L'INDICE , ■Idei libri del meseB| Limpida ma velenosa Silvio Perrella Claudio Piersanti, L'appeso, pp. 223, Lit 30.000, Feltrinelli, Milano 2000 In tempi d'inutile alluvione romanzesca come i nostri, L'appeso, la nuova invenzione narrativa di Claudio Piersanti, c'impone di ricordare cosa sia davvero la letteratura quando è pienamente se stessa. Quanti romanzi leggiamo, pensando che sarebbe stato meglio andare al cinema, e quante volte, pur riconoscendo l'abilità tecnica dello scrittore, la storia ci scorre addosso senza lasciare alcuna traccia duratura? Leggere L'appeso significa invece compiere una vera esperienza d'immaginazione interiore. Da dove vengono infatti le figure che abitano questo libro, e che sono capaci d'insinuarsi nella nostra mente, se non dall'immaginazione di chi ha avuto la pazienza di aspettare che le immagini si trasformassero in un fitto susseguirsi di righe uniformi, e in questo stillicidio alfabetico ha saputo abbandonarsi agli umori più foschi e alla più disarmante tenerezza? Si chiama Antonio Cane la figura principale di questo libro, e ha quarantaquattro anni. E lui "l'appeso", simile al tarocco che dà il titolo al libro: "L'appeso era un tizio legato per la caviglia al ramo di un albero e anche se era a testa in giù non sembrava seccato, anzi ne approfittava per pensare ai fatti suoi". Piersanti ce lo presenta con le valigie in mano, mentre arriva in una nuova città. Ha un lavoro da espletare, e questo lavoro lo conduce dentro un palazzo in apparenza simile a molti altri, in realtà piuttosto diverso, sia nella sua forma interna, sia nei suoi abitatori. È in parte un ospedale, in parte un ospizio, in parte un nascondiglio, in parte un albergo e tante altre cose. Il lavoro di Cane è, appunto, quello di mordere. In questo palazzo si è nascosto un uomo che conosce ed è in procinto di rivelare notizie pericolose. E un politico, un uomo dei servizi segreti, un funzionario dello Stato? Non importa sapere esattamente chi sia Corsini (è questo il suo cognome); importa semmai osservare il suo ormai naturalizzato rapporto con la menzogna, e sapere che il compito di Cane (affidatogli da Angelo) consiste nel sopprimerlo. Nel suo lavoro, Cane è un uomo di vasta esperienza. Già in passato, per raggiungere i suoi scopi, ha saputo abitare luoghi difficili e squallidi come ad esempio un carcere, e ne ha tratto la convinzione che "La gente si lascia impressionare dalle apparenze, non sa che tutto diventa normale e che di qualsiasi luogo si può avere nostalgia". Basta sapersi avvicinare alle cose e "non c'è più niente che faccia paura, sono i cretini che rovinano tutto, i cretini e i fanatici, altrimenti può esserci dell'allegria dovunque, anche dove ti sembra che dominino male e squallore, mentre il vero squallore lo trovi dove ti aspettavi la più serena normalità, quasi sempre". Per Cane "le piccole ferite a volte sono più dolorose delle grandi". La sua piccola-grande ferita sta nel fatto che la donna che ama è già sposata con un altro. Ciò non significa che il suo sentimento non navighi incessantemente dentro di lui, giganteggiando nella sua mente. Quante volte ha bisogno di parlare con lei anche se non è lì con lui, e quando raramente le telefona non sa dirle se non pochissime strozzate parole. E quando riesce a scriverle una lunga lettera, sente la necessità di distruggerla, triturandola e disperdendola in molteplici cassonetti dell'immondizia (e sono davvero pagine di grande presa). Ma esiste davvero questa donna, o è solo nella mente di chi l'ama così intensamente? È un altro interrogativo destinato a rimanere tale, perché anche in questo caso non è davvero necessario saperne di più, in un libro che ritaglia con una radicalità sapiente che fa impressione solo ciò che gli serve, essendo fedele in tutto e per tutto a questo monito: "Frena la parola che si inceppa da sé, non lasciarla uscire". Anche se nominata, non sapremo mai come si chiama questa donna, così non vedremo nessuno dei dettagli figurativi di contorno alla storia: chi serve i pasti, ad esempio? Eppure c'è una mensa, e Cane, come gli altri abitanti della casa, ne usufruiscono. Ciò non significa che oltre alle figure di Cane e di Corsini non facciano la loro apparizione, e non abbiano i loro ruoli, altri personaggi, tra i quali indimenticabile mi sembra Andrea, un povero e indifeso ragazzo che abita "la stanza più vuota che avesse mai visto: un lettino in struttura metallica proveniente dalle cantine dell'ospedale, una sedia, una grande valigia chiusa, una lampadina nuda appesa al suo lungo' filo giallastro". E come non citare la visione rapida e folgorante, strappata all'inconsapevole Sandra: "Si avvicinò e aprì la porta piano piano, due o tre millimetri appena. Sandra era immersa nell'acqua ma il suo viso era irriconoscibile, gonfio e deformato da una smorfia di disgusto". Se Piersanti frena la parola che possa squadernare la sua storia è perché vuole intensificare le immagini mentali che nascono dal susseguirsi delle righe. E si tratta, certo, di immagini mentali, ma di quanta precisa e quasi palpabile consistenza, tanto che a volte si pensa ai procedimenti immaginativi di Kafka, e al modo in cui sono stati trasportati nella nostra lingua in un libro come II padrone di Goffredo Parise. E altre a vere e proprie deiezioni psichiche. Dopo aver corteggiato la quotidianità cechoviana con Luisa e il silenzio (nei "Classici" Feltrinelli è possibile leggere una sua bella introduzione ai racconti dello scrittore russo), Piersanti dunque si presenta ai lettori con altre e diverse tonalità, che forse erano in parte affiorate nella collaborazione con Lorenzo Mattoni confluita in Stigmate (cfr. "L'Indice", 2000, n. 6), ma sempre fedelissimo a se stesso. Cane, lui che non crede nel libero arbitrio, ma solo nel destino o nel caso, "trovava da sempre affascinante l'ordine naturale delle cose". Ed è nell'ordine naturale delle cose che "da qualche parte l'odio rispunta fuori, è l'odio il padrone del mondo. È inutile cercare di interpretarlo e descrivere da dove viene: l'odio è in sé una spiegazione sufficiente. C'è l'odio, c'è il sole, c'è la tempesta, c'è la penicillina, c'è il cancro. C'è tutto". Abbandonandosi a questa terribile naturalezza, Piet-santi ha scritto una storia immersa in un'acqua limpida ma velenosa, che, come il ùquido di una flebo assassina che Cane riesce a neutralizzare, manda "un riflesso azzurrino che brillava un istante nella penombra prima di svanire nel buio". D'altronde, "il mondo è lento e sornione, si disse Cane, pieno di tempi morti, rami secchi, passeggiate serene, pensieri caldi d'amore non troppo invadenti". ■ Autoritratto da cinico Andrea Bajani Paolo Nori, Spinoza, pp. 162, Lit 15.000, Einaudi, Torino 2000 Esploso meno di un anno fa, il fenomeno Paolo Nori comincia ora a dare segni di cedimento. Dopo avere raccolto tutte le benedizioni raccoglibili dalla critica nostrana, lo scrittore parmigiano pare abbia cominciato a far storcere il naso ai recensori. Se solo sei mesi fa la parola d'ordine era "viva l'ironia di Paolo Nori", sembra che ora a farla da padrona sia una sorta di annoiato dichiarare "un gioco è bello quando dura poco". Paolo Nori non farebbe altro che ripetere, cambiando minuzie qua e là, una barzelletta che ci ha già fatto ridere una volta. Learco Ferrari è, come già in Bassotuba non c'è e in Le cose non sono le cose, il protagonista - io narrante, scrittore alle soglie della pubblicazione del primo romanzo, costantemente ai ferri corti con la propria vita quotidiana e con un padre in chemioterapia. Intorno a lui un manipolo di amici e amiche contrappuntano con telefonate surreali le giornate di Learco. Tutto qui, non succede altro. Nori gioca la carta dell'autobiografismo sfacciato, vergando pagine su pagine di diaristici resoconti di ore e giorni trascorsi fra traduzioni, magazzinaggi e serate di letture, alternate di tanto in tanto da interminabili nottate similfìlosofanti con la Giovanna di turno. Con Bassotuba non c'è, prima in veste DeriveApprodi e poi sotto l'egida di Einaudi "Stile Libero", Paolo Nori aveva messo in piazza la figura di un intellettuale tanto impegnato quanto ironicamente cinico, tanto voglioso di fare quanto maledettamente disilluso e preso nella spirale delle manovre di ogni giorno. Quello di Bassotuba era un intellettuale che rispondeva con un amareggiato tirarsi fuori al chiacchiericcio mondano dell'intellighenzia (e non solo) italiana, che contrastava con il sarcasmo la moda delle commemorazioni ("E morto Lucio Battisti, dicono. Echissenefraga" scrive Learco/Nori). L'arma di Paolo Nori, si era scritto allora da più parti, era l'ironia, un'ironia delicata che dava luogo a una narrativa comica di irresistibile fascino. Spinoza è il terzo volume della saga di Learco Ferrari, prosegue un percorso cominciato in casa Fernandel (Le cose non sono le cose) e arrivato, al momento, fin qui. La grandezza e il coraggio di Nori consisteva, all'epoca di Bassotuba, nell'utilizzare la scrittura per darsi in pasto alla critica e ai lettori, per mettere in publico un ritratto dell'artista cinico da "giovane". Spinoza ribadisce quel ritratto, senza aggiungere nulla. La forza di un simile tentativo, tuttavia, sta proprio in questa iterazione, nel ripassare a penna un autoritratto già scritto. Non è un gioco letterario, quello di Nori, come si vorrebbe, forse, quando con l'accusa di ripetitività gli si chiede di cambiare. "Questo che ci giriamo tra le mani" sembra ripetere Learco, "è il testimone che ci avete consegnato". ■ Tondelliano senza giovanilismi Andrea Canobbio, Indivisibili, pp. 230, Lit 27.000, Rizzoli, Milano 2000 Ha fatto discutere non poco la recente pubblicazione per Bompiani del volume dedicato all'opera di Pier Vittorio Tondelli. La disputa ha visto contrapporsi santificatoti e demonizzatoti dello scrittore correggese. Se infatti per gli uni Tondelli è stato, oltre che un fine scrittore, un grande talent scout e forse il più carismatico animatore della scena letteraria nostrana, per gli altri l'autore di Altri libertini non ha reso alcun servizio alla nostra narrativa se non quello di impoverirne gli orizzonti. Resta comunque indubbia l'influenza capillare esercitata da Tondelli sulla narrativa italiana anni novanta. In principio era Tondelli, viene da scrivere quando ci si avvicina a molti dei nostri scrittori under 40. In principio erano le antologie "Under 25" lanciate da Transeuropa e curate da lui. In principio, soprattutto, era quel suo ribadire, quasi a ogni riga, che scrittura è raccontare del proprio vissuto, che scrittura è partire da lì. E poi, e poi. E che questo sia un male, come vorrebbero coloro che accusano Tondelli di essere il responsabile di una superficialità diffusa dei nostri narratori, è tutt'altro che dimostrato, se è vero che sono parti diretti dell'opera di promozione ton-delliana scrittori come Romolo Bugaro, Andrea Demarchi, Silvia Ballestra e Andrea Canobbio. Il percorso di Andrea Canobbio, al proposito, mi sembra emblematico. Quanto meno serve a smentire la falsa opinione secondo la quale i nostri narratori post-tondelliani sarebbero tutti omologati su un giovanilismo piatto e privo di originalità. Con Indivisibili, Andrea Canobbio è giunto al suo quarto libro di narrativa, dopo un primissimo esordio appunto all'interno dell'antologia tondelliana Giovani blues (1986) e poi il vero approdo al mondo dell'editoria con l'einaudiana, e ormai introvabile, silloge di racconti Vasi cinesi (1989). Agli esiti di Indivisibili lo scrittore torinese è arrivato lasciandosi alle spalle il bel gioco calviniano di Traslochi (1992), intelligente diver-tissement metaletterario, e il quasi classico Padri di padri (1997), passato forse un po' sotto silenzio da parte della critica nostrana. Con Indivisibili la cifra della scrittura di Andrea Canobbio trova, mi sembra, un sua definizione, distinguendosi per limpidezza, nettezza del tratto. E, soprattutto, per un'attitudine al cambio di prospettiva narrante, a una qualche forma di relativismo conoscitivo. Sono indivisibili le due sorelle protagoniste del romanzo, partite per l'India imbarcate in un improbabile viaggio organizzato "Turismo & Cultura". Canobbio gioca a raccontarci una terra scrutata dall'angolazione deformante di una delle sorelle, ostentatamente e un po' retoricamente progressista, medio acculturata e molto, molto tollerante. Indubbiamente limitativa, la scelta prospettica di Canobbio è comunque un affondo efficace alla me-dioborghesità buonista di casa nostra. E, al di là dei giovanilismi, c'è una lezione tondelliana anche in questo. E allora ben venga. (A.B.) "Tutto diventa normale, e di qualsiasi luogo si può avere nostalgia"