l'ikirurr45 LpRTINEDEN^ Una musica di suoni scuri Laura Pariani Ricordo un'intervista a Bill Evans in cui questo grande del jazz dichiarava apertamente che non bisogna fidarsi di coloro che suonano con gran facilità, perché, diceva, tipi come loro non vivono mai dei veri conflitti, per cui non possono imparare, migliorarsi. A lui, che era un improvvisatore eccezionale, con un senso del ritmo quasi insuperabile, la musica costava molto lavoro, studio continuo. E quando l'intervistatore stupito gli chiese come si poteva conciliare quest'affermazione con le sue eccezionali improvvisazioni, Evans rispose che la libertà più piena è quella che si esercita lavorando sopra una struttura. È un discorso che non vale solo per la musica, ma anche per lo scrivere: per me, una storia non può nascere né dalla fretta né per caso. Dietro ci sta sempre un lavoro assiduo, artigianale, un pro-va-e-riprova su quella dimensione del raccontare che io definirei "acustica". E con questa espressione non intendo l'attenzione alla voce o ai silenzi dei propri personaggi (che pure è una parte fondamentale, faticosa ed entusiasmante, dello scrivere), quanto piuttosto l'orecchio teso al proprio ritmo interiore; di respirazione, mi verrebbe da dire. E il ritmo musicale del mondo di cui uno scrittore deve appropriarsi per farlo diventare parola, e poi frase, capoverso, pagina, capitolo; in quel momento magico nel quale la storia si dà come folgorazione nella testa e nell'orecchio. Prima però, per me, c'è un lavorio di immaginazione, di fantasie che mi sento pulsare nella testa: un caos disperso e quasi inafferrabile di idee in cui quasi mi pare di non sapere trovare legami. Poi, a illuminare questa confusione, nella mente mi si fa strada il ritmo adatto al tipo di storia e di personaggio; così me ne lascio guidare, comincio a lavorare dentro le regole che la scoperta di quel ritmo mi detta. Ché, in definitiva, credo di dedicarmi allo scrivere proprio perché aspetto questo momento. Parlo di ritmo, di musica, di silenzi; e in effetti concepisco la pagina come una sorta di partitura musicale, perché per me le parole non sono soltanto segni di inchiostro sulla pagina, ma sono anche e soprattutto suoni. Forse è una cosa che mi viene dalla fortuna di aver conosciuto nel corso dell'infanzia il fascino delle grandi narrazioni orali, con il gioco di equilibri tra le pause o il concitarsi del tono al momento giusto, con i cambiamenti di voce come in un'esecuzione polifonica. Il tentativo di ricreare questa sonorità carnosa nella pagina scritta mi ha portato via via a studiare le potenzialità del mio dialetto materno. Mi rendo conto che il mio modo di utilizzare il dialetto può stupire; di solito, quando lo si impiega, lo si lega a una ricerca del colore folclorico, a una piccola vena sentimentale o a tematiche burlesche e ridanciane. A me però non interessa né la funzione antiquariale del dialetto, né tantomeno quella ornamentale. Al dialetto chiedo espressività, sonorità, carnosità, cioè quelle qualità intime che chiederei a qualsiasi lingua dovessi usare. Perché il dialetto è lingua. Non dovrebbe esserci bisogno di ripeterlo, vista la solida tradizione letteraria in dialetto che abbiamo alle spalle. Senza contare il lavoro dei poeti novecenteschi, il loro scavo erudito e critico che ha portato a galla la coscienza della pari dignità del dialetto rispetto alla lingua italiana, e nel contempo della sua potenziale diversità. Tra l'altro, questa mia ricerca linguistica si lega alla necessità di costruirmi un mio luogo interiore, costituito sia dalla memoria dell'infanzia, sia dalle storie della grande tradizione (tragedia greca e Bibbia); e di questo luogo interiore fa parte anche la lingua materna, che caratterizza le inflessioni della mia voce nel dire, nel raccontare. Lingua non bassa, ma profonda, con cui le donne di casa mi hanno trasmesso le prime esperienze di affetto e di dolore. Lingua non morta, ma tragica, perché è minoritaria; perché è una musica di suoni scuri. Certo, imboccare questa via nella scrittura implica un lavoro faticoso di approfondimento, di invenzione linguistica, di immersione della lingua nella carne; a volte mi sento molto sola, tanto più in tempi come questi in cui, al rovescio, perfino la carne può essere ridotta a parola. Storie di germanesi , Carmine Abate La mia madrelingua è l'arbé-resh, cioè l'albanese antico. Infatti il mio paese d'origine, Car-fizzi/Karfici, in Calabria, è stato fondato alla fine del Quattrocento dai profughi albanesi che fuggivano dalla dominazione ottomana. Fino a sei anni sapevo parlare solo l'arbèresh. A scuola, come quasi tutti gli arbèreshè, ho poi subito una scolarizzazione esclusivamente in lingua e cultura italiana, cioè litirè, straniera, mentre a casa e con gli amici, nel vicinato, per le strade del paese, continuavo a parlare quella che noi chiamiamo gjuha e zemères, "la lingua del cuore". L'altra, la lingua che parlavano i maestri, prima, i professori poi, e infine i datori di lavoro, era gjuha e hukes, "la lingua del pane": importante, certo, ma non radicata dentro come la lingua arbère-sh. Tant'è che la scelta, all'inizio forzata e poi sempre più consapevole, di scrivere in italiano l'ho vissuta come una sorta di tradimento nei confronti dell'arbèresh. Di fatto sono anch'io un "transfuga linguistico", cioè uno scrittore che scrive in una lingua diversa da quella che ha imparato dalla voce della propria madre, a casa sua. Usare l'italiano non è stato dunque naturale, semplice, liscio, ma mi ha sempre creato e continua a crearmi una grande insicurezza di fondo, che cerco di superare con una pignoleria forse esagerata nelle continue revisioni dei miei testi. Oltretutto la mia situazione linguistica si è complicata - e, da altri punti di vista, arricchita - dal fatto che a sedici anni ho messo piede per la prima volta in Germania. È qui che ho cominciato a scrivere in italiano delle storie "germanesi" - come vengono chiamati gli emigrati, cioè né tedeschi, né arbèreshè, né italiani, ma figure ibride, come la lingua che parlano - e ho cominciato a scriverle per un motivo ben preciso: volevo denunciare l'ingiustizia della costrizione a emigrare. E naturalmente parlavo di situazioni vissute in prima persona: a quattro anni avevo visto partire mio padre per la Francia, con un contratto in tasca da minatore, e l'anno dopo per la Germania, dove è rimasto venticinque anni, prima da solo, poi con mia madre, mentre io facevo la spola tra Amburgo e Carfizzi. Dopo la laurea, a ventun anni, sono stato costretto anch'io a stabilirmi in Germania per motivi di lavoro, e ho vissuto in prima persona i problemi del vivere tra più mondi e più lingue, cogliendone però anche gli aspetti positivi. Erano gli anni ottanta e facevo parte della PoLiKunst, un'associazione polinazionale che col tempo avrebbe contato su scrittori e artisti stranieri residenti in Germania di ben 17 nazionalità. Ciò che ci accumu-nava era la voglia di uscire dai ghetti culturali delle nostre nazionalità, cercare nuove strade, aprirci. È in tale contesto multiculturale che è nato il mio primo libro di racconti pubblicati in tedesco nel 1984, col titolo di Den Koffer und weg!. Ora vivo in Trentino, a metà strada tra Amburgo e Carfizzi, ma le storie che mi ronzano in testa continuo a sentirle in una Babele di lingue: l'arbèresh, che è la lingua in cui penso e sogno, l'italiano della mia scolarizzazione, il calabrese, il tedesco, il germa-nese, cioè la lingua ibrida degli emigrati; e poi le parole e i modi di dire dei tanti luoghi in cui ho vissuto. Perciò sono costretto, di storia in storia, a reinventare una mia lingua, stanto attento a non perdere la musicalità delle lingue e delle storie che ho dentro. Ad esempio, quando nella Moto di Scanderbeg sono la madre o lo zio del protagonista a raccontare, a volte lascio termini arbèreshe o tedeschi, o li italianizzo, li contamino, pur di non spezzare il loro flusso ritmico, la loro musica. Nel Ballo tondo, oltre alla contaminazione linguistica, ho imboccato anche un'altra strada: ho lasciato in tedesco, e soprattutto in arbèresh, non solo singole parole ma intere frasi; cioè ho scritto, per il momento in misura ridotta, in più lingue contemporaneamente. E ho anche inserito delle antiche rapsodie dell'Arbèria, inseguendone il ritmo come un topo dietro al pifferaio magico. A me piacciono queste rapsodie che sono poi delle storie tutta polpa, veloci e leggere. Ne sono stato felicemente condizionato. Perciò quando ho ritoccato II ballo tondo per la nuova edizione che è appena uscita da Fazi, sono stato molto attento nelle correzioni a non compromettere il ritmo delle rapsodie. Devo anche dire - e questo mi è chiaro solo da qualche anno - che lo scrivere in una lingua diversa dalla madrelingua ha anche un vantaggio, soprattutto per chi come me scrive su temi come l'emigrazione, le minoranze: un certo distacco dalla materia trattata, una specie di filtro capace di eliminare le scorie tradizionali più inflazionate: la nostalgia lamentosa, la denuncia scontata. Questa lingua-distanza è per me la chiave per rientrare nei miei luoghi o raccontare i miei personaggi arbèreshe o germanesi, attraversati più o meno consapevolmente dal plurilinguismo e dal multiculturalismo. In conclusione, il mio viaggio nello spazio della lingua italiana parte da una lingua lontana, l'arbèresh, che mi batte i ritmi, mi evoca le storie, mi accompagna in altre lingue e in un altro viaggio, questa volta reale e altalenante, dal nord al sud, dal sud al nord dell'Europa. Scrivere in lingua straniera Quando partii da Nablus, quindici anni fa, portai con me, oltre a pochi effetti personali, suoni, profumi, frammenti di storie. Il classico diario dell'emigrante, da cui sono nati alcuni racconti, editi da Scriptorium (1994), e un breve romanzo, Il sole d'inverno, pubblicato da Portofranco (1999). Da ragazzo, leggendo gli autori del mio paese, pensavo che gli scrittori palestinesi non fossero di immediata comprensione. La nostra letteratura è stata condizionata da eventi tragici troppo importanti dei quali è rimasta prigioniera. L'opera di qualche autore palestinese è arrivata in Italia, per esempio Uomini sotto il sole, di Ghassan Kanafani, che si può definire di carattere patriottico. Ci sono diverse immagini per raffigurare la patria: una fidanzata, una regina, una bandiera; per Kanafani è un'immensa madre onnipresente. Nel suo libro c'è un personaggio che accosta l'orecchio al terreno: "Senti, senti il suo battito", e il compagno di viaggio osserva: "Figuriamoci, sarà il tuo cuore". "Non può essere", risponde il primo, "Perché sento anche l'odore materno". Così un giorno - superato il disorientamento dell'emigrato appena sbarcato e dopo aver trovato un lavoro stabile - decisi di concedermi il lusso di scrivere. Scrivevo racconti, e soprattutto cercavo di ribaltare certi luoghi comuni sulla mia terra d'origine. Le mie "pagine sparse" circolavano in Rete (il mio primo editore) e fra i miei amici, che avevo costretto a diventare miei lettori. A questo punto tutti si sentirono in dovere di acculturarmi per bene e incominciarono a propormi i loro autori preferiti come se fossero stati dei ricostituenti: "Dino Buzzati ti svi- luppa la vena surreale, Andrea Pazienza ti potenzia l'ironia". Qualcuno mi consigliava di ascoltare Paolo Conte come additivo per la poesia. Mi sentivo come un magazzino nel quale si ammucchiavano emozioni altrui. Finché un giorno incontrai il primo libro italiano che abbia sentito mio, e restai folgorato dal suo titolo: La luna e ifalò. Già la luna mi ispirava, mi faceva tornare in mente il mio paese. Nella cultura araba tutte le cose naturali, quindi anche i corpi celesti, avevano un'immagine molto poetica. A proposito della luna, qualcuno aveva addirittura pensato di intentare causa alla Nasa quando, nell'estate del Sessantotto, Armstrong aveva calpestato il mare di cipria che avvolge il nostro "specchio della vita". Al mio paese c'era chi si era sentito ferito nel più profondo dei sentimenti, l'amore. I poeti arabi, ma anche gli innamorati qualsiasi, paragonavano le loro donne alla luna, quella creatura che tutti vedono ma che non possono toccare ("Solo io l'ho avuta"). Figuriamoci uno straniero che la violenta senza neanche rendersene conto. Per tornare a La luna e i falò, sfogliandolo mi sono ritrovato come a casa. Quell'emigrante che faceva fortuna in un paese lontano (l'America) in cui non c'era nemmeno una bottiglia di vino buono, assomigliava un po' a me che in Italia non riuscivo a trovare una goccia di acqua potabile (d'accordo che dalle mie parti, nel deserto, ce n'è poca, ma quella poca è eccezionale). Non conoscendo l'italiano, avevo incominciato a bere quella dei treni, e solo più tardi, quando riuscii a decifrare il cartellino trilingue, avevo capito perché aveva quel gusto così orribile. Muin Madih Masri "A me piacciono queste rapsodie che sono poi delle storie tutta polpa"