, di testimonianze dirette, per lo più dovute al Samizdat o a edizioni straniere, e comunque l'incredi- bile ritardo, rispetto al fenomeno, di una corretta ed esauriente informazione. Senza VArcipelago solzenicyniano ben poco sapremmo del Gulag, il che probabilmente avrebbe fatto comodo a molti abitanti del Cremlino moscovita, passati e presenti. Ma torniamo al testo della Spinelli: è vero che "UArcipelago mantiene la sua esemplarità, quali che siano i successivi itinerari e le involuzioni del suo autore, divenuto nel frattempo più slavofilo e nazionalista di quanto sia nel libro", è vero che la straordinaria efficacia del lavoro di Solzenicyn sta soprattutto nella impressionante massa sia di allucinanti "documenti" (racconti orali, testimonianze dirette di sopravvissuti e non), sia di fatti storici, raccolti a suffragare la tesi dell'origine precocissima del fenomeno (già attestato nel 1918) e del suo dilagare alla fine degli anni venti fino a trasformarsi in autentica "macchina tritacarne" e a raggiungere dimensioni di vera e propria deportazione in massa da metà degli anni trenta fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Tutto questo è verissimo, e proprio per questo preferisco mantenere una netta separazione tra questa realtà e il cammino interiore dell'autore (nel 1952 ritrova la fede in seguito all'asportazione di un tumore maligno a cui non sembrava dovesse sopravvivere), che lo porta a posizioni sempre più esaltate, come quelle espresse nel 1978, ormai però emigrato a Harvard e in piena temperie spiritualista: "L'esperienza del male diventa in tal modo scuola spirituale e criterio di giudizio indispensabile per la costruzione di una civiltà". Che l'esperienza del lager non possa essere mai una scuola spirituale, ma solo orrore e depravazione, lo conferma ovunque nel suo Arcipelago lo stesso Solzenicyn (cito a caso una delle frasi più pertinenti: "i lager sono stati inventati per lo sterminio"): k) conferma d'altra parte Varlam Salamov, l'altro grande testimone della storia dei lager staliniani, con i suoi Racconti di Kolyma (ripubblicato da Einaudi nel 1999; cfr. "L'Indice", 1999, n. 12). Solzenicyn racconta di aver più volte sollecitato la collaborazione di Salamov nella stesura Metafìsica della Riforma di Roberto Valle Aleksandr Jakovlev LA RUSSIA Il vortice della memoria da Stolypin a Putin ed. orig. 1999, trad. dal russo di Aleksej Hazov, pp. 590, Ut 60.000, Spirali, Milano 2000 Nella Russia-Urss la Rivoluzione era assurta al rango di categoria metafisica, che stava a indicare ciò che è "storicamente ineluttabile". Nella Russia postcomunista, invece, si va affermando una sorta di metafisica della Riforma, volta a dimostrare che la Rivoluzione d'ottobre è stata un incidente di percorso che ha distolto la Russia prerivoluzionaria dal suo naturale cammino verso la democrazia. Nel solco di questa nuova vulgata liberale si inseriscono anche le memorie di Aleksandr Jakovlev, ideologo della perestrojka gorbacioviana, che tra il 1983 e il 1991 ha ricoperto importanti incarichi istituzionali e di partito, e che attualmente (dopo essere stato presidente della società televisiva russa in epoca el'ciniana) somma nelle sue mani una serie di presidenze, tra le quali quella del risibile partito socialdemocratico. Anzitutto, Jakovlev narra la triste sorte dei riformatori in Russia, a partire da Stolypin, il primo ministro che, all'indomani della rivoluzione del 1905, aveva tentato di europeizzare e di modernizzare l'impero russo, liberando il popolo dal "giogo" della comunità contadina e cercando di dar vita a un'"autocrazia di diritto". Se non fosse stato assassinato dai terroristi nel 1911, Stolypin, secondo Jakovlev, avrebbe portato a compimento 0 proprio programma di riforme, impedendo, in tal modo, che attecchisse in Russia il "bacillo criminale" del bolscevismo. Sostenendo questa tesi - per altro non nuova, essendo stata illustrata da Solzenicyn in La ruota rossa -, Jakovlev vuole dimostrare non solo che l'autentico padre della perestrojka è stato il primo ministro dello zar, ma che Gorbacév ed El'cin non hanno saputo "ritentare" la "svolta progettata" da Stolypin affermando il principio della proprietà individuale e favorendo lo sviluppo dell'"imprenditorialità di massa" nell'ambito di uno Stato di diritto. Sebbene la perestrojka sia nata da un'errata valutazione sulla riformabilità del sistema sovietico, Jakovlev si arroga il merito postumo di aver dato vita a un "esperimento catastrofico" che ha distrutto il totalitarismo sovietico dall'' 'interno". Riservando a se stesso il ruolo del "beato romantico" e dell'anima bella, Jakovlev afferma che Gorbacév ha "deformato" l'idea originale della paradossale perestrojka, allontanando dal potere il principale ispiratore della Riforma (lo stesso Jakovlev) e alleandosi con i "Mefistofele" del Kgb. In tal modo, Gorbacév ha implicitamente favorito il colpo di Stato "bolscevico" del 1991, accelerando la fine del-l'Urss. Sebbene la Russia postcomunista sia preda di un "estremismo di tipo nuovo" ("la mone-tarizzazione totale dell'anima e del corpo"), Jakovlev giudica positivamente le dichiarazioni di Putin sul "liberalismo sociale" e sulla "dittatura della legge". Ammantando le sue previsioni per il futuro con un vaniloquio cosmico (democrazia dei piccoli spazi, "ecosvi-luppo", scomparsa delle megalopoli, capovolgimento della piramide del potere), Jakovlev annuncia che, nonostante le battute d'arresto imposte da Gorbacév e da El'cin, la Riforma continua.