Arrigalannu un sognu di Vittorio Coletti Andrea Camilleri IL RE DI GIRGENTI pp. 448, Ut 22.000, Selleria, falerno 2001 Solo in Italia è concepibile e leggibile un romanzo come Il re di Girgenti. Un romanzo scritto in una lingua locale e personale, in un dialetto ben noto e illustre, un idioletto fantasioso e preciso, nel siciliano di Andrea Camilleri. Perché solo in Italia? Perché solo in Italia un dialetto ha ancora forza di lingua, e tanto più ce l'ha quando questo dialetto è il siciliano, primo idioma poetico della nostra letteratura, volgare mai uscito dalle patrie lettere (si ricordi il Meli qui esplicitamente menzionato), da poco riaffermato alla grande dalle sue apparizioni nei molti, fortunati romanzi dello stesso Camilleri e di altri importanti scrittori della regione. Stavolta, però, il dialetto reale e reinventato dall'esuberante estrosità verbale dell'autore non si limita a rivestire punti precisi e limitati del testo - come perlopiù sinora nei precedenti romanzi dello stesso autore - né a svolgere un ruolo narratologico importante ma non esclusivo - come invece nella Mossa del cavallo (Rizzoli, 1999; cfr. "L'Indice", 1999, n. 7). Nel Re di Girgenti questo dialetto è la lingua di tutto il romanzo, del narratore e dei personaggi, occupa ogni spazio e si adatta a ogni situazione, lasciando all'italiano solo pochissime finestre: dove si simula un forbito linguaggio da storiografo barocco tipo Promessi Sposi, dove si parodiano e ripudiano i modi linguistici solenni del potere e dell'ipocrisia, dove si fissa con la crudezza dello stan- dard la vittoria della cupa tragedia sull'ilare commedia, cioè quando "il mumento è quello che è" e "di nicissitate assoluta abbisogna adoperari il taliano", perché il protagonista sta salendo sul palco dove sarà impiccato. Per tutto il resto del lungo romanzo l'idialetto (verrebbe da coniare questo neologismo) di Camilleri la fa da protagonista, frutto di una ricetta linguistica divertita e sapiente che riesce a raccontare i fatti come se si trattasse della solita lingua media e strumentale necessaria ai romanzi, e al contempo riesce a imporsi in primo piano come se fosse l'oggetto rappresentato, il personaggio principale, la vera storia. Senza sovraccarichi di realismo meridionalistico e senza troppe intellettualistiche ambizioni parodiche, il personalissimo siciliano di Camilleri scorre fluido e leggero ed è lingua capace di stabilire il rapporto giusto con le cose narrate, di affettuosa ironia, di disincantata lontananza, di partecipe solidarietà. Per chi, come me, è convinto che il romanzo abbia bisogno di una lingua non troppo invadente, perché sono la storia, i personaggi eccetera a dover occupare il primo piano; per chi, insomma, si ostina a credere che l'evidenza dialettale, i pasticci linguistici sono un limite più che un pregio, ancorché certo siano una caratteristica unica della nostra letteratura, questo libro è sulle prime un segno di contraddizione e sconcerto: allora, viene da chiedersi, si può scrivere un romanzo in una lingua fortemente differenziata, particolare, mezza vera e mezza finta? Sì, si può scrivere un ottimo romanzo, come lo è II re di Girgenti, ma resta in piedi anche l'apriori, la pregiudiziale della lingua, il romanzo infatti non chiede quale sia la lingua, gli basta che sia ben comprensibile (per intenderci un romanzo in bergamasco non sarebbe possibile) e che sia unica, la stessa, senza troppe variazioni; insomma se la scelta è monolinguistica, il romanzo accetta perfino un idioma vistoso e specifico, invasivo e incomparabile (ma ben dominabile da qualsiasi Il romanzo I. La cultura del romanzo A cura di Franco Moretti Una storia millenaria, una geografia planetaria. Nel sito Einaudi: anticipazioni, link, filo diretto col direttore dell'opera. Grandi Opere, pp. xvm-920 con 25 tavole fuori testo € 62,00 - L. 120049 Piano dell'opera: n. Le forme ni. Storia e geografia iv. Temi. Luoghi. Eroi v. Lezioni Einaudi www.einaudi.it N. 12 Narratori italiani lettore per via della sua vicinanza fonomorfologica alla lingua nazionale) come il dialetto siciliano manipolato da Camilleri, che stabilisce in esso la propria, pur originalissima, medietà, la sua regola. Questa regola è collocata ai confini dell'accettabilità linguistica comune, e la lingua adottata, ancorché uniforme, irrompe sulla pagina con strepito e colore, eccede con garbo, diverte con misura, non infastidisce mai e lascia sempre ammirati. Mi limiterò a citare alcune delle terne di esclamazioni che uno dei personaggi si lascia sfuggire tutte le volte che può soddisfare il suo particolarissimo gusto (e olfatto) sessuale: "Oh muschio sarbaggio! Oh radica di li-guorizia! Oh resina di pino!.. .Oh marvasìa liguorosa! Oh mieli di Grecia! Oh zuccaro di zammù!" Ma non vorrei che si pensasse che il romanzo di Camilleri ha il suo bello solo nella lingua. Perché c'è del buono anche (e come!) nella storia, nella girandola di vicende e invenzioni che precedono e accompagnano la nascita, caratterizzano la vita e segnano la morte di un re contadino, Zosi-mo, nella Sicilia del primo Settecento. Gremita è la galleria dei personaggi, alcuni magistralmente ritratti, anche se (eccetto il protagonista) tutti sempre dall'esterno: don Aneto Purpigno, il menzionato amante di odori, Gisuè, il padre intraprendente del futuro estemporaneo re, il nobilotto spagnolo e spagnolesco don Sebastiano Pes y Pes, sua moglie Isabella, il capopolo mastro Girlando, lo spiritato padre Uhù, l'esoso vescovo Raina, il poeta Grigoriu che parla solo in endecasillabi, il mago Apparenzio ecc. Più di una volta, già lo abbiamo visto, Camilleri fa il verso all'archetipo dei romanzi storici italiani, a quei Promessi Sposi anch'esso ambientato in regimi spagnoleggiami e nei pressi del barocco: una citazione è quasi il lungo capitolo sulla peste, in cui si ripetono e si rovesciano scene (scienziati che negano l'evidenza della malattia perché contraddice la teoria, vescovi che fanno processioni contro di essa e ne favoriscono il contagio) celeberrime del romanzo manzoniano. Da una storia si va in un'altra, da una vicenda ne spunta fuori una nuova e tutta diversa: il romanzo è un'invenzione senza risparmio, una corsa senza soste e rallentamenti che intriga e fa pensare. Camilleri ci ha messo davvero tutto: da una citazione dell'Ar-naut Daniel rifatto da Dante nella Commedia a un'autocitazione attraverso un antesignano del suo famoso Montalbano, di cui questo settecentesco capitano di polizia parodia pure il nome: Montaper-to. Del resto, nell'onomastica c'è una delle più strabilianti esibizioni linguistiche del libro, che recupera, crea, maneggia nomi stupendi e spesso li mette in fila come in "Ciccina aviva diciotto anni e mezzo, era figlia di Martino Lan-zafame e di Locurzio Giuseppa e aveva quatro frati, Luzzu, Gaspa-nu, Totu e Vicè" o "i patri Siquei-ros, Benavente, Azis, Maccagnu-na, Perez, Llorente, Menendez y Pelayo e Tamarit" (e nella stessa pagina c'è anche "il familiare Benito Cereno") o in questa sequela di "don" terminata con un diverso, esilarante rintocco: "I giurati che governavano Montelusa, a parte il sinnaco e consultore don Tìndaro Dedomini, erano don Al-terio La Seta, don Filiberto Giar-dina, don Occàso Barbèra, don Silvestro Cozzo e din Tinino Tito. Proprio accussì la genti lo chiamava 'din' per farlo sonare a parte da tutto quello scampanìo di 'don', pirchì quanno parlava, caminava, taliava, pativa priciso ima fìmmi-na e non un omo". Il re di Girgenti è un libro cui non bisogna certo chiedere quello che non può e non vuole dare (personaggi a tutto tondo, riflessioni profonde). Ma se gli si chiede di essere un inno alla fantasia e alla libertà di narrare, come lo è la "comerdia" di carta che il protagonista libera in cielo da bambino e pochi istanti prima di morire, allora risponde in pieno. Ne possono ben sintetizzare ragioni e qualità le parole con cui Zosimo, sorridendo, spiega a un nobile quello che sta facendo per i suoi sudditi contadini, da sempre umiliati dalla fatica e dal bisogno: "Non lu capirete mai quello che gli sto dando... Non potiti, pirchì nun aviti patitu la fami, la miseria nì-vura. Ma vi lo dico l'istisso: ci staiu arrigalannu un sognu". E un sogno cinematografico, tipo il finale di American Beauty, è proprio l'ultima pagina del romanzo, coi tetti della città visti dall'alto e, su di essi, i paesani curiosi e immalinconiti che danno in silenzio l'addio al re povero che li ha fatti sognare. Al lettore, chiudendo il libro, non resta che fare come il "marchisi" alle parole di Zosimo e inchinarsi "fino a terra". ■ Vittorio.coletti@tin.it Il frammentismo è una prosa seria di Giuseppe Antonelli Alessandro Banda DOLCEZZE DEL RANCORE pp. 112, Ut. 20.000, Einaudi, Torino 2001 Il frammentismo è una prosa seria: è una prosa d'arte, in cui la scrittura si fa lirica in assenza della metrica, fa il verso alla narrativa fingendo di raccontare qualcosa, senza che succeda mai niente. Spigoli di luce da un mondo oscuro, spifferi di voce dal silenzio con cui (circolarmente) si apre e chiude il libro: '"Veniamo dal silenzio', diceva, anzi meglio: pensava"; "Il luminoso silenzio di Dio. Il petroso silenzio. Di Dio". Il paradosso di un filologo che ama la parola ma è tentato dal silenzio dà vita a racconti brevi, tutt'altro che concentrati o men che meno fulminei, epperò molto densi, fatti come sono di ossessive ripetizioni ("Una civiltà basata sul dolore. Sul massimo del dolore possibile. Sulla tortura universale. Una civiltà che è una macchina di dolore. Una Macchina di Dolore"), di uno stile personale e molto riconoscibile che procede per gemmazione. Il frammento è spesso, come in questo caso, frazione di un tutto: coccio riappiccicato a formare un mosaico, ma anche scheggia sopravvissuta alla dispersione del tempo, come accade per gli scolia che ci vengono dalle letterature del passato. Ecco, Banda riporta ora in auge questa let- Camilleri Oltre a II re di Girgenti sono usciti quest'anno altri due libri di Camilleri: L'odore della notte (Sellerio), romanzo di successo con Montalbano, e Racconti quotidiani, a cura di Giovanni Capecchi (Libreria dell'Orso, Pistoia), raccolta di scritti apparsi dal 1997 al 1999 su tre giornali, "Il Messaggero", "La Repubblica", "La Stampa". teratura scoliastica che tanta parte ha avuto nella nostra tradizione belletristica (lungi da noi ogni accezione spregiativa). E viene in mente l'Eco del Diario minimo che - parlando proprio di frammenti - immaginava la striscia di carta portata alla luce da uno studioso del futuro, "che contiene quello che egli ragionevolmente ritiene il primo verso d'un lunghissimo poema: 'M'illumino d'immenso..."'. Anche se altri sono gli echi che riverberano nei microracconti di questo libro atipico e originale, fra i quali spicca - pure in un tono molto più cupo - il Tiziano Scarpa che discetta scientificamente di liquido seminale (qui i protagonisti di un racconto sono gli spermatozoi) o inventa personaggi assurdi e surreali come quelli di Amore® (su quella bandella "un impiegato delle poste che per amore diventa campione mondiale di culturismo", su questa "un pacifico cultore dell'epicureismo, che paga con una morte atroce la sua indipendenza di pensiero", lì "uno scrittore di libri che progetta di salvare l'infanzia attraverso l'analfabetismo totale", qui un professore che propone "l'estensione a tutto il genere umano della vecchia e ormai in disuso distinzione del personale in 'precari' e 'di ruolo'"). E di Scarpa risuona in queste pagine anche la natura un po' bizantina (nomen omen, se è vero che scarpa deriva dal greco bizantino karpatìne) di una scrittura