ÉBblKE Èft? RRf piK? Dip OYIIEN n.5 Dossier n. □ z w E ^ e rL □ ti n £ M •ut ì z G ? e fL & Auto tradursi? Tanto è roba mia di Diego Marconi M UL se s 3 Mi è capitato molte volte di dover tradurre in inglese o in francese miei articoli scritti originariamente in italiano, e anche di dover tradurre in italiano articoli scritti originariamente in inglese; e qualche volta persino di dovermi tradurre dall'inglese in francese. Capita a chi fa il mio mestiere, è normale. Ma mi è anche successo (e questo è meno frequente) di dover tradurre in italiano un mio intero libro scritto originariamente in inglese, ed è di questo che intendo parlare. Dico subito che è un lavoro che ho fatto malvolentieri, perché è piuttosto noioso: uno quelle cose le ha già dette una volta, e non ha voglia di ridirle. Inoltre c'è qualcosa di vagamente (e ridicolmente) narcisistico nel fatto di autotradursi. E già buffo leggersi - dico "leggersi" non per correggersi, o per ricordare quel che si pensava su un certo argomento, ma il leggersi fine a se stesso - figuriamoci tradursi. L'unica sarebbe trattare il proprio testo come se fosse stato scritto da un altro; ma, naturalmente, non ci si riesce. Si incorre invece in difficoltà caratteristiche, che dipendono dal fatto che si sta traducendo se stessi. Alcune sono le seguenti. "Tanto è roba mia" - Quando ci si autotraduce, è naturale pensare di essere in qualche modo esentati dall'impegno di fedeltà alle intenzioni dell'autore, a cui ogni buon traduttore si sente più o meno vincolato. Tanto è roba mia, si pensa; che cosa importa se adesso dico una cosa un po' diversa da quella che avevo detto allora? All'autore non importa (dato che non importa a me, e l'autore sono io), all'editore neppure - anzi, dovrebbe essere contento perché gli viene dato qualcosa di nuovo e, presumibilmente, di meglio. Ma questo atteggiamento è sbagliato, credo; se non altro è scorretto nei confronti del lettore, a cui si sta offrendo una traduzione e non una "Seconda edizione riveduta e corretta" - Questa è un'altra tentazione. In fondo, si pensa, invece che una traduzione potrei fare una seconda edizione migliorata (così sono completamente libero di fare di volta in volta quel che mi pare). Ma anche questa non è una buona idea. Una traduzio- ne ha i suoi tempi di riflessione, che sono diversi e inferiori a quelli di una seconda edizione. E meglio non mischiare le due cose; si rischierebbe di fare un cattivo servizio anzitutto a se stessi. Correggere qualche errore marchiano, ancorché sia leggermente sleale, è perdonabile; pasticciare fra traduzione e revisione, meglio di no. XIII □ e ^ a M Z e IBUKIi ti? WT PW? DTp YIIL\ G e cosa volevo dire in realtà?" - È possibile :he, come molti sostengono, l'inglese sia una lingua intrinsecamente più precisa dell'italiano; oppure, potrebbe darsi che quando si scrive in una seconda lingua si finisca per essere più precisi semplicemente perché non si padroneggiano bene i meccanismi di mistificazione di cui si è maestri nella propria lingua madre. Fatto sta che, in generale, le cose che scrivo in inglese sono più chiare e precise di quelle che scrivo in italiano. Tuttavia, in alcuni casi mi sono trovato di fronte a frasi o espressioni che, pur essendo perfettamente leggibili in inglese, nascondevano in realtà delle ambiguità che la traduzione italiana richiedeva di sciogliere. In questi casi, uno si domanda che cosa voleva dire in realtà, come se lo domanderebbe se l'autore fosse un altro. Qui è futile cercare di riprodurre in italiano l'equivocità dell'originale (come forse dovrebbe fare l'eterotraduttore); tanto vale sciogliere l'ambiguità. Se si ha l'impressione di un impoverimento, si sappia che è un'impressione fallace: l'originale non era più "denso e pregnante", era solo più oscuro (come l'autore, cioè noi, in realtà sappiamo benissimo). Verrebbe da concludere: se vi propongono di autotradurvi, non fatelo. E però, non è forse vero che ci si fida più di se stessi che di qualsiasi altro traduttore? E che quando il traduttore è un altro si passano settimane a correggere la sua traduzione (se si conosce la lingua), e si è poi sempre insoddisfatti del risultato? Insomma, il calcolo costi-benefici è più o meno in pareggio; ma non rinunciate a una vacanza in Polinesia per amore di un'autotraduzione. marconi@cisi.unito.it MRl pn? cip (DYnXNoM^ ÉRblKt* ti? HRTpU? Oip Z questo un caso emblematico dei problemi che si pongono al traduttore. Com'è noto, si tratta di un romanzo lipogramma-tico, di oltre trecento pagine, interamente scritto senza la lettera "e". In francese, è la vocale più frequente, dunque escluderla pone il massimo delle difficoltà. Non è così per tutte le lingue: in spagnolo, per esempio, è la "a" ad avere il massimo delle occorrenze (di qui la scelta di farne in quella lingua un lipo-gramma in "a"). Ma non solo di frequenza e di conseguente difficoltà si tratta. La "e" di Perec è anche piena di riverberi semantici perché profondamente connessa all'identità dell'autore: è la vocale che caratterizza il suo nome (quattro occorrenze), che collega "je* (io) a "pére" e "mère" (padre, madre), quegli "eux" (loro, ancora il fonema "e") scomparsi sotto la grande ascia ("acbe" = "H") della storia. La disparition è dunque, come nota Philippe Lejeune, un romanzo non solo lipogramma-tico ma anche liposemico (è l'intero universo semantico della "e" a esserne abraso). E allo- ra, quale aspetto privilegiare della regola perechiana, quello strettamente lessicale della massima occorrenza (caso spagnolo), o i suoi rimandi semantici che ne fanno, a un tempo, "il racconto dello sterminio ma anche la storia di una lingua salvata dall'annientamento" (Falchetta)? Se qui l'interrogativo è prevalentemente retorico, altrove diventa assai più reale: che fare, ad esempio, quando le contrain-tes sono nascoste e l'autore vuole che restino tali? Fatta salva la segretezza, occorrerebbe quantomeno un canale decrittato tra autore e traduttore, un patto occulto per ripararsi da inevitabili naufragi. Di questo e di altro si è discusso in un recente dibattito al convegno su quarant'anni di letteratura potenziale, svoltosi a Capri nell'ottobre scorso, che ha visto riuniti l'Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle) e l'Oplepo (Opificio di letteratura potenziale) intorno al tema La regola è questa. Per ulteriori scorribande nel territorio delle traduzioni potenziali, l'Oplepo ha deciso di costituire un laboratorio di traduzione di testi a contraintes (il primo stage è previsto per l'estate; notizie e aggiornamenti in www. oplepo . it). Tra i progetti, la ripresa di La vie mode d'emploi (La vita istruzioni per l'uso) di Perec, la cui prima traduzione (di quasi vent'anni fa) non ha potuto usufruire degli illuminanti quaderni preparatori che esplicitano alcune delle contraintes nascoste nel romanzo. Poi sarà la volta dei Cent mille milliards de poèmes di Queneau, straordinaria macchina per produrre sonetti fino alla fine del mondo. Dall'iper-romanzo di Perec ai sonetti-fettuccia di Queneau, il potenziale acrobatico del traduttore a contraintes, al grido di "ostrigotta ora capesco", è pronto a scattare. mariasebregondi@iol.it Tradurre la scienza x x 4: U 13 3 "vi e ^ a M Z e f m se 55 V* & -T it u 3 e ^ a M Qualche cattivo esempio di Emanuele Vinassa de Regny Non sono né un linguista né un traduttore professionista, ma con le traduzioni scientifiche ho sempre avuto a che fare. Entrato in editoria proprio a causa di un errore di traduzione (in un'opera prestigiosa un "numero fattoriale" era diventato un "numero di fatto"), per lungo tempo mi sono dedicato alla revisione di traduzioni e, forte di questa esperienza, più tardi ho cominciato a tradurre. Non credo ci sia molta differenza fra la traduzione letteraria e la traduzione scientifica perché in entrambi i casi i gradi di libertà sono limitati. La libertà del traduttore scientifico risulta però più ristretta dalla necessità di usare termini specifici, e quindi di conoscere la terminologia scientifica nella lingua di origine e la corretta corrispondenza con la terminologia italiana equivalente: i sinonimi non esistono, e le parafrasi portano alla vaghezza e spesso all'errore. In compenso, con il rapido evolversi di scienza e tecnica, c'è talvolta la possibilità di incontrare termini non ancora standardizzati, il che permette al traduttore (assieme al revisore, se c'è) di "inventare" i termini italiani corrispondenti. Il problema, quindi, non è solo quello della fedeltà al testo originario, ma anche quello di riuscire a ricrearlo - in buon italiano - trovando la misura giusta per unire la necessaria creatività alla correttezza dei termini. A complicare la situazione si aggiunge però la "solitudine" del traduttore: a differenza di quanto accade in campo letterario, sono infatti assai rari i "critici scientifici", cioè le persone in grado di valutare correttamente le traduzioni, perché sono pochi gli studiosi di scienza che si occupano di queste cose. Mi limiterò a elencare alcuni errori che esemplificano la scarsa conoscenza dell'argomento, ma anche della terminologia e della storia della lingua. Il primo caso si trova in Le più grandi invenzioni degli ultimi due millenni, a cura di John Brockman (Garzanti, 2000). Accennando alle origini del computer si cita Charles Babbage, ma il suo analytical engine diventa il "motore analitico". In realtà si tratta della "macchina analitica", chiamata così fin dal 1842 da Luigi Menabrea, corrispondente e grande estimatore di Babbage. Quindi, scarsa conoscenza di quello di cui si sta parlando - il computer ha ben poco a che fare con il motore - e della storia della lingua - ai tempi di Babbage il termine "engine" (da "ingenium") significava soprattutto "strumento", "macchina". In un testo di grande successo, L'ultimo teorema di Fermat, di Simon Singh (Rizzoli, 1997), a un certo punto appaiono le "equazioni parziali differenziali", traduzione letterale ma del tutto sbagliata di partial differential equations, che in italiano sono le "equazioni alle derivate parziali". Un errore significativo si può trovare nell'Introduzione alla filosofia matematica di Bertrand Russell (Longanesi, 1947; e c'è anche nell'ultima edizione, 1984). Tra gli oggetti irreali, fa capolino la "quadratura del circolo" che, in matematica, non è ovviamente un oggetto irreale. Nell'originale si parla infatti di "round square", cioè di "quadrato rotondo", che oggetto irreale lo è davvero. Ma è un oggetto troppo strano, e forse per questo si è imposto il senso comune che considera impossibile (e quindi irreale) la quadratura del cerchio. Gli errori di questo tipo, se non sono troppi, in genere non alterano il valore complessivo del libro; sono comunque un chiaro indice della scarsa cura con cui viene affrontato il problema della traduzione di testi scientifici. Come dimostrano i tre esempi riportati sopra, che coprono più di mezzo secolo, la situazione non è nuova e la responsabilità ricade innanzitutto sulle spalle dei traduttori, troppo sicuri di sé, ma anche su quelle dei revisori, che non fanno il loro mestiere. Tradurre "bene" la scienza è difficile a causa della scarsa diffusione della cultura scientifica, anche nelle strutture editoriali. Anche se qualcosa sta forse cambiando, come dimostra il successo di molti libri scientifici "buoni" e il grande entusiasmo per gli science center, occorrerebbe coordinare gli sforzi per la diffusione della cultura scientifica, che continuano a perdersi per strada. Sarebbe bello che al coordinamento partecipassero anche gli editori, affinché i libri non fossero fatti solo "a scopo di lucro". vudierre@com2000. it Maria Zambrano L'uomo e il divino con un saggio introduttivo di Vincenzo Vitiello Michel de Certeau L'invenzione del quotidiano prefazione di Alberto Abruzzese distribuzione in libreria: PDE