N. 5 Saggistica Il visitatore immaginario Avventure dell'astrazione Felpate apocalissi di Giuseppe Merlino GIORGIO MANGANELLI, ASCOLTATORE MANIACALE a cura di Paolo Terni pp. 88, Lit 12.000, Meno, Palermo 2000 Luglio 1980, negli studi romani di Ra-diotre, un colto musicologo, Paolo Terni, incontra per cinque giorni consecutivi Giorgio Manganelli, scrittore geniale ed eccentrico. Di contro all'ossequiosa estraneità dei letterati italiani nei confronti della musica (fatto salvo il melodramma), Manganelli si svela come un appassionato e maniacale ascoltatore. Terni lo interroga e lo pedina nei luoghi più ascosi del suo discorso, lì dove avvampano il "furore per l'astrazione" e il fervore per la combinatoria. Sono cinque i temi principali del ciclo radiofonico: l'evoluzione dell'ascolto, da psicologico a formalistico; il ruolo del silenzio in musica; il ricorso alla "volgarità" e le sue metamorfosi; le soppesate risorse della musica e della letteratura e la loro impari competizione; e gli usi diversi della citazione. Per ogni tema sono indicati eccellenti ascolti che consiglio al lettore del libretto curato da Paolo Terni, per Sellerio. Ai temi indicati ne aggiungerei un gruppetto, speculare ma meno rilevato, che è all'opera nella testa del letterato Manganelli. L'abbandono agognato e impossibile del "significato" in letteratura (è la linea Mallarmé, Valéry, Blanchot?); l'obbligo del dire, che è proprio della lingua (un uguale rovello assillava Roland Barthes nella sua legon al Collège de France), la quale può alludere al silen- zio solo con qualche stupenda elisione (è il caso dei "silenzi" di Flaubert letti da Proust); la volgarità importata che, in musica, si disfa nel contesto che l'accoglie, mentre, in letteratura, ostinatamente rinvia all'originale triviale (ma, forse, all'esempio verdiano di Manganelli si potrebbe appaiare l'esempio balza-chiano ove la volgarità entra nel sistema dell'energia dei corpi e dei caratteri); la citazione che, in musica, si fa "maceria speciale" -preziosa res nullius - per costruire la città dell' armonia, mentre in letteratura resta sempre "un immigrato di dubbia moralità". E infine, l'invidia aggressiva del letterato per il musicista: il primo non racconterà mai quelle avventure dell'astrazione o quel romanzo delle forme che l'arte dei suoni consentirà invece al secondo. La nostalgia di Manganelli per un'originaria indistinzione è rivelata dalla sua raccolta di indizi di una vasta complicità: tra angoscia e gioco, tra maceria e forma, tra volgarità e nobiltà. Dietro il lusso verbale, le eleganze stilistiche, le sterminate erudizioni e le reticenze e le pudicizie e i sottintesi si percepiscono ancora i rumori titanici di una rèverie cosmogonica - le peripezie dell'Uno - tanto più operante quanto più taciuta. Un piccolo bagliore: la paginetta sulla cantilena che è pre-discorsiva, materica (di materia sonora) e post-discorsiva (ali meanings spent), suono edenico e paradisiaco. Una piccola traccia: l'assimilazione, fugace ma reiterata, tra liturgia e astrazione, tra liturgia e forma; e quindi, forse, un'idea di arte moderna come rito, celebrazione, cerimonia, défilé di emblemi, neo-araldica... Giorgio Manganelli SALONS pp. 160, Lit 65.000, Adelphi, Milano 2000 Per Manganelli il cielo non esiste di Maria Perosino Troppo tardi: incapace di frequentare metodicamente le biblioteche nostrane, di compilare schede, di catalogare argomenti, di redigere note, ho dovuto ridurmi a fare il genio. Miserabile fine, per chi era nato per gli studi. Ma, in questo modo, mi sono esentato da tutto ciò che non so fare, che è, appunto, tutto" (disarmante confessione, tratta da un articolo del 1977). Nel 1986 Franco Maria Ricci sottopone una serie di fotografie di opere d'arte a Giorgio Manganelli. Sono immagini di mostre reali o immaginarie, pescate da un repertorio visivo inusuale, a tratti dandystico, spesso appartato. Per