N. 12 riNDICF SCHEDF ^^ DEI LIBRI DEL MESE 51 Storia e politica Elena Croce e il suo mondo. Ricordi e testimonianze, pp. 280, Lit 28.000, Cuen, Napoli 2000 Animatrice di riviste di cultura come "Aretusa", "Lo spettatore italiano", "Prospettive"; promotrice di campagne per la difesa dell'ambiente e del paesaggio con associazioni come Italia Nostra e il Fondo per l'ambiente italiano; appassionata lettrice e saggista di poesia e di letteratura antica e moderna, autrice di opere storiche e biografiche, scrittrice finissima tanto di libri di memorialistica quanto di narrativa, Elena Croce non è inquadrabile secondo categorie di giudizio comuni. Anche la definizione che a prima vista potrebbe risultare la più calzante, quella di intellettuale, risulta inutilizzabile. Lei stessa, infatti, in una pagina autobiografica in terza persona, se la attribuisce con una carica ironica che ne vanifica la pregnanza, quando annota che al termine degli studi universitari era "un'intellettuale", cioè "l'ultima cosa che avrebbe desiderato o sognato di essere". Per aiutare a mettere a fuoco una figura che fuoriesce dagli schemi correnti arriva ora il volume che raccoglie gli interventi di una giornata di studio tenuta nel marzo del 1996 all'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Significativamente il sottotitolo parla di ricordi e testimonianze, sottolineando come più che un approccio freddamente analitico si sia preferito un taglio discorsivo. Tranne le due relazioni di Giuseppe Galasso e di Emma Giammat-tei, l'insieme degli interventi ha un carattere rievocativo. Foltissimo il novero dei partecipanti, fra cui si potranno ricordare i nomi di Roberto Calasso, Giovanni Macchia, Cesare Cases, Antonio Cederna, Gennaro Sasso, Vittorio Gabrieli, Gustaw Herling. Completa il volume un'accurata bibliografia degli scritti. Maurizio Griffo Fulvia Ripa di Meana, Roma clandestina, ed. orig. 1944, pp. 231, Lit 28.000, Kaos, Milano 2000 Proclamata "città aperta" nel settembre 1943, Roma è liberata il 4 giugno 1944. Con l'intento di raccontare l'incubo dell'occupazione, fra l'estate e l'autunno '44 Fulvia Ri- pa di Meana mette mano a un diario, poi edito dalla Oet. Ripubblicato oggi con l'aggiunta di una preziosa bibliografia resistenziale, il libro, privo di ambizioni artistiche, è una sofferta testimonianza di vita imperniata sulla figura dell'alto ufficiale Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, cugino dell'autrice e capo del Fronte militare clandestino, torturato in via Tasso dai nazisti, poi tra i martiri delle Ardeatine con altri 334 prigionieri. Il diario di Fulvia Ripa di Meana, in seguito premiata con la Croce al valor militare e morta nel 1984, ha il merito di richiamare vividamente la concretezza della quotidianità in quelle tragiche circostanze, anche se la considerazione della tragedia di Roma come di una Passione che condurrà al ricupero della perduta purezza e la concezione dell'estate '43 come d'un periodo di disonore nazionale nel quale crollano il mito di Mussolini e la credibilità dell'Italia piuttosto che come il presentarsi dell'occasione per una rinascita collettiva sono caratteristiche di un sentire più latamente patriottico che antifascista in senso stretto. Nel libro si incontrano però spunti significativi in relazione alle tecniche di guerriglia partigiane (sabotaggio, ostruzionismo) e all'odio popolare per alcuni uomini del regime (Graziani), oltre che ricordi ora strazianti, come la morte del giovane Fumaroli, ora commoventi: l'autrice rievoca la malattia più comune di quei mesi, scherzosamente detta "morbo di Kesserling", per cui con pretesti vari chi può si fa ricoverare al Principe di Piemonte, ospedale amico, non esitando a sottoporsi a interventi chirurgici anche del tutto superflui pur di tener- si lontano dai nazisti in attesa dell'arrivo degli Alleati. Daniele Rocca Marco Follini, La DC, pp. 161, Lit 18.000, il Mulino, Bologna 2000 L'autore di questo volume è un impenitente recidivo. La quarta di copertina ci avverte, infatti, che i suoi precedenti libri sono La DC al bivio (Laterza, 1992) e C'era una volta la DC (il Mulino, 1994). Non pago di questi contributi, che in tanti potevamo considerare esaustivi, e mostrando un interesse monomaniaco per il suo oggetto di studio, torna di nuovo sull'argomento con un'operetta di sintesi. E, va detto subito, tale sintesi appare riuscita, li libro infatti è scritto in perfetto stile democristiano: felpato, gommoso, mellifluo. Uno stile che ricorda il migliore Mariano Rumor o il più brillante Vittorino Colombo. Follini, infatti, non nasconde le magagne di casa propria, ma descrive con ammirevole impassibilità i difetti del partito democristiano dando prova di un candore che rasenta l'improntitudine. La tesi di fondo è riassumibile in poche parole. La De sarebbe stata una sorta di partito-nazione capace di aderire strettamente alla fibra più intima della società italiana. I suoi difetti insomma non dipenderebbero dalle insufficienze culturali e politiche della classe dirigente, ma sarebbero solo uno specchio dell'Italia. Il libro, però, non si perita di descrivere questo rapporto tra partito e paese, dandolo per scontato. In altri termini l'autore sopravvaluta il radicamento sociale del partito. Un radicamento che forse, grazie all'appoggio della chiesa, c'è stato in una prima fase, ma che poi è venuto evaporando, lasciando solo il consenso derivato dal controllo, quasi totale, dell'apparato dello Stato. Così Follini ci dà una storia tutta interna della De senza interrogarsi sulle ragioni sistemiche della sua esistenza. Tant'è vero che non viene approfondito il vero motivo del prolungato dominio democristiano: la guerra fredda. La De come partito del meno peggio, votato controvoglia da tanti italiani che non volevano votare i comunisti. Infine Follini non affronta il vero legato negativo della De: la pratica del condominio doroteo, una costituzione materiale consensuale che è la palla al piede dell'Italia. Maurizio Griffo 1968-69: dagli eventi alla storia, "900", n. l,pp. 208, Lit 28.000, 1999 Millenovecentossesantanove, "Parole-chiave", n. 18, pp. 256, Lit 30.000, 1999 Attilio Mangano, 1969. L'anno della rivolta, pp. 190, Lit 20.000, MB Pu-blishing, Milano 1999 Diego Giachetti, Marco Scavino, La Fiat in mano agli operai. L'autunno caldo del 1969, pp. 220, Lit 30.000, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1999 Cento... e uno anni della Fiat. Dagli Agnelli alla General Motors, a cura di Antonio Moscato, pp. 144, Lit 20.000, Massari, Bolsena (Vt) 2000 La lotta operaia. La stagione dei movimenti. Gioventù, amore e rabbia. È ora di ripercorrere, e di con-cettualizzare, gli eventi di un nodo storico - l'autunno caldo - in cui emersero pienamente, con la Fiat come epicentro, le questioni irrisolte della rivoluzione industriale di massa italiana. "900", una nuova e assai ben articolata rivista modenese, collega il 1969 al '68, ma il rapporto con tutto il precedente decennio, e con il quinquennio 1958-1963 ("miracolo economico"), risulta evidente. Le interpretazioni degli storici, e la vicenda dell'Italia repubblicana, sono anche al centro di "Parolechiave". L'insieme delle rappresentazioni vuole invece essere il Cuore del libro di Mangano. Eccellente ricostruzione, passo per passo, di un anno cruciale, è poi il testo di Giachetti e Scavino, che ha per protagonisti naturalmente gli operai, ma anche i sindacati, i partiti e il movimento studentesco. Nel volumetto curato da Moscato, che si avvale degli interventi di Diego Giachetti, Gabriele Polo, Raffaello Renzacci e Marco Revelli, il legame tra classe operaia e Fiat viene esaurientemente sottolineato sul terreno storico. La centralità dell'una è la centralità dell'altra. Il declino dell'una è il declino dell'altra. Bruno Bongiovanni Giorgio Sola, La teoria delle élites, pp. 282, Lit 32.000, il Mulino, Bologna 2000. Mario Stoppino, Potere ed élites politiche. Saggi sulle teorie, pp. 282, Lit 35.000, Giuffrè, Milano 2000 La teoria delle élites postula che ogni forma di governo - non importa se democratica - comporti sempre il prevalere dei governanti organizzati e potenti (pochi) sui governati disorganizzati e dispersi (molti). Come sottolinea Sola, che ci offre un'utilissima ricostruzione teorica, e insieme una sistematica concettuale, tale teoria ha una duplice matrice italiana. Deriva infatti, come sfondo intellettuale, da Machiavelli e dalla visione realistica e demistificatrice della politica che ne è scaturita. Ha però la sua origine effettiva nel 1896, data della pubblicazione, da parte di Mosca, degli Elementi di scienza politica. Se però Mosca privilegia l'espressione "classe politica", ereditata dal dibattito politico italiano del tardo Ottocento e dagli scritti di Bonghi, Turiello, Sonnino, Fran-chetti e Villari, è a Pareto che si deve la notevolissima fortuna del termine "élite", il quale, peraltro, contiene di per sé un'accezione aristocratico-positiva, laddove il più limitativo "classe politica" sembra essere oggettivo-neutrale. In Michels comparirà poi il termine "oligarchia" (con la sua "legge ferrea") e anche, in riferimento ai dirigenti di partito, "Fùhrerschaff. Weber e Aron useranno il termine di Mosca, mentre Mills non esiterà a discutere di "power élite". La ricognizione di Sola, comunque, ci conduce da Saint-Simon e Comte (precursori) a Giddens e al dibattito odierno. Il volume di Stoppino si avvale invece di un gruppo di saggi assai stimolanti su Mosca, Schumpeter, de Jouvenel, Lasswell e Bruno Leoni. La natura del potere, ancora non domata dalla democrazia, continua a essere al centro dell'attenzione. Bruno Bongiovanni Giovanni Borgognone, James Burnham. Totalitarismo, managerialismo e teoria delle élites, pp. 382, Lit 30.000, Stylos, Aosta 2000 Nel 2001 compirà sessantanni un libro molto discusso, La rivoluzione manageriale dello studioso statunitense James Burnham; libro che a più riprese, dal 1946 in poi, è stato proposto al pubblico italiano. Burnham era un raffinato ed elitario intellettuale proveniente da una famiglia bene di Chicago, cresciuto fra Princeton e Oxford e approdato alle soglie degli anni trenta a un marxismo eterodosso e perennemente in discussione con se stesso. Il libro era scritto sotto l'impulso di e in polemica con l'eroe eponimo di quel movimento trockista sotto le cui bandiere all'inquieto e combattivo professore di filosofia newyorkese era parso trovare per qualche tempo la propria casa. Esso segnò il distacco dell'autore dal trockismo e dal marxismo stesso. Burnham infatti vi svolgeva la tesi secondo la quale, nel periodo fra le due guerre, l'affermarsi dello strato dominante dei manager aveva prodotto una nuova forma di organizzazione sociale che non era più né capitalistica né socialista, ma appunto manageriale. Il che accomunava, a suo dire, realtà all'apparenza tanto diverse quali la Germania nazista, l'Urss e gli stessi Stati Uniti roosevel-tiani. Un primo merito del lavoro di Borgognone è quello di ricostruire il percorso che conduce Burnham alla redazione di La rivoluzione manageriale, disegnando la complessa costellazione intellettuale nella quale si inserisce, e in particolare rilevando affinità e differenze con la riflessione del fascista statunitense Lawrence Dennis. In secondo luogo, l'autore restituisce con chiarezza sia la discussione che seguì all'uscita del libro (e che vide la partecipazione di figure come Paul Mattick, Dwight McDonald, Charles Wright Mills, Paul Sweezy, Pierre Nevil-le), sia l'intera parabola successiva che portò Burnham a esplicitare scelte di campo realistiche ed elitarie che, nel vivo della guerra fredda, lo fecero approdare armi e bagagli a posizioni dichiaratamente conservatrici e reazionarie. Ecco allora il Burnham dei Machiavellian Defen- ders of Freedom (1943), al quale si deve l'introduzione ufficiale, nella riflessione statunitense, della grande scienza politica realistica italiana. Ecco il polemista che ingaggia una serrata discussione con gli amici progressisti (e anticomunisti) della "Partisan Review", per poi ben presto distaccarsene e affiancarsi, in nome di un anticomunismo viscerale, ai conservatori della neonata "National Review". Il tutto entro una linea evolutiva della quale Borgognone evide7izia la continuità all'insegna del realismo e del disincanto che consentono a Burnham di denunciare lucidamente, ma da posizioni spesso francamente inquietanti, le aporie del liberalismo della guerra fredda rispetto alla questione cruciale della "forza". Rivisitando l'intero percorso di Burnham sino alla sua scomparsa (1987), Borgognone conclude richiamandone i limiti e le contraddizioni indubbi, ma anche osservando giustamente che "sottovalutare la ricchezza degli spunti tematici" burnhamiani "rivelerebbe certamente superficialità analitica". Ferdinando Fasce