c N. 12 Straniero nel nostro mondo Maria Luisa Bedogni Con fretta e con emozione ho comprato il libro di Pontiggia; l'ho letto con gli stessi sentimenti, presa tra il desiderio di rileggerlo e il bisogno di deporlo. Per chi si occupa di disabilità a livello teorico-organizzativo tutto ciò che riporta alla dimensione reale, sofferta e sanguinante, del problema è un pugno nello stomaco. Di qui la fretta di cui parlavo, l'emozione veniva invece dal desiderio di risarcimento. Come afferma Lennard J. Davis nella prefazione a Enforcing Normalcy (Verso, 1995), i libri sulla disabilità sono pochissimo letti, e le sessioni accademiche, sia alle conferenze tecniche sia in altri tipi di incontri sulla disabilità, sono pochissimo frequentate. A tempi alterni le grandi disgrazie del vivere diventano di moda: follia, Aids, pedofilia. Ma la letteratura era una dimensione altra a cui forse non si era più pensato. La scommessa di Pontiggia riesce in pieno: un tecnico mi ha detto: "Scrive con semplicità, con poche parole le cose per cui noi usiamo lunghi discorsi". L'handicap materializza dimensioni dell'esistenza che nessuno desidera: la non capacità, la non spontaneità, la non bellezza, la non armonia. Anche il padre e la madre sentono tutto questo, e il padre di Paolo deve fare i conti con una realtà organizzata secondo criteri dettati dalle regole generali, dalle convenzioni, dalla lontananza dal problema, dalla stupidità. La ricerca è quella di una relazione simmetrica con uno straniero nel nostro mondo, con un lui-persona non con un lui-ma-lato, con un contenitore differente che ha contenuti identici ai nostri. Il dolore di cui parla il libro è il dolore di un padre; la madre rimane lontana, immersa com'è nel suo grande amore, nella sua intelligente dedizione al figlio. Come risulta dalla ricerca di Antonella Meo Normalmente diversi (Area/Onlus, 1999), "I genitori di ragazzi disabili sono in primo luogo madri o padri di un figlio con handicap. E come se la loro identità fosse del tutto appiattita sulla dimensione dell'handicap o meglio ancorata al ruolo primario di genitore di un handicappato". Ma definizioni tecniche mi pare abbiano poco da spartire con la storia del libro, quando finisce il "tempo della commedia, ora è cominciata la tragedia", "chi mi aveva parlato di felicità della nascita (...) il viso paonazzo, atterrito in una sorta di sorriso fisso, il cranio a cono, l'immagine di una divinità mesopotamica (...) terrificante e domestica". Una reazione diversa ha un altro padre che ci viene dalla letteratura. È David, il padre di Ben, un altro figlio diverso e non amato del libro di Doris Lessing II quinto figlio (Feltrinelli, 1996). "David buttò i bagagli nel furgone, poi, con un'espressione dura che Harriet non gli aveva mai visto, afferrò Ben, che se ne stava seduto sul pavimento del soggiorno, e lo infilò dentro. Tornò in fretta da Harriet, con lo stesso viso rigido, e circondandole le spalle con un braccio la fece voltare in modo da impedirle la vista del furgone che si era già avviato e da cui Harriet udiva provenire voci e suoni inarticolati (...) prese a ripetere con monotona insistenza (...). Bisognava farlo, era inevitabile (...). Lei era in lacrime, sconvolta e sollevata, riconoscente ■ che si fosse assunto tutte le responsabilità". Forse non era necessario, non era inevitabile il terribile ricovero di Ben, perché il padre di Paolo si chiede invece chi è quel ragazzo che cammina oscillando lungo il muro. "Lo vedo per la prima volta: È un disabile: Penso a quello che sarebbe stata la mia vita senza di lui no, non ci riesco. Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra". Due Voci Marosia Castaldi, scrittrice. Ha studiato filosofia a Napoli e arte a Brera. Doppia formazione quindi, rivolta all'astratto e al concreto, al ragionare e al guardare, a tempi mentali e a spazi corporei. Scrive romanzi, ma è tentata spesso da testi di raffronto tra immagine e parola (vedi le fotografie di stanze in Teniamoci stretti, a cura di Alessio Larocchi, Associazione culturale "la meridiana", Agrate Brianza, giugno 2000). Maria Luisa Bedogni, operatrice. Ha studiato sociologia all'Università di Trento. Ha svolto attività di ricerca e formazione per la Regione Piemonte. Ha lavorato per l'Associazione lotta malattie mentali. E attualmente attiva nell'ambito di Area/Onlus, associazione che si occupa di disabilità e di famiglie di disabili con un'impostazione psicodinamica e relazionale. Paolo ha il suo stile Ferruccio Giacanelli Tra i numerosi stimoli e i vari, possibili piani di lettura che offre questo libro importante e bello di Giuseppe Pontiggia - una narrazione, ma insieme un saggio, una guida a osservare il disabile con sguardo diverso da quello condizionato dalla consuetudine - si impone, per me, la riflessione sui territori della "normalità" e dell'anormalità" o, con un termine altrimenti evocativo, della "diversità". Del resto, lo stesso autore inserisce sin dalle prime pagine un breve capitolo dal titolo Che cosa è normale? La domanda rimane, oscura, nello sfondo dell'attenzione del lettore, e gli si ripropone più volte lungo il libro, spontaneamente, come pensiero-guida che induce a riflettere in circostanze liete e tristi, dolorose e serene. Le parole di Pontiggia, "È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discrimina- "Accettare è riuscire a vedere in Paolo una peculiare forma di esistenza" zione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza", rappresentano dunque per me il viatico che deve accompagnare la lettura di quest'opera. Territori, della "normalità" e della "diversità", a volte separati da confini sfumati e incerti, a Volte percepiti e ribaditi come nettamente delimitati e molto distanti l'uno dall'altro. Paolo, il figlio del soggetto narrante del libro, è portatore di una grave anomalia per una lesione cerebrale provocata da un trauma da parto: una tetraparesi spastica distonica che ne fa un disabile, o handicappato. La sua anomalia è chiara, immediatamente evidente. Dapprima lo è solo per un esperto: "questo è un bambino sinistrato!", esclama con spontaneità incontenibile il primo specialista - una fisiatra - che riveli la diagnosi corretta ai genitori ancora inconsapevoli, illusi da giudizi precedenti più sbrigativi e ottimistici e quindi non disponibili ad accettare subito un verdetto doloroso. Poi lo sarà irrimediabilmente agli occhi del mondo: le disarmonie e le limitazioni della motricità, l'andatura goffa, barcollante, incerta e costantemente alla ricerca di un appiglio, il linguaggio sforzato e difficile, faranno di Paolo un disabile palese, visibile, non dissimulabile. Non può mimetizzarsi, come entro certi limiti è possibile alla bella allieva dell'istituto d'arte, che "sembrava una nuotatrice australiana appena uscita dalla piscina" ma che se parla non riesce a farsi intendere per un disturbo della fonazione. Appena incede sulla scena del mondo, Paolo è con tutta evidenza un "diverso". Deve recitare un ruolo obbligato, imposto in parte dalle limitazioni oggettive nel rapporto con l'ambiente - gli spazi, le cose, le persone - derivanti dalla sua grave infermità, in parte costruito dall'immagine che gli altri si fanno di lui, dagli schemi mentali secondo i quali ritengono sia giusto - sia bene, sia necessario - comportarsi con il "diverso". Ciascuno a suo modo: con amore, con eccesso di protezione, con una visione astratta fino alla spietatezza del dovere di non discriminare. Riconoscere burocraticamente al disabile gli stessi diritti/doveri dei normali può portare a negarne i bisogni specifici e quindi esporlo al rischio di nuove violenze. L'incontro fra il padre di Paolo e la preside della scuola media alla quale deve essere iscritto al termine delle elementari è emblematico. La preside pretende di applicare senza eccezioni, in modo impersonale, la norma ministeriale che prevede il sorteggio per formare le classi, ma in questo caso Paolo rischie-rebbe di perdere il rapporto con il gruppo di compagni che con amicizia e affetto lo hanno sostenuto durante le elementari. Le ragioni della preside - la norma del sorteggio evita ogni discriminazione ed è garanzia di democrazia - e quelle della rappresentante dei genitori - il ragazzo non va protetto troppo, deve affrontare la vita perché "la vita è rischio" - risuonano dal lontano territorio d'una (presunta) normalità che, in fondo, vorrebbe assimilare a sé il diverso con una sorta di normalizzazione forzata. Lo stesso significato si rivela nei modi impietosi dell'insegnante dell'istituto d'arte che, rifiutando di accettare la disabilità dell'allieva con il disturbo della fonazione, la giudica solo "immatura" e in pratica la umilia sistematicamente per stimolarla a "vincere" il suo difetto. Il territorio della normalità dispone dunque di un suo codice monodirezionale, impostato di volta in volta sul registro correzionale o compassionevole, che presuppone comunque la visione del disabile come eterno bambino e del bambino come idiota. Con esso pretende di "interpretare" il disabile in base a una conoscenza pre-giudiziale, senza nemmeno immaginare che il disabile, a sua volta, possa svilup pare un suo codice peculiare con il quale tenta in ogni circostanza - disperatamente - di farsi intendere. Saper ascoltare il disabile, anzi, riuscire a coglierlo nella sua autenticità, è possibile solo al termine di un lungo percorso, diffi- cile e penoso, che presuppone la rinuncia a schemi precostituiti e la (graduale) disponibilità ad accettare la realtà del disabile come persona. È un percorso compiuto insieme dal disabile e dai suoi genitori, in un rapporto continuo di interscambio; spesso inespresso e solo intuito. Per Paolo sono decisive la tenacia e la costanza, la fiducia e la dignità che gli trasmettono i genitori, due figure positive che senza schiacciare il figlio sanno offrirgli più di un buon modello di comportamento. È (anche) così che i genitori lo fanno nascere due volte. Ma il lettore coglierà agevolmente, dalle pagine di Pontiggia, che seguendo quel percorso anche i ge- nitori nasceranno due volte, per poter giungere ad accettare e amare Paolo rispettandone la figura umana autentica. "Accettare" non è, come spesso accade, un rassegnarsi rabbioso alla disabilità, come per una pura ingiustizia patita. E piuttosto riuscire a vedere in Paolo una peculiare "forma di esistenza", addirittura con un suo "stile". La madre, forse, riesce nell'impresa per la sua particolare comunicazione emozionale con il figlio: ci appare più diretta, immediata, intuitiva. Il padre, che nei primissimi anni di vita di Paolo aveva sperato (pregando) nella sua "guarigione", poi deve conquistarne gradualmente la conoscenza, deve saper accogliere le sue piccole verità, altrettante espressioni di saggezza ("Papà, dai tempo al tempo", o "non te l'aspettavi"), deve ammirarlo per la sua "simpatia per il mondo" o per il fatto che proprio per la precarietà dell'equilibrio indotta dalla sua disabilità neuromotoria egli riesca a fare fotografie che "comunicano un senso mobile e avventuroso dell'esistenza". Mano mano che Paolo cresce, in più punti della sua costruzione narrativa Pontiggia sembra vederlo come inquadrato in una sorta di "campo lungo" del linguaggio cinematografico, o estraniato, ogni volta più lontano, come una figura umana carissima alla quale il padre è intimamente legato, ma che forse può farcela anche senza di lui, arrancando lungo i muri, attraversando i cortili in go-kart, scendendo da solo la scaletta del teatro della scuola anche se poi, giunto in basso, finisce inevitabilmente per cadere nell'abbraccio dei genitori. Le ultime frasi del libro sono d'una intensità rappresentativa struggente. Rivelano - o sanciscono - le tappe raggiunte dal padre e da Paolo nel loro lungo apprendimento a vivere "con" la disabilità. E nell'immagine, distante e luminosa che chiude il libro, di Paolo appoggiato contro il muro che sorride salutando il padre, vorrei che si leggesse un simbolo che va molto oltre questa singola, appassionante vicenda: il simbolo del progresso realmente possibile, della cognizione del volto autentico della disabilità, e del rispetto assoluto per il disabile come umana presenza. ■