N. 12 L'Indice 47 Letterature Benedetta Papasogli, Volti della memoria nel "grand siècle" e oltre, pp. 343, Lit 45.000, Roma, Bulzoni 2000 Sin dalla fine del Rinascimento cominciano a perdere prestigio le antiche arti di memoria, mentre ancora lontani sono gli avvaloramenti moderni, in letteratura come in filosofia, di una memoria "affettiva". Il libro di Benedetta Papasogli si propone di sondare questo vuoto, di sollecitare questo silenzio, che è anche silenzio della critica e della storiografia. Che ne è dunque della memoria in una cultura, quella del Seicento francese, tanto attratta dai misteri dell'interiorità, dalle profondità inconoscibili dell'io? L'età classica, in realtà, ha prestato poca fiducia a questa facoltà, relegandola tradizionalmente a funzioni servili. Eppure, proprio allora inizia a prendere forma "un immaginario della memoria" denso di sviluppi futuri. Attraverso un percorso suggestivo, ricco di riletture originali, che sceglie come tappe testi notissimi (dalle Pensées di Pascal alla Princesse de Clèves di Madame de La Fayette) e altri pressoché sconosciuti, Benedetta Papasogli coglie due valenze essenziali della memoria "del cuore" secentesca. La prima è intimamente legata alla problematica degli affetti e delle passioni e all'interrogativo eterno sul "bonheur": una memoria "affettiva", appunto, di cui ecco affiorare le prime confuse manifestazioni (si veda la bella analisi dedicata alle riflessioni di un monaco benedettino, Frangois Lamy, sui ricordi "furtivi", quasi preannuncio dei sussulti della memoria involontaria). L'altra invece, greve di antichi retaggi, coinvolge la sfera dell'etica: la memoria si fa carico di ravvivare valori morali, toccando talvolta zone profonde della persona, ma cedendo anche talvolta il passo, in un'esigenza più spirituale, all'oblio di sé. Una terza parte dello studio apre la prospettiva oltre il "grande secolo": ad autori - Prévost, Rousseau, Chateaubriand - che, pur nelle inedite sfaccettature in cui i poteri della reminiscenza vanno rifrangendosi, riattualizzano in contrasto o in armonia alcuni di quegli aspetti profetici della memoria ai quali il Seicento aveva dato voce. Non a caso il volume si chiude con in appendice un saggio sulla fortuna di Pascal nell'età dei Lumi: a significare come anche nel dibattito settecentesco sul bonheur (e sul tempo e sulla memoria), ancorato dialetticamente alla grande visione tragica pascaliana, la rottura non escluda linee di continuità. Barbara Piqué Edith Wharton, Il sonno del crepuscolo, ed. orig. 1927, trad. dall'inglese di Marta Morazzoni, pp. 254, Lit 28.000, Corbaccio, Milano 2000 Se il nome di Edith Wharton evoca immediatamente le rarefatte schermaglie dell'Ha dell'innocenza, o magari semplicemente le sontuose ambientazioni della versione cinematografica che ne ha dato Scorsese, l'effetto di questo suo romanzo degli ultimi anni sarà probabilmente disorientante. Immutata la sfera sociale - quella dei benestanti newyorkesi - siamo trasportati tuttavia in un'epoca completamente diversa: gli anni venti, non ancora infranti dalla crisi economica. La protagonista è una dama molto sicura di sé, attenta a ogni tipo di ispirazione fra lo spiritualistico e l'esoterico, assidua fi-lantropa dagli svariati interessi, equanimemente distribuita ad esempio fra la campagna per il controllo delle nascite e la celebrazione della Giornata delle Madri. Con finezza, Wharton riesce a darne un ritratto ai limiti del comico ma soprattutto del patetico, circondando la signora Manford di una complicata tribù familiare nella quale sono rappresentati tanto le debolezze e i rimpianti della generazione più anziana, quanto i modi in cui i giovani vi si contrappongono - che sia attraverso la dissipazione della frivolezza o nel tentativo di raggiungere una maturità meno inconsapevole di quella alla quale assistono. Più di un aspetto accomuna questo romanzo a quello nel quale Mary Mc-Carthy si servì del medesimo am- biente per rappresentare II gruppo delle sue coetanee, non ultima una compassionevole ironia. Giulia Visintin Henrik NoRDBRANDT, Il nostro amore è come Bisanzio, a cura di Bruno Berni, pp. 200, Lit 18.000, Donzelli, Roma 2000 Non sono molti gli esempi di poesia danese tradotti in Italia, e perciò tanto più benvenuto giunge questo volume di liriche di uno degli autori più noti del suo paese, Henrik Nordbrandt. Il curatore, Bruno Berni, ha riunito una sessantina di composizioni dalle molte raccolte che Nordbrandt, classe 1945, ha pubblicato a partire dal suo" esordio nel 1966, operando una selezione sulla base del "personale gusto del curatore", come avverte una nota alla traduzione, ma finendo per offrire un panorama di testi per molti versi rappresentativi dell'intera produzione dell'autore. Produzione che ruota quasi per intero intorno ai poli del viaggio e della distanza da una parte e dell'amore e degli affetti che a essi s'intrecciano dall'altra, in un'unica ininterrotta ghirlanda che stringe il sé al mondo. Nordbrandt, che ha vissuto a lungo lontano dalla Danimarca, costruisce la sua lirica come un continuo racconto di sé e della propria esperienza. teso ad aggiornare l'interfaccia tra l'ignoto di ciò che è estraneo e remoto e il noto di ciò che è consueto e già vissuto. Il limite di questo procedimento si avverte in uria certa convenzionalità dell'esotico che negli esempi meno riusciti si ferma alla superficie dell'impressione, soprattutto quando la spontaneità dell'esperienza viene riferita con la stessa spontaneità di scrittura, senza dare il tempo all'esperienza stessa e alla parola che la rappresenta di sedimentarsi in immagini e costruzioni più pregnanti. Quando questo limite viene meno, quando la lirica sembra il frutto di un'elaborazione più meditata e la parola si forgia in versi di una consistenza formale più piena, come in 600 (Preghiera) o Pà vej mod Ithaka (Sulla strada di Itaca), si esce dal rimpianto che la facilità di scrittura di Nordbrandt ne imbrigli talvolta la spericolatez-za, non lo spinga a osare di più, e si sente finalmente l'aria di una poesia più grande. Alessandro Fambrini Luciano Zagari, La città distrutta di Mnemosyne. Saggi sulla poesia di Friedrich Hòlderlin, pp. 200, Lit 25.000, Ets, Pisa 1999 Il volume raccoglie cinque saggi apparsi nel decennio 1988-1998, seguiti da un'appendice che ripropone.il contributo, del 1960, dell'autore alla vivace discussione critica suscitata dal ritrovamento e dalla pubblicazione dell'inno Frie-densfeir nel 1954. I saggi si concentrano su alcuni punti nodali dell'interpretazione della lirica hòlder-liniana, ripercorrendone lo sviluppo attraverso il complesso cammino che, a partire dal fondamentale apporto alla discussione all'interno del classicismo, conduce a una delle più radicali trasformazioni del linguaggio poetico. Accanto alla discussione di alcuni testi hólderliniani precedenti la svolta del 1800, nei quali è già accennato il nuovo, controverso significato che la Grecia assumerà nella lirica successiva (La soggettività, la rivoluzione e il mito della Grecia), l'autore lascia emergere il carattere peculiare del rapporto di Hòlderlin con l'antico attraverso il confronto con Goethe, Foscolo e Leopardi (Ritornò all'archetipo? Le "Favole antiche" nella poesia di Hòlderlin, nel "Faust", nelle "Grazie" e nel Leopardi). La riflessione poetologico-filosofica, difficile e profondissima, che accompagna Hòlderlin fino all'ulteriore, definitiva svolta della sua esistenza, e un'analisi di alcuni testi esemplari di quest'ultima fase sono affrontati rispettivamente nei due ultimi saggi: "La luce filosofica attorno alla mia finestra". Introduzione alle lettere filosofiche e L'ultimo Hòlderlin: la natura, l'uomo, e la perfezione, mentre nel saggio centrale, Al di là della poesia come mito. Tre poesie dai "Canti dalla notte" di Hòlderlin, si espone, in una fitta rete di riman- di speculari interni alla discussione poetologica dell'epoca romantica, la ricostruzione delle istanze che stanno alla base di quella crisi della concezione del mito in cui si risolve, secondo l'autore, l'ultima poesia di Hòlderlin. Chiara Sandrin André Frénaud, La strega di Roma, ed. orig. 1973, trad. dal francese di Davide Bracaglia, pp. 94, Lit 22.000, San Marco dei Giustiniani, Genova 2000 Eminente voce della poesia francese del XX secolo, André Frénaud, scomparso nel 1993, fu amico di Elio Vittorini, di cui condivise l'impegno politico. Lo scrittore francese si recò spesso a Roma tra il 1960 e il 1970, mentre rielaborava incessantemente questo poema, che, a trent'anni dalla sua prima edizione, viene ora proposto al pubblico italiano nella coraggiosa traduzione di Davide Bracaglia. La città eterna, centro ispiratore delle meditazioni di Frénaud, è il rivelatorio e stratificato simbolo del divenire dell'uomo, di passaggi epocali che non riescono a risolvere la tragicità della condition humaine: "Perché nulla qui regna. Non la gioia / o l'innocenza, né il piacere, né la virtù. ,/ Con un altro aspetto, l'eroe ricomincia, / ingenuo, le sue nobili gesta. Crolla". Formalmente perfetti (inevitabile pensare a Valéry), e altrettanto criptici, i versi si articolano in un percorso fatto di interrogativi, frammenti della mitologia classica e insegne della cristianità, che convivono nella dimensione monumentale della città e in quella archetipale di un'umanità dolente, talvolta satireggiata per la sua viltà. Lo sguardo di Frénaud è lucidamente impietoso ma non disperato: conscio dell'assurdità dell'esistenza, l'eroe laico non rinuncia a interrogarsi, intuendo dietro tale prassi l'incerto rimedio alla propria finitezza: "Tu non rimani precipitata in questo buco, / sibilla consultante, / se il tuo gran corpo deborda tempo e spazio". Laura Rescia