Procedere per fantasmi di Paolo Maccari Antonio Pizzuto SI RIPARANO BAMBOLE a cura di Gualberto Alvino, con una nota di Gianfranco Contini, pp. 312, Ut 18.000, Sellerio, Palermo 2001 Antonio Pizzuto, Salvatore Spinelli HO SCRITTO UN LIBRO a cura di Antonio Pane, introd. di Lucio Zinna, pp. 293, Ut 30.000, Nuova Ipsa, Palermo 2001 Nella bibliografia ufficiale di Pizzuto (quella cioè che non registra le edizioni Semiclandestine o comunque poco diffuse) Si riparano bambole (1960) - il romanzo che oggi ci viene riproposto preceduto da due scritti di Gianfranco Contini - è il secondo titolo, distante di un solo anno dallo splendido esordio di Signorina Rosina; un esordio che valse all'attempato questore siciliano, fino ad allora completamente estraneo ai circuiti letterari, l'attenzione e in alcuni casi il caldo consenso di molti critici. In quella fine degli anni cinquanta in cui ancora echeggiavano i clamori intorno al caso per eccellenza della nostra letteratura del dopoguerra, quel Gattopardo uscito dalla penna di un altro siciliano in là con gli anni - il sessantaseienne Pizzuto dimostrava un pieno controllo delle più moderne conquiste della narrativa europea che non era visibile in scrittori di una o due generazioni più giovani lui. In una tempestiva recensione a Signorina Rosina, Luigi Baldacci descriveva in questi termini la tecnica pizzutiana: "È un procedimento che tende ad allargare il campo narrativo come una macchia d'olio: è quasi una muffa, potremmo dire, che invade la superficie di tutte le cose, senza osservare una direzione prestabilita": il che si può dire, seppure risulti forse in modo meno lampante, anche per Si riparano bambole, dove lo svolgersi della trama procede per larghe e indiscriminate campate memoriali disposte senza alcun ordine gerarchico. Il tempo stesso non scorre con oggettiva coerenza, nessuna lancetta Io misura e ne rende ragione: è un tempo interno, fatto di scatti e di incagli, in movimento certo, ma con un'andatura che non lascia conoscere la sua norma. Pofi, la figura principale del libro, lo incontriamo nelle prime pagine bambino folto di pensieri e suggestioni, e via via passa per l'adolescenza e la maturità per approdare a una canizie gonfia, quasi straripante di ricordi vividi e ancora fragranti. L'attraversamento delle età viene espresso con veloci cenni, genialmente assorbiti dal tessuto della narrazione: "Pofi correva (...) nei quartieri alti, col tram, quasi sempre gre- mito, un giovane si levò per cedergli il posto: la sua prima volta". Infine il protagonista entrerà in un ospizio dove, tra l'altro, gli anziani riparano bambole. Prima di chiudersi nel ricovero, Pofi torna nella casa natale, e qui si compie il cerchio delle vicende di questa nuova incarnazione della figura dell'inetto, dell'inadatto alla vita moderna (troppo distratto da pensieri profondi, troppo divagante e soprattutto troppo fragile: "Era insomma" dice Pizzuto con accenti manzoniani "un albino fra tante linci"): l'esistenza si sfarina in una sorta di polvere che vela gli oggetti e attutisce i rumori della realtà. Tra i molteplici nomi che si potrebbero proporre per inserire la scrittura pizzutiana in un contesto di ricerca affine, quello del Joyce dell' Ulisse e di Finnegans wake appare particolarmente persuasivo (come in tanti, dallo stesso Baldacci a Contini, hanno indicato, e sebbene il nostro negasse un influsso diretto). Ne è prova, tralasciando il monologo interiore, a quelle date già patrimonio comune di tutta Europa, la capacità di fondere i dialoghi all'interno del continuo narrativo, schegge di realtà anch'essi, senza nessun carattere distintivo rispetto alle altre fasi del racconto: "Egli si avviò all'ingresso. Ma ecco la mamma. Dove vuoi andare. A far quattro passi. Indietro. Indietro. Non più libertà. Qui non usciva da soli". Per penetrare nell'officina pizzutiana, attiva a pieno ritmo già N. 10 Narratori italiani negli anni venti, ci viene oggi consegnato un utilissimo strumento dalla casa editrice Nuova Ipsa di Palermo, che ha stampato una parte cospicua delle lettere che Pizzuto scambiò con Salvatore Spinelli, suo fraterno amico e scrittore a sua volta. Corredato da un'ampia introduzione di Lucio Zinna e per le ottime cure di Antonio Pane, il libro getta una luce nuova e chiarificatrice sul sostrato culturale e sulle concezioni letterarie di Pizzuto. Se in lui l'anagrafe è clamorosamente smentita dalla potenza della pagina, nell'amico la nascita nell'Ottocento (i due sono quasi coetanei: classe '92 Spinelli, di un anno più giovane Pizzuto) segna ancora l'adesione a una letteratura avant le déluge. Si dimostra quindi reattivo rispetto all'estetica sperimentale del collega aspirante romanziere e ne stimola delle risposte e delle giustificazioni che per noi rappresentano una fonte ricchissima di dichiarazioni di poetica: "Narrare diventa dunque procedere per fantasmi e secondo fantasmi; la narrazione si trasforma in una stoffa di cui soltanto il tessuto ha pregio, non le figurine che vi sono ricamate o, peggio, stampate sopra". Due libri, per concludere, che ci fanno avvicinare al Pizzuto più leggibile e transitivo: dopo questo sapido assaggio, al lettore la scelta se inerpicarsi o no sulle erte cime dell'ardua produzione successiva. ■ pa.maccari@libero.it Terzo in mezzo ai vostri studi di Luisa Ricaldone Francesco De Sanctis LEZIONI DI SCRITTURA Ledere a Virginia Basco (1855-83) a cura di Fabiana Cacciapuoti, pp. 143, Ut 38.000, Donzelli, Roma 2001 Rispetto all'edizione Laterza voluta da Benedetto Croce (1917) e riprodotta sia nelle successive confluite nell'epistolario desanctisiano (Einaudi, 1956 e '65) sia nella più recente (1997) uscita presso le Edizioni Osanna di Venosa, la presente pubblicazione, che si fonda sugli autografi ritrovati, risulta più ampia: 75 (contro 61) le lettere che l'intellettuale avellinese, esule a Zurigo, scrive alla giovane allieva della scuola gestita dalla signora Elliot, dove aveva insegnato durante il suo soggiorno torinese; e 9 le risposte di Virginia, finora inedite. Peccato che dell'istituto femminile non si sappia nulla, e peccato anche che dell'interlocutrice, figlia di un avvocato piemontese, moglie nel 1858 del nobile Enrico Riccardi di Lantosca Palermo Antonio Pizzuto ha avuto fra i lettori una visibilità. discontinua, un andamento carsico. Lo credevamo scomparso dalla scena della cultura attiva assieme all'amico e maggior sostenitore critico Gianfranco Contini. Invece da qualche anno fioriscono edizioni e riletture. E bisognerà inoltre di lui registrare una presenza in profondo, fuori della cerchia dei cultori, alle radici di certa scrittura d'oggi. Mi riferisco naturalmente alla più ardua delle sue modalità scrittone. Alle sconnessioni temporali che eguagliano i fenomeni nell'atemporalità di un "etemo presente" (così Lucio Zinna, dal quale traggo anche le successive citazioni). Lavorando sulla sintassi, il conoscitore di lingue e filosofo Pizzuto mostra con didattica evidenza quanto un modo di scrivere sia anzitutto un modo di pensare. Pensare la vita, di cui in risposta a un'intervista (1966) disse: "io l'accetto con stupore disciplinato". Sulla vita appunto, sulla specifica vita del giovane Pizzuto, attirano la nostra attenzione i due libri ora usciti, il più noto e autobiografico dei romanzi e un inedito carteggio. Mi fermerò su quest'ultimo, perché lo scambio fra due amici e il corredo che l'accompagna di minuziose notizie hanno l'attrattiva di una perduta realtà storica. Al contrario, è accaduto finora che il bifronte Pizzuto, lo scrittore e il questore, entrasse dimezzato nelle storie letterarie. Cos'era dunque, un secolo fa, una giovinezza di bravi ragazzi a Palermo? Antonio Pizzuto (1893-1976) e Salvatore Spinelli (1892-1969), Bébé e Totò fra di loro, vengono da famiglie borghesi: figlio, Antonio, di un avvocato possidente e di una madre poetessa; figlio di un ingegnere del genio civile, e con due zii materni senatori di nomina regia, Salvatore, che fino ai dieci anni esce di casa solo tenuto per mano da un servitore. Buone scuole, un buon liceo classico (statale), il "Vittorio Emanuele II" per Pizzuto, l'"Umberto I" per Spinelli (e che nomi sabaudi, nomi risorgimentali a Palermo!). Poi studi giuridici all'università, conclusi da entram- bi con la lode in tesi di economia (e Pizzuto vi aggiunge nel 1922 una laurea filosofica). Ma nei loro vent'anni gli interessi che appaiono dominanti sono artistici e letterari, sono la musica, il teatro. Loggionisti. Spinelli segue nota a nota sulla partitura il Tristano di Wagner, finché crolla per l'emozione e gli viene la febbre; e Pizzuto per nove sere di seguito la Norma. Poi, dovendosi guadagnare uno stipendio, si rivolgono ai concorsi pubblici e non. Pizzuto, dopo avere un po' insegnato, prese la strada del poliziotto; Spinelli entrò nell'amministrazione degli ospedali trasferendosi a Milano. E fecero carriera. Tipiche storie siciliane di giovani letterati che lasciavano l'isola per diventare funzionari, burocrati. Di quell'impiego, che li distoglie dal candore delle giovanili passioni e vocazioni, e l'uno e l'altro non dicono che bene. Il simpatico Spinelli, rievocando il suo posto dietro lo scrittoio nella milanese Ca' Granda, l'Ospedale Maggiore, scrisse di avervi svolto "un lavoro così vario, sostanziato di arte, di storia, di palpitante umanità, quale non potevo sperare ài nessun'altra carriera". Ma lo batte, quanto a contatto con la realtà, l'enigmatico Pizzuto che si lascia sfuggire: "ho avuto più volte l'impressione, facendo con disciplina il lavoro che ho fatto, di mettere le mani nella vita". In quali vite, in quali crimini e vicende crudeli, anche politiche, avrà messo le mani durante i molti anni che passò al Viminale e con incarichi nella commissione internazionale di polizia di Vienna, l'attuale Interpol? Di segreti Pizzuto lasciava intendere di conoscerne molti, blindati in una totale riservatezza. Ma non rinunciò a crearsi un mito personale di fondazione, e ad affabularne, raccontando (come riferisce Contini) di aver assistito da giovanissimo in una strada di Palermo all'uccisione del famoso investigatore siculoamericano Joe Petrosino, che gli schizzò il cervello sulle scarpe di tela (messe, vista la bella giornata, assieme a un abito bianco). Personaggio da romanzo il questore Pizzuto. Lidia De Federicis combattente a San Martino e Solferino, morta nel 1916, non si sappia nient'altro, neppure la data di nascita. La sappiamo però, in un primo tempo timidamente riluttante, poi sempre più docile e infine del tutto coinvolta, seguire i consigli del suo professore. Il quale, avendo a cuore l'educazione delle donne (nella lettera 44, 1875, scrive del progetto di una "scuola professionale femminile, così come si fa altrove e non si fa presso di noi") e avendo individuato in lei una inclinazione alla letteratura, la svezza dal punto di vista grammaticale e del lessico e la avvia alla composizione narrativa. Di lettera in lettera il confine tra letteratura e vita si fa labile, complice l'innamoramento di De Sanctis per Teresa De Amicis, cugina di Edmondo e compagna di classe di Virginia. Da quel momento il rapporto docente/discente sfiora il plagio e produce una intrigante collisione tra nobiltà di intenti e graffiti erotici della fantasia (e della carne). La parola diviene più eccitante se fatta rimbalzare lungo i lati del triangolo: Virginia deve amare Teresa in quanto essa è oggetto di desiderio da parte di Francesco: "Oh amala, Virginia; amala di tutto l'amore che le porto io (...). Studiate, leggete insieme; mostratevi i vostri componimenti"; ed egli fantastica, pensandole "la mano nella mano, gli occhi negli occhi"; e chiede che gli si comunichino l'ora e il giorno in cui le due giovani si incontrano, per poter essere "terzo in mezzo a' vostri studi ed a' vostri pensieri". La letteratura, richiamata dai romanzi ottocenteschi costruiti sul modello del "desiderio triangolare" (René Girard), stabilisce i modi di sentire e guida le emozioni. Spiace che gli unici scritti di Virginia Basco pervenutici siano, oltre alle lettere, un raccontino pubblicato in appendice; troppo poco per giudicare se quell'ambiguo e un po' assillante sistema didattico abbia funzionato. ■ rical@cisi.unito.it L'Indice su Pizzuto Su cinque lasse inedite, Silvia Longhi nell'ottobre 1988. Su Cosi e Rapin e Rapier (Polistampa, 1998), Alessandro Po nel luglio 1998. Su II leggibile Pizzuto di Antonio Pane (Polistampa, 1999), Alfonso Lentini nel dicembre 1999. Su Coup de foudre. Lettere (1963-1976) e Telstar. Lettere a Margaret Contini (1964-1976) (Polistampa, 2000), Antonio Pane nel febbraio 2001. Riferimenti a Narrare (Cro-nopio, 1999) in "Cantieri" del febbraio 2000.