N. 10 Bilanci di letteratura italiana Tragica Italia vista dall'eremo "Un giorno saremo dei perfetti cretini" di Giorgio Bertone Cesare Garboli RICORDI TRISTI E CIVILI pp. 108, Là 22.000, Einaudi, Torino 2001 Splendido e straziante, il diario in pubblico fatto di articoli e interviste del nostro maggior critico-scrittore, Cesare Garboli, non è solo una confessione o uno sfogo. E un tentativo di conferire statura tragica alla storia culturale della nazione italiana. I blocchi di partenza stanno inchiodati nel "sentimento patrio" personale che coincide in modo così semplice con quello della maggior parte di un popolo, l'unico al mondo - aggiungo -che parla di sé alla terza persona plurale ("Gli italiani sono..."). Ossia: "l'incapacità, o l'impossibilità di sentirmi un cittadino del mio paese", "una irrevocabile estraneità alla (mia) terra natale"; appunto facilmente estensibile ai tormentati abitatori del "paese dei vicereami", "reclusi in patria, segregati, quanto più assolvono e rispettano fedelmente i loro ruoli professionali". E ognuno potrebbe adesso citare le proprie varianti personali e i propri miti (svizzero, tedesco, scandinavo), miti sempre pronti a compensare oniricamente i momenti di più acuto sconforto nel qui e ora quotidiano che ci minaccia. Oppure, alla Garboli, recitare Amleto-, chi, se non fosse la paura di un aldilà sconosciuto, sopporterebbe "the law's delay" o "the insolence of office", i ritardi della legge e l'arroganza dei pubblici ufficiali? Solo che nel frattempo l'aldilà è andato a farsi benedire. E il tentativo di smascherare un "paese tragico che ignora di esserlo" assume i tratti di un compito etico suppletivo. Riesce l'intellettuale Garboli nella missione? Riesce a rovesciare uno sfogo, nei termini di una reprimenda risentita e tenuta su corde oratorie alte e tese, in un ritratto serio e drammatico che incida infine sul medesimo oggetto in causa? Da parte dello scrittore i numeri, come si dice dei virtuosi, e l'energia, ci son tutti, e i temi centrati e tagliati a punta secca: via Fani, "il paese dei vicereami", le stragi di Stato, il caso Tortora, la corruzione, il provvidenzialismo manzoniano; e altro ancora: la recensione delle poesie di Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni incarcerato, la ricordavo quasi a memoria tanto mi colpì quando apparve sulla "Repubblica" del 28 luglio 1993; "Il vecchio ebreo e il giovane fascista", secchi ritratti paralleli e contrapposti di Bernhard Berenson e del giovane fascista Giovanni Spadolini, non li conoscevo, per forza, si tratta di un inedito. Ciò che mi risulta più strano è l'insistenza su via Fani come svolta storica decisiva, a partire dalla quale Garboli dichiara di "non sapere e capire nulla del paese dov'era nato e cresciuto"; ma poi capisce tutto ("la paura suscitata dal sorprendente successo elettorale ottenuto dal Pei due anni prima", successo "indigesto alla destra democristiana, alla sinistra extraparlamentare, ai socialisti di Craxi, agli stalinisti del Pei, alla Cia, ai servizi segreti sovietici e israeliani"), mentre la svolta storica semmai pare un'altra: l'8 settembre. E infatti: "quel brutto capitolo di storia frettolosamente archiviato, quel ridicolo e lugubre fantasma di fascismo sociale in abiti tedeschi, in realtà non ha mai visto la fine, ma si è perpetuato lungo mezzo secolo andando incontro a una mostruosa trasformazione". Ma la resistenza maggiore - e Garboli lo sa - è nell'astuzia dell'" obietto". Innanzitutto nella pasta degli italiani: "quell'arlecchino di popoli misti che è l'Italia ha sempre preferito presentarsi al mondo sotto una veste amabile, seducente, festevole". Con l'eccezione di "piemontesi, genovesi e lucchesi". Commossi, noi del nord-ovest, ringraziamo, ma decliniamo per tante ragioni l'offerta del salvagente. Soprattutto per un dubbio sul cliché del popolo "amabile, seducente, festevole" in mirabile ritratto d'autore: "È un paese di assassini e di ladri, ma prospero, allegro, imprevisto, vitale, creativo, secondo il più quotato dei qualunquismi nostrani", con quel che precede e segue. Nell'eccesso di pessimismo qualche osservatore straniero nostro amico indicherebbe subito l'eccesso opposto: quale allegria nel nuovo italiano d'oggi postmoderno, incazzato o scazzato e triste, di una tristezza a volte non dissimile - salvo lo stile — da quella inalberata a insegna dell'eremo di Garboli? Non è un caso poi che il "tragico" gli riesca meglio su temi famigliari e culturali, come i due memorabili duetti con Natalia Ginzburg (uno sul terrorismo alle Olimpiadi di Monaco, l'altro sul caso "Serena Cruz", con una grande pagina sul dominio dei falsi scienziati, e dei falsi esperti psicologi e sociologi, insomma, se posso riassumere così, sulla tirannide degli scellerati psicagoghi. Maestro, non solo qui, il suo Molière: "La finta scienza è una specie di putrefazione delle scienze umane; è fatta solamente di linguaggio, e assomiglia in questo al latino pomposo, vacuo, comico, compiaciuto della sua mancanza di opinioni e di emozioni, dei medici di Molière. Infatti il linguaggio della finta scienza è di tipo infermieristico, come se il mondo fosse fatto solo di pazienti. È quasi incredibile come la società di oggi riesca a unire la medicina all'imbecillità. Un giorno ci crederemo tutti degli scienziati, degli esperti, dei tecnici competenti, efficienti, persuasi di fare tutto per il bene di tutti, e saremo dei perfetti cretini"). Ma non è neppure un caso, per converso, che nell'accostamento di due suicidi esemplari, quelli di Raul Gardini e di Gabriele Cagliari, sull'epica tragica dell" 'eroe sportivo che vive il suo giorno di sole alla Hemingway, al mare e al vento, il sorriso sempre splendente e quasi spudorato", faccia aggio il ritratto tragico-grottesco del presidente dell'Eni che scrive in carcere poesie con un che "di banditesco, un istinto di vita refrattario ai rapporti civili col mondo", insomma non un uomo ma una maschera vuota. Forse anche perché l'epica di un'Italia spavalda e fiera come non è mai stata, ma non sprovveduta, in campo sportivo, d'invenzione, d'impresa personale (o famigliare) gli sfugge. Sa dell'America's Cup ma non misura la portata della sfida di un'Italia che non solo per mare si porta ancora dietro Lissa e il resto. E non è infine un caso che Garboli termini idealmente con Enea: "Enea è il nostro archetipo nazionale: noi ne siamo la parodia. È un personaggio straniero, è un eroe passivo, che fonda un impero quasi a malincuore. Nulla lo commuove e tutto lo commuove. Scetticismo, cinismo, religione, pietà". Anche se al pius Enea non occorre addossare anche torti che non aveva: "l'italiano preferisce vivere in uno Stato corrotto che gli garantisca ricchezza piuttosto che in uno Stato normale dove si rispetta la giustizia e si obbedisce alla legge". Insomma, il ricorso all'antico Enea e l'affondo aforistico (tutto il libro potrebbe risolversi in una collana di aforismi) spiega bene la matrice della "tristezza civile" di Garboli e il suo reagente stilistico. Se dovesse scegliere tra la figura e il ruolo dell'intellettuale e quello del letterato, ecco, Garboli non avrebbe dubbi: "Il nesso tra cultura e politica ha distrutto la vecchia figura del letterato e ha imposto quella dell'intellettuale". In questa nostalgia e in questo suo puntare i piedi per non essere un intellettuale giocando le carte sullo stile e l'intelligenza fatta stile, c'è la forza e il limite di un'operetta aurea come questa. Non si dirà che nei casi a cui l'estetismo snobistico non è del tutto estraneo, il bello stile sia un'aggravante. Non ci priveremo della sua forza etica, non foss 'altro che per la sua rarità. Neppure però potremo consolarci asserendo con sicurezza che l'ennesimo esercizio retorico cantra Italiam, sia pur nobile d'intenti e di tradizione (Petrarca, Leopardi, certo), e l'analisi anche feroce del carattere degli italiani faccia oramai parte inte- L'autore risponde grante della loro cultura e del loro carattere medesimo; e dunque di una sorta di autocritica potenzialmente benefica da aggiornarsi di continuo. Il dubbio che sia tardi rimane: in tempi di globalizzazione vale la pena di suonare inni e sventolare bandiere per giunta così paradossali? Comunque sia, la lezione di un pessimista non ci sarà inutile, e potremo fame tesoro, anche se il pessimismo al suo mimine può rovesciarsi in una sorta di prospettiva utopica: "Noi stiamo vivendo un'età di grande trasformazione, stiamo vivendo il congedo dell'uomo dalla natura, il suo addio alla natura. Ci stiamo incamminando verso un mondo quasi esclusivamente mentale. Fatto di conoscenza, non di finta scienza. Perché immaginarselo peggiore di quello feroce e brutale da cui proveniamo? Sono morti gli dèi; ora muoiono gli animali, le foreste, i mari, i fiumi. Vivremo di emozioni e di piaceri mentali. Le nostre gioie saranno forse più pallide, la nostra vita più inemotiva. Ma forse anche meno traumatica, meno feroce, meno sanguinaria, meno crudele. Se l'uomo uccide, violenta e inquina la natura, può darsi che lo faccia perché non ne può più della sua anima primitiva, e ubbidisce a un progetto che non sappiamo. Non potrebbe essere così?". E Natalia: "Ma prima non hai detto che diventeremo tutti cretini? ". ■ giorgiobertoneStiscalinet.it di Giancarlo Ferretti Caro Papuzzi, la tua recensione e la presentazione complessiva del mio libro Una vita ben consumata nel numero 7-8 dell'Indice" sono così serie e premurose che dovrei dire soltanto "grazie". Ma tu mi poni più o meno implicitamente una domanda alla quale voglio rispondere. Se cioè nel propormi di scrivere uri autobiografia "sincera", io non abbia ecceduto proprio in questa sincerità, che tu intendi anche come obiettività, equanimità, autocontrollo, imperturbabilità, e in definitiva indulgenza. Se non sarebbe stato meglio essere un po' meno sincero, aver manipolato un po' le cose, essere stato un po' più scrittore e un po' meno memorialista. Parto dall'esempio che fai tu: Alicata mi censura un pezzo sul Premio Viareggio e io mi limito a raccontarlo senza costruirci sopra. Qui la risposta è facile: l'episodio è inserito in tutto un contesto di mie severe critiche a lui come dirigente del Pei e direttore deW'Unità", sì che alla fine l'episodio stesso si giudica da sé. Ma nel mio libro altrettanto e più ancora critiche, oltre che maliziose talora, sono (per limitarmi a pochi esempi) tante altre pagine sul narcisismo di Quasimodo o sulla freddezza di Calvino, sulla tipologia delle mogli del letterato o sui comportamenti di certi "baroni" universitari, sulle piccole crudeltà di Aldo Tortorella o sull'impudico "novismo" dell'ex compagno D'Alema. Così come credo di essere abbastanza impietoso con me stesso. Mentre certamente non mancano per contro pagine affettuose e partecipi e anche commosse, su maestri e amici e congiunti amati. Dico tutto questo anche per evitare che un potenziale lettore pensi magari a un libro pacifico, pacificato e un po' noioso. E tuttavia dentro la tua domanda c'è anche e soprattutto un problema di carattere generale: si può, si deve, e come, essere sinceri in un'autobiografia? Un problema che naturalmente ciascuno risolve a modo suo. Il che ho fatto anch'io, via via che venivo scrivendo. Cercherò allora di spiegarlo. Ritengo anzitutto che in un'autobiografia la sincerità non sia, non possa essere "la presa diretta", o al limite "il magnetofono". Che forniscono semmai lo sfogo irruente e incontrollato. Secondo me in sostanza l'autobiografia, anche la più sincera, ha bisogno di un filtro, di una mediazione: le esperienze vissute, private e pubbliche, si devono ricomporre in un discorso coerente, attraverso una riflessione e un'interpretazione che, per quanto ci si sforzi di ricordare bene, con fedeltà e onestà, non possono non appartenere al momento in cui si scrive, a un presente che si porta dentro un passato che non è più lo stesso. L'ho accennato almeno in parte proprio a pagina 242, dopo la dichiarazione da cui parte la tua recensione: "Credo di aver scritto un'autobiografia abbastanza sincera". Aggiungendo appunto di aver corso continuamente e consapevolmente l'"(inevitabile) rischio di dare una ricostruzione mediata dall'oggi, e perciò non obiettiva". Quella mediazione poi non è altro che il distacco e il disincanto della scrittura, nella quale le gioie e i dolori, i consensi e i dissensi, gli affetti e i risentimenti, le soddisfazioni e le rabbie, possono trovare un'espressione tanto più efficace, possono avere una forza comunicativa tanto maggiore, possono rappresentare una lezione tanto più motivata: senza pregiudiziali né supponenze, lasciando al lettore tanto più estesi margini di giudizio. La le-