, L'INDICE ' ^bjdel libri delmese^i K» CO * i<à o CO fi o CO Karin Wielancl, margherita sarfatti. L'a- mante del Duce, ed. orig. 2004, trad. dal tedesco di Elena Mortarini, pp. 359, € 23, Utet, Torino 2006 Il libro di Karin Wieland su quella che nel 1928 fu chiamata da una giornalista tedesca "la regina senza corona d'Italia" è da leggere per due ragioni: la sapiente ricostruzione di tutto un contesto storico-culturale, che affascina per la pregnanza dell'evocazione e l'agile articolarsi delle direttrici d'analisi, e il ripercorrimento della storia di una donna che seppe esercitare un considerevole influsso per vari anni e in più settori. La delicata fase di transizione in cui Margherita Sarfatti visse è molto ben rappresentata dall'autrice (studiosa di storia delle idee), ma senza rinunciare ad approfondimenti che impreziosiscono il testo. Pagine magnifiche sulla città che le diede i natali, Venezia, sull'amore fra Andrea Costa e Anna Kuliscioff, sul rapporto fra quest'ultima e Margherita stessa, entrambe carismatiche femministe ebree, oppure sull'impatto del fascismo in Italia e nel mondo dal punto di vista della cultura e del costume, fanno da contorno ai temi che si affermano nella seconda parte del libro: l'ascesa di Sarfatti nel mondo del giornalismo e della cultura e la sua relazione amorosa con Mussolini. Animatrice di un salotto fra i più prestigiosi, collezionista d'arte, Margherita Sarfatti voleva dare all'arte fascista l'impronta di un classicismo modernista. Diede anche fiducia a giovani e valenti autori, come Alberto Moravia. Prima dello scoppio della guerra, però, con il radi-calizzarsi di un regime sempre più bellicoso e ormai anche antisemita, finito il legame con il duce, era già in buona parte stata fatta uscire di scena: nelle memorie del 1955 non appariva alcun riferimento a Mussolini. Daniele Rocca gogia dei capi fascisti, come Dorgères, il leader delle "camicie verdi". Sennonché, scrive Canguilhem, nella Francia rurale il fascismo costituirebbe "un ritorno mascherato al feudalesimo": i contadini devono comprenderlo e porsi al fianco degli operai per arginare questo pericolo. (D.R.) Georges Canguilhem, Il fascismo e i contadini, ed. orig. 1935, trad. dal francese di Michele Cammelli, pp. 162, € 14, il Mulino, Bologna 2007 Illustre epistemologo della biologia e della medicina, direttore dell'Istituto di storia delle scienze a Parigi e insegnante alla Sorbona, Georges Canguilhem (1904-1995) scrisse questo volumetto sotto anonimato, pubblicandolo a Cahors nel 1935 per conto del Comité de Vigilance des Intellectuels Antifascistes. Il Comité avviò infatti un'inchiesta sul fascismo in Francia dopo la bagarre antiparlamentare del 6 febbraio 1934, che aveva lasciato sulle strade di Parigi qualcosa come quindici morti e quasi duemila feriti. Con ogni probabilità, Canguilhem sì rivolgeva ai giovani insegnanti della provìncia. Malgrado la sua dichiarata simpatia per il marxismo come dottrina dell'emancipazione umana, egli scelse un approccio nient'affatto ideologico, improntato a una concretezza che favorisse una lotta sentita come vera e propria "urgenza", secondo quanto rileva anche Michele Cammelli nella ricca introduzione (dove purtroppo si riscontrano alcuni svarioni tipografici). A una brillante analisi del "problema rurale" in Francia, che scandaglia la condizione contadina partendo dalle varie forme di proprietà, fa seguito la dettagliata panoramica sui risultati dell'inchiesta del Comité circa la crisi agraria francese. I contadini, che per l'autore non costituiscono semplicemente una "classe", ma un "mondo", sono talora sedotti dalla dema- Massimiliano Griner, I ragazzi del '36. L'avventura dei fascisti italiani nella guerra civile spagnola, pp. 388, €23, Rizzoli, Milano 2006 Questa storia della guerra di Spagna dal punto di vista italiano ruota su una tesi non maggioritaria, ma neppure nuova. In Spagna, scrive Griner, già studioso della banda Koch, non si affrontarono la democrazia e il totalitarismo, bensì due varianti del totalitarismo, la fascista e la comunista. Sicché in quell'occasione Mussolini non concorse ad # affossare una de-<£) llLfB' mocrazia, ma a scongiurare l'avvento dei soviet in Europa occidentale, data la sicura volontà di Stalin nel procedere alla "bolscevizzazione della Spagna". L'autore giudica del resto "grottesca" la definizione di "governo legittimo" per la Repubblica: assecondando l'estrema sinistra, essa non aveva forse ben presto trasformato in "carta straccia" le garanzie costituzionali? La vittoria di Franco fu così il male minore. Questa la tesi che si trova disseminata lungo il volume. Ed è nell'intento di corroborarla sul piano emotivo che si sottolineano qui con forza non tanto i massacri franchisti, e nemmeno la "feroz matanza" dei repubblicani e dei rossi sopravvissuti nel dopoguerra - tematiche appena sfiorate -, quanto le pur indiscutibili efferatezze commesse da alcuni nuclei repubblicani durante il conflitto (peraltro, se la testimonianza sugli eccidi fascisti di un Bernanos è ritenuta enfatica, quella di Curio Mortari o altri sulle violenze antìfranchiste non è messa in discussione). Su Guernica, l'autore sposa ie versioni al ribasso offerte di recente da alcuni storici, che parlano di "soli" duecento morti, non più milleseicento, aggiungendo che, dopotutto, il fine dell'attacco non era "né la distruzione della città né l'annientamento della popolazione, ma la distruzione del ponte sull'Oca". (D.R.) Petra Terhoeven, Oro alla patria. donne, guerra e propaganda nella giornata della fede fascista, ed. orig. 2003, trad. dal tedesco di Marco Cupellaro pp. 383, € 25, il Mulino, Bologna 2007 Il 18 dicembre 1935, "giornata della fede", le donne italiane furono chiamate a donare la fede nuziale in cambio di un anello metallico senza valore, seguendo l'esempio della regina e dimostrando in tal modo la "fede" che riponevano nella patria fascista. Esattamente un mese prima di questo rito d'offerta collettiva, inscenato con profusione di mezzi, la Società delle Nazioni, a causa dell'aggressione all'Etiopia, aveva deciso sanzioni economiche nei confronti dