L'INDICE ■■dei libri delmese|h Il nomade e i fantasmi Vittorio Coletti Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di Paola Montefoschi, pp. 1760, Lit 85.000, Mondadori, Milano 2000 Questo nuovo volume della Vita d'un uomo raccoglie prose in parte già edite dall'autore, sia in rivista o in giornale che in successive raccolte, come gli articoli di viaggio a suo tempo radunati in II povero nella città o 11 deserto e dopo, mentre, delle lezioni universitarie, quelle tenute in Brasile erano già state, dalla stessa curatrice di questo "Meridiano", unite in volume nel 1984 (per altro sulla base di un progetto che Ungaretti stesso aveva avviato con Mario Diacono). Per la verità, tutta la sezione del libro occupata da lezioni e conferenze meglio sarebbe convenuta al precedente "Meridiano" di Saggi e interventi, uscito tanti anni fa, e la sua pubblicazione qui, insieme alla sezione dei viaggi e memorie, è giustificabile per via critica solo con qualche virtuosistico collegamento metaforico non sempre persuasivo. Paola Montefoschi mette insieme infatti prose di viaggio e lezioni sotto l'etichetta del proverbiale "nomadismo" del grande poeta, che conviene però alle due cose in misura e ragioni molto differenti. Dirò subito che delle lezioni e conferenze grande interesse destano quelle inedite, spesso allo stato di appunti (come l'ottima correlazione a una tesi su Campana). Tra l'altro consentono di pensare con meno apprensione agli studenti di Ungaretti, del cui profitto ad alcune lezioni ci sarebbe da dubitare se il professore gliele avesse davvero propinate nella forma (rivista per la stampa) in cui oggi le leggiamo. Per altro, al critico e docente Ungaretti non si può che chiedere di parlare soprattutto del poeta e dell'intellettuale omonimo, e nella sua ottica si debbono valutare azzardi critici come quelli legati a un uso a dir poco disinvolto di certe categorie storiografiche (Origini, Umanesimo, Romanticismo). Del resto, su basamenti pericolanti Ungaretti costruisce poi aggregati di folgorante intelligenza (ancorché spesso discutibili), come quello che legge il Romanticismo come un "ritorno alla natura", "alle origini", o la bella definizione per cui "l'Umanesimo [doveva] dare carattere antico a una giovane lingua" e il Romanticismo "ridare giovinezza ad una lingua già vecchia", o la acuta intuizione del ruolo e dell'importanza di Giambattista Vico. Non c'è dubbio però che sia la prima parte del libro, quella delle prose di viaggio, la più interessante. Carlo Ossola ha già da tempo dimostrato il fitto commercio che queste prose hanno intrattenuto con le poesie di Ungaretti, e qui Paola Montefoschi amplia la documentazione del rapporto tra i due generi di scrittura, allegando i casi di poesia che nasce dalla prosa a seguito di un lavoro sui testi giornalistici che, almeno per un certo periodo, non è stato meno intenso e radicale di quello proverbialmente attuato da Ungaretti sui versi. L'apparato di note rende conto, oltre che di molti dati biobibliografici, anche di questa variantistica in prosa, che viene a confermare e ad accrescere l'immagine di Ungaretti scrittore perennemente inquieto (non direi invece insoddisfatto). Alcune prose "di viaggio", e le prime tre in particolare, hanno spesso un andamento da petit poème en prose e così, mentre ribadiscono la "reversibilità" dei due registri della scrittura ungarettiana, attestano anche la sensibilità dell'autore, negli anni venti-trenta, per una tipologia letteraria (la prosa poetica appunto) allora molto fortunata e per altro mai assente dal suo repertorio. Ma soprattutto queste prose del "nomade" (non a caso di recente molto frequentate dalla critica, ad esempio nel bel volume di Alexandra Zingone, Deserto emblema) ripropongono la centralità di quei nuclei tematici (deserto, luce, acqua ecc.) intorno ai quali Ungaretti ha sempre elaborato la sua poesia. Inoltre, nella loro stessa fattura e organizzazione di memorie e resoconti di viaggio, certificano il ruolo fondatore di queste due forme e to-poi per l'intera opera dello scrittore. Il viaggio, immagine biografica del nomadismo esistenziale e culturale dell'autore, è infatti motivo ricorrente e generatore della grande poesia di Ungaretti, e spesso si fa perlustrazione di un passato perduto, di un'innocenza sepolta, tentativo di ovviare alle "eclissi della memoria" che è l'estremo compito, secondo il poeta, della lirica moderna: "il viaggio del nomade" - scrive Paola Montefoschi - si costituisce come un vero e proprio inseguimento di fantasmi", fantasmi di grandi perduti e di città scomparse, ricerca di rovine e di illusioni d'eternità. Ma questi viaggi nascono anche da urgenze ideologiche (oltre che pratiche) più immediate, sia da quelle, oggi meno confessabili, dell'ingenuo nazionalista che cerca ovunque i segni dell'antica ed eterna grandezza d'Italia, sia da quelle, più inquiete e inquietanti, dell'intellettuale europeo che sente e soprattutto teme il declino del mondo occidentale e della sua civiltà, che osserva costernato 1'"Europa spossata" e ne vede "la storia come una piaga viva". Questo nuovo "Meridiano" prosegue utilmente nella registrazione accurata e sempre più completa delle tante parti che hanno fatto la "vita d'un uomo". Ci sono però ancora passaggi cruciali in attesa di una sistemazione e di una presentazione adeguata: penso soprattutto alle traduzioni poetiche, l'altro, davvero importante (forse, dopo le poesie originali, il più importante), capitolo della biografia intellettuale di Ungaretti. Infrenata stretta Stefano Verdino Eugenio De Signoribus, Principio del giorno, pp. 158, Lit 25.000, Garzanti, Milano 2000 Chi ha avuto o avrà la ventura di leggere questo libro, difficilmente non tornerà a ripercorrerne pagine e versi per ricantarsi e rimandare a memoria qualcosa: "la mente è un'isola che vive / anche persa nelle estreme rive" oppure "e poi a ridosso il temporale / l'infrenata stretta delle viti / che prima è spugna e poi è pugnale". Credo che anche da questi minimi esempi scatti l'impressione di trovarci davanti a qualcosa di inedito, di non ancora pronunciato nella nostra lingua: il forte tracciato della rima si coniuga con un ritmo prosodico saldo e tenace, e con una miscela linguistica, calibratissima tra invenzione (anche audaci neologismi e recuperi dialettali piceni) e tradizione, davvero mirabile nelle sue giunture. Si intende un lavoro paziente e finissimo operato su ogni parola e ogni suo nesso, quasi con un procedimento di netta incisione e rilievo, che porta a una pronuncia pressoché epigrafica e ultima del verso, a volte in sé serrato, a volte espanso sui ponti di un geniale uso del gerundio ("è il suono che oscuro si condensa / scalibrando nell'aria marginale / il consueto oratorio della sera"), realizzando, con aspra dolcezza, un compiuto e personalissimo destino di canto, oggi merce rara nella nostra produzione poetica. Poeta di intima vocazione conoscitiva e civile, Eugenio De Signoribus non è certo una recluta, ma il suo ormai ventennale lavoro, per quanto apprezzato da grandi poeti (Luzi, Zanzotto e soprattutto Giudici, che più volte ha scritto di lui) e da critici e filosofi come Mengaldo e Agamben, non ha ancora avuto la rilevanza che merita nel Parnaso italiano, mentre egli è senza dubbio uno tra i non molti grandi poeti della generazione post-novissima. In questo senso De Signoribus è un poeta all'antica, crede nella poesia e nella parola, per quanto tutto - ed egli lo sa bene - cospiri verso un "assordante silenzio". Principio del giorno è libro di intima tensione e combattimento, rispetto al precedente Istmi e chiuse, più compatto e inesorabile. Qui le varie sezioni delineano una varia mappa di vari percorsi umani, ora di "voci" (nella prima sezione) nel proprio memento, ora di varie captazioni oggettive, trasognate e di testimonianza di un io che, scarnificato da ogni autobiografismo ("alla sua pelle / sta come un senzacasa..."), non cessa di cercare Confidenze con l'estraneo e, soprattutto nelle due ultime sezioni, Tavole genovesi e Giornale (ventiquattro poesie di vertigi- nosa bellezza), figge il suo "sguardo inerme" nel "povero tempo" e nel "vuoto doloroso", ma proietta anche la propria laica preghiera "dopo il sonno amaro". C'è una similitudine che mirabilmente fotografa questo sofferto e straziato movimento che è di annaspamento, ma anche di testimoniale traccia: "l'escavatore così nella sordina / ogni notte riprende ad affondare // le terre nere smuovono la china / e ogni smossa sentiero si fa". Troppo è lo scandalo dei "verbi agiti contro i mali / finiti in tritacarne e aceti", troppo intollerabile il "mosto sangue" della nostra "arena" bellica, ovvero la visione del "cumulo dei cumuli del male" per non dare risentimento a una coscienza civile che non intende cedere al sonno e all'oblio. Ma nessuna speranza è garantita in un poeta così autenticamente sgomento (come fu Leopardi, come fu Montale), ed è sempre aperta la partita tra "l'impalpebrita mutezza" e la "grigia pappa" delle parole, da un lato, e "l'utopia albale" e il lieve mito di "nuova Nuovabur-go", con le fattezze di Genova, dall'altro. Muri e pareti, compatti ma anche sbrecciati, popolano questi versi, con un richiamo a un'immagine decisiva di un Novecento, troppo frettolosamente smemorato, ma è profondamente nuova la suggestione di una piena inermità umana che qui ha spazio e voce. socci di mezz'età, e ne avverto l'effetto. E se il lettore è meno informato, se è un giovane, se è uno studente, se non sa niente? Serve alla letteratura la sua cornice storica? Serve semplicemente alla lettura? Lascio il problema agli storici e ai letterati; e agli insegnanti: perché di questo si tratta quando discutono di nuovi programmi e metodi. Resta una seconda ragione, la principale. Riguarda la forza dell'immaginazione narrativa e antropologica e la lunga durata degli emblemi che essa crea. Il cuore di questa collana, di questi titoli, è la prima metà del Novecento, un'epoca ancora cruciale. È il paradosso dell'America, l'America cattiva e buona, dove Nero Wolfe (ovvero Rex Stout) pronunciava nel 1939 un'ambigua omelia antirazzistica. (Ambigua sì, ma Hider intanto preparava filo spinato e girarrosti). L'interessante è che la scelta sia andata non verso l'ovvio realismo del giallo sociologico, ma a una linea di più astratta eleganza, in cui spiccano le icone irrealistiche della diversità antiborghese, l'investigatore artista, la femmina folle. La crudeltà del secolo è rappresa in simbolici ghirigori. La cultura del sospetto, che il Novecento ha imparato alla scuola di Marx e di Freud, quel voler guardare le budella sotto una superficie linda, quella volontà di sapere, ha una naturale applicazione nel giallo e nei suoi cultori. La leggo riassunta nella parabola del luccio, un frutto delle indagini congiunte di Sherlock Holmes e di Brusatin. Un "grosso luccio dalla mascella magra" è la preda per cui Sherlock ha teso le reti. Brusatin afferra la corporea suggestione e dal luccio metaforico passa al luccio materiale, bel pesce d'acqua dolce, allegro predatore dalla testa aguzza. Lo si mangia aperto e cotto alla brace, ma spiace l'inconveniente che famosi chef (dice) ricordano spesso: "un grande luccio aperto con dentro un topo morto". 7*7....."Ili SSM 4 mgm HHI "Osserva costernato l'Europa spossata e ne vede la storia come una piaga viva"