una ballerina di Degas, di quelle che l'artista in vita non aveva voluto esporre, un Russo-Io o un Carrà, ci sono sfilze di opere minori se non addirittura ignote. Per certo sappiamo che Manganelli si è ben guardato dall'in-traprendere qualunque tipo di ricerca storiografica, né ha abbandonato la sua scrivania per cercare un contatto diretto con le opere. Si è limitato a scriverne, pubblicando gli articoli sulla rivista "Fmr". E, al solito, l'ha fatto in modo geniale. Non molti se ne accorsero. Erano quegli gli anni in cui gli storici dell'arte dentro e fuori le università erano impegnati nella ricerca e tutela del patrimonio artistico del territorio, nel recupero di uno statuto per lo studio delle arti minori, nella difesa della storia sociale degli oggetti. Leggere una rivista patinata, del tutto estranea a questi orizzonti, e per di più con una copertina nera, non era affatto politicamente corretto. Anche se, oltre a Manganelli, ci scrivevano intellettuali come Calvino e Garboli. Ben venga dunque quest'edizione, licenziata tra l'altro mentre i critici più avvertiti stanno cominciando a metterci in guardia dal liquidare troppo frettolosamente la figura di Manganelli come scrittore apolitico. Ma cosa sono, esattamente, questi scritti? In prima e ultima analisi un testardo esercizio dello sguardo. Uno sguardo ostinatamente riconvocato e messo in relazione con una cultura girovaga e onnivora, antiecologica: "Se penso al giardino progettato da Emil Nolde, mi accorgo che i fiori fanno parte di una misteriosa congiura mondiale per imporre l'anonima bellezza del colore a un pianeta riluttante". Una cultura così radicalmente indossata (mangiata, avrebbe forse detto un inconsueto Gianni Celati pochi anni prima) che ben sa cosa sono quegli angipor- ti dell'esistere cui le opere riprodotte tentano con insistenza di sfuggire. Ma sa anche prendere fiato per dire che il cielo non è un luogo: è una preziosa invenzione della men- E impossibile commentare, qui, tutte le visite immaginarie a mostre, collezioni o ritrovamenti suggerite da Franco Maria Ricci, scritte da Manganelli, voyageur immobile, e raccolte in volume, Sa-lons, da Adelphi; è lecito, però, dichiarare le proprie preferenze e azzardare qualche considerazione generale. Manganelli lavora con un glossario sontuoso, un dovizioso repertorio di sinonimi e un infallibile acume aggettivale; la sintassi è semplice; l'elenco e l'accumulazione lo eccitano; si lascia guidare dal tropismo che sospinge un significante verso l'altro, correndo il rischio di sequenze verbali arbitrarie ma riuscendo a far nascere idee nuove o sorprendenti dalla materiale congiunzione di parole reciprocamente sedotte. La medietas è antipatica a Manganelli; il suo sguardo è astronomico o geologico: egli guarda da altezze sublimi donde si disvelano mutevoli geometrie e intrecci di forme impensati, o sonda l'interno oscuro e torpido degli oggetti. Astri e interiora sono la materia adatta a questo indovino del mondo. Sarà un gioco tutto questo? Un virtuosismo? Una patologia dell'occhio? Il difetto di una sensibilità cui repelle la superficie? Credo che si tratti invece di una visionarietà metafisica, insofferente a ogni richiamo naturalistico te, una inesistenza che custodisce in guise fisiche e metafisiche tutto ciò che è esistente. Insomma una cultura liquida, che agisce infinite rifrazioni, che come l'acqua è presenza magica, luminosa, forma informe, instabile e mobile. ■ "Si aggira da padrone tra le rovine lieto di aver intravisto i bagliori della catastrofe" Altre storie Aldo Bodrato, Storie mancine. Storie di bestie, di uomini e di santi, prefaz. di Paolo De Benedetti, pp.134, Lit 20.000, Diabasis, Reggio Emilia 2000. Apologhi e favolette di pungente attualità, modellate con "riso e pianto" sulla tradizione narrativa dell'ebraismo e del cristianesimo. Sandra Reberschak, Domani dove andiamo?, pp.117, Lit 18.000, Giuntina, Firenze 2001. Confronto di storia e di vite fra una madre novantenne e una figlia non giovane in una narrazione costruita tutta sul filo del telefono: una prova di bravura dialogica. e a ogni primato dell'evidenza, e che fa dell'impegno stilistico un'impresa conoscitiva. L'occhio di Manganelli non si lascia istruire dal moderno "sospetto", ma si affina sulle figurazioni delle metamorfosi e si affila nella pratica anatomica di sezionare e disgiungere forme orgogliosamente compatte. Nel cabinet di Manganelli campeggia una sorridente Vanitas, amica di felpate apocalissi. La sua natura di aruspice lo dispone a speculare sulla vitalità dell'inorganico e, all'opposto, sull'inerzia e passività dell'umano. Manganelli è attirato dalla Cina esotica "ai margini tra umano e no" (il lettore ricorderà il suo libro su Cina e altri orienti, del 1974); dallo specchio che duplica il sembiante in vane forme identiche; dal gioiello che protegge e mineralizza il corpo; dal corpo che, nella danza, da labile e infermo si fa duro e infrangibile (è l'idea kleistiana della perfezione del gesto istintuale o meccanico che riappare in Manganelli); dal corpo viscerale acquattato dentro l'ovvietà della pelle (un gu- sto, questo, condiviso con Ce-ronetti); o dallo scheletro, "gruccia taciturna a cui stanno appese le viscere tortuose e la pelle, addobbo sapiente e elegante...". Qualche ulteriore esempio. Il tema delle rovine gli è massimamente congeniale per il loro "desolato sublime" (da segnalare a Francesco Orlando) intriso di "torbida vitalità vegetale" e di "gagliarda tentazione animale": i tre regni sono convocati per celebrare le ininterrotte gioie della fatiscenza. L'eternità del decadere attrae Manganelli poiché, come esaurimento e marcitura, esso è prodigo di mutanti e di tran-sienti, è una cornucopia del lutto e un'enciclopedia della malinconia. Le rovine che più gli stanno a cuore sono quelle del sacro e lo stingersi del numino-so: lì egli si aggira da padrone dei luoghi, lieto di aver intravisto i bagliori della catastrofe; e gli oggetti e le opere di cui si prende cura sono frammenti di cerimonie interrotte o indizi di liturgie abolite. Al limite del camp (e più tagliente di quello arbasinia-no) è la magnifica variazione sulle immagini di Cecil Beaton. Manganelli raduna i tratti fondamentali delle fotografìe di Beaton così restie a lasciarsi definire, come prescrive il genere "patinato". Dentro la grande rubrica dell'eleganza snob, Manganelli - tassonomista del tenue - individua il fascino dei corpi intangibili, l'enfasi di posture silenziose, lo sguardo luminoso e senza oggetto della duchessa di Windsor, il "rèfolo di effimera psiche" che increspa corpi chic vocati alla marmoreità, il lusso come solitudine estroversa, lo zelo profuso per conquistare l'inespressività e "la grazia delicata del non esistere" (Firbank e Warhol dove siete?), il velario di reticenza che isola ogni foto, eccetera. E infine un elenco frettoloso di altre indagini. L'elogio della tabacchiera, angusta conchiglia rococò; le mansioni del ventaglio, ripara-tor di guance "dall'indiscreto ardor", sipario merlettato fra "labbra inquiete" e tocco di "farfallità" nei ludi mondani; il sigillo di luttuosità apposto sul vetro Lalique; il profilo di Massimiliano di Asburgo, tragico operettista e "collezionista di se stesso... oggetto raro nello stipo della storia"; il gioiello Carrier, incrocio di finezza upper class e di protervia nouveau ri-che-,; le meravigliose, cadenzate frasi sull'accidiosa estate italiana del 1934, con i suoi dipinti "sudati" e di accaldata sensualità; gli acquerelli marktwainia-ni di Winslow Homer che fissano l'Eden americano nel momento in cui si trasformava in Repubblica; e così via. Ma qui mi fermo. Se l'elenco crescesse a dismisura, rischierei di precipitare nel cattivo pastiche, la trappola più cara alla perfidia di Manganelli. (G.M.)