Storia Un ardito nichilista Elio Providenti PIRANDELLO IMPOLITICO Dal radicalismo al fascismo pp. 246, Ut 26.000, Salerno, Roma 2000 La vicenda politica di Pirandello, scrive Elio Providenti, è rappresentativa per l'intera generazione dei "nati dopo il Settanta", i quali dovettero sperimentare il doloroso fallimento degli ideali risorgimentali in campo politico e delle certezze positivistiche in campo scientifico e culturale. Pur caratterizzato, secondo l'autore, da una "radicale impoliticità" di fondo, in un periplo durato cinquantanni Pirandello tocca quasi tutti i punti privilegiati d'un esemplare percorso contestatario. Il fiocco annodato al collo, l'astio per i politici che hanno tradito gli ideali garibaldini, lo spiccato anticlericalismo, un nichilismo a tratti incontenibile: ecco il primo Pirandello, ascritto da Providenti a una "sinistra radicale, d'impronta repubblicana e cavallottiana". Affiora però di continuo la sua impoliticità di fondo, come dimostra il sostanziale paternalismo d'una poesia solo di rado alimentata da una visione autenticamente critica del sociale - si conosce del resto la diffidenza di Pirandello verso l'arte impegnata. Parallelamente, la sua politicità fa registrare una continua evoluzione. Sullo scorcio del secolo è vicino ai Fasci siciliani, del che sarà anni dopo testimonianza I vecchi e i giovani; di lì a poco aderisce al "nasismo", un fenomeno di solidarietà regionalistica verso il deputato siciliano Nunzio Nasi, incorso in guai giudiziari, secondo alcuni, per un complotto giolittiano; si manifestano poi nel suo pensiero politico, all'inizio del Novecento, gli influssi di Sorel, per il movimentismo e l'irrazionalismo, e di Orfani, per il nazionalismo d'ascendenza mazziniana. Arrivano infine le "radiose giornate", e una guerra che desta in Pirandello reazioni ambivalenti: lo disgusta quando tracima in quella versione deteriore di eroismo che è ai suoi occhi il dannunzianesimo, ma, al tempo stesso, lo galvanizza, risvegliandone il giovanile e mai del tutto sopito ribellismo. Non a caso fin dal '17 Gramsci, nell'accostare Pirandello ai futuristi, lo definisce "un ardito del teatro". E come i futuristi lo scrittore parteggerà nel dopoguerra per la nuova destra nazionalista, fino ad aderire al fascismo, in piena crisi Matteotti (settembre 1924). Accanto alla possibilità d'un ricambio generazionale della classe dirigente in direzione antiborghese, egli scorge nel fascismo un "assoluto attivismo trapiantato nel terreno della politica", contrassegnato da un'intrinseca e peculiare tensione tra forma e movimento che rispecchia quella propria della vita umana, e che lo destina, quindi, a trionfare sull'astratto verbalismo democratico. Non solo Pirandello firmerà allora il Manifesto degli intellettuali fascisti, ma nemmeno esiterà a svolgere all'estero un'opera di propaganda per il regime, e a offrire la medaglia del Nobel come oro alla Patria in guerra nel '35. Un fascismo dunque senza macchia, senza problematicità? Così pare, ma non è. Se infatti Pirandello sarà più volte in udienza da Mussolini e lo difenderà fino alla fine in dichiarazioni rilasciate ai quattro capi del mondo, i rapporti fra i due rimarranno sempre sotterraneamente tesi per una forte incompatibilità caratteriale, né svaniranno i dissidi sulla questione delle compagnie teatrali. Pirandello si conferma così un impolitico, dice l'ottimo Providenti. E sia: del resto, la tragedia del consenso al fascismo fu scritta proprio dalle voci, più o meno illustri, di milioni di impolitici, quando non di apolitici o di antipolitici. (D.R.) Il coraggio delPun per cento di Daniele Rocca Giorgio Boatti PREFERIREI DI NO Le storie dei dodici professori che si opposero a mussolini pp. 336, hit 30.000, Einaudi, Torino 2001 A un anno dal Giuramento rifiutato di Helmut Goetz (La Nuova Italia, 2000; cfr. "L'Indice", 2000, n. 12) appare un nuovo studio, in veste d'omaggio per il settan-tennale della vicenda, sui docenti che non prestarono il giuramento di fedeltà al regime fascista, perdendo così la cattedra. Malgrado alcuni accettassero di giurare con le motivazioni più nobili (da Einaudi a vari comunisti), è evidente come l'orientamento generale del '31 sia consistito in una tendenza all'adeguamento nei confronti del regime, per lo più determinata da meri interessi carrieristici. Qualche numero. Su 1250 docenti, solo 12 opposero un rifiuto; non si arriva all'un per cento; dove finirono, si chiede Boatti, i quattrocento firmatari del Manifesto Croce di pochi anni addietro? Fra i dodici, gli ebrei sono ben quattro (il giurista Luzzatto, il chimico Errerà, l'orientalista Levi Della Vida e il matematico Volterra), malgrado i docenti ebrei non arrivino in tutto al centinaio. Nel libro di Boatti, seppure con qualche caduta retorica, vengono narrate sia le storie dei dodici sia le ultime lotte di coloro che li avevano preceduti sulla stessa via - come Salvemini, il quale aveva lasciato la cattedra fin dal '25. Il più giovane dei dodici fu Edoardo Ruffini Avondo, figlio di Francesco Ruffini, il grande giurista dal liberalismo inflessibile e cristallino, anch'e-gli del gruppo. Fra i più anziani, oltre a Ruffini e al filosofo Piero Martinetti, si incontra Bartolo Nigrisoli, ordinario alla Facoltà di medicina di Bologna, antifascista della prima ora, che dopo il '38 per protesta si sarebbe dimesso da tutte le associazioni mediche praticanti la discriminazione contro gli ebrei. Tre furono i torinesi: Mario Carrara, antropologo lombrosia-no, Francesco Ruffini e Lionello Venturi, storico dell'arte, pure firmatario del Manifesto Gentile sei anni prima. Ernesto Buo-naiuti, storico del cristianesimo già scomunicato dalla Chiesa in quanto esponente del modernismo, e Gaetano De Sanctis, antichista, sono invece i cattolici che non giurarono. Nessuno dei due ebbe incertezze sul da farsi, benché padre Gemelli, attivissimo nell'intera vicenda, al fine di indurre i professori cattolici a dir di sì al regime senza sentirsi per questo sottratti alla potestà papale, in una circolare ufficiale facesse passare il giuramento al fascismo come un semplice atto di lealtà verso il governo nazionale. Chiude la rassegna Fabio Luzzatto, perseguitato anche in quanto massone e giellista. Un'ultima sezione riguarda le reazioni degli intellettuali stranieri dinanzi all'attacco maturato in Italia nei confronti della libertà della cultura, e fra le manifestazioni di simpatia per gli epurati si ricordano le oltre mille d'un manifesto internazionale ospitante, fra l'altro, le firme di Dewey, Russell e Unamuno. Alcune pagine toccano nervi rimasti scoperti. In particolare, colpisce la morsa d'acciaio in cui Chiesa e fascismo stringono in questi anni i rispettivi - e spesso comuni - dissidenti: spesso, come si è visto, per il tramite di personaggi la cui presunta venerabilità troviamo riaffermata ancor oggi, ad ogni angolo, con dediche di piazze, scuole e policlinici. ■ Vittima o martire? di Alessio Gagliardi Brunella Dalla Casa ATTENTATO AL DUCE LE MOLTE STORIE del caso Zamboni pp. 291, hit 35.000, il Mulino, Bologna 2000 Il caso Zamboni è, nelle sue linee generali, ampiamente noto. Il 31 ottobre 1926, a Bologna, nel corso delle celebrazioni dell'anniversario della marcia su Roma, il quindicenne Anteo Zamboni viene identificato come autore di un fallito attentato nei confronti di Mussolini e linciato. Sebbene il padre di Anteo, un tipografo bolognese anarchico e poi divenuto fascista, sia in otti mi rapporti con numerosi esponenti di primo piano del fascismo locale e, soprattutto, abbia una relazione di amicizia con il ras Leandro Arpinati, ufficialmente non viene mai messa in discussione la colpevolezza del ragazzo. Non solo, l'inchiesta della questura bolognese conduce all'incriminazione dell'intera famiglia Zamboni (oltre ai genitori di Anteo, due fratelli e una zia), e una lunga vicenda processuale, caratterizzata da forti condizionamenti politici, si conclude con la condanna, come complici, del padre e della zia di Anteo. Parallelamente all'inchiesta della questura, però, sin dai giorni immediatamente successivi l'attentato iniziano a circolare numerose voci tendenti a mettere in discussione la verità ufficiale. A suscitare i principali dubbi è proprio il coinvolgimento di Anteo, secondo numerose testimonianze del tutto estraneo ai fatti e ucciso per coprire i veri colpevoli. Molte delle lettere anonime che copiose giungono agli inquirenti e delle indiscrezioni raccolte dai fiduciari riconducono le ragioni dell'attentato a un complotto interno al fascismo: un complotto, a seconda delle voci, operato dalla dissidenza fascista facente capo a Farinacci, contraria alla politica normalizzatrice di Mussolini e di cui Arpinati è stato uno degli esecutori, o, al contrario, secondo una versione assai meno credibile, guidato dallo stesso Arpinati. Non manca neanche chi, soprattutto negli ambienti dell'antifascismo, ritiene che si sia trattato di una messa in scena organizzata dallo stesso Mussolini per mettere in atto misure repressive contro gli oppositori. Infatti, è proprio sull'onda delle reazioni suscitate dalla vicenda, il quarto tentativo di uccisione del duce nel giro di un anno, che il regime pone in essere la sostanziale soppressione delle residue garanzie liberali assicurate dallo Statuto e dà avvio a un mutamento in senso autoritario dello Stato. Il libro di Brunella Dalla Casa non vuole sciogliere i dubbi. Tutte le ipotesi, ad eccezione di quelle incentrata sul complotto familiare o sulla figura di Arpinati, sono considerate plausibili, compresa la versione che vuole Anteo protagonista solitario, autore di un gesto di ribellione rivolto semmai più contro la forte e ingombrante personalità del padre che contro il fascismo. La lacunosità delle fonti non consente di offrire una risposta sicura agli interrogativi. D'altra parte, al centro del suo lavoro l'autrice vuole mettere non la soluzione di un giallo ma la ricostruzione di una parte, per nulla marginale, di storia del fascismo. Dietro le inchieste, le voci e la vicenda giudiziaria e personale della famiglia Zamboni, c'è infatti il complesso intreccio di alleanze e scontri interni al partito fascista in un momento centrale del ventennio, in quell'arco di tempo che va dall'uccisione di Matteotti alla svolta autoritaria del 1926. Emerge infatti, sullo sfondo delle vicende bolognesi, il conflitto tra gli intransigenti, Farinacci su tutti, e i moderati, e tra il potere centrale e i ras locali. Nell'ultimo capitolo, infine, l'autrice esamina le ripercussioni dell'intera vicenda nel dopoguerra. Portando allo scoperto la difficoltà, per l'Italia antifascista, di costruire una memoria pubblica dell'episodio senza sapere con certezza se considerare Anteo vittima o martire. ■ nel fascicolo in libreria dossier / Cosa c'è in tavola Nei meandri della produzione alimentare, dai campi ai nostri piatti BIOTECNOLOGIE Avanti tutta o moratoria? Appelli e controappelli dal mondo della ricerca CRITTOGRAFIA I quanti possono garantire comunicazioni sicure e riservate. E smascherare gli spioni FARMACI La sperimentazione è a caccia di volontari. Poveri e docili COLLI ALBANI Un vulcano attivo alle porte di Roma Abbonamento 2001: lire 80.000. L'importo dell'abbonamento può essere pagato: con versamento sul c/c postale n. 11639705 intestato a Edizioni Dedalo srl, casella postale BA/19, Bari 70123 o anche inviando assegno bancario allo stesso indirizzo. e-mail:info@edizionidedaio.it www.edizionidedalo.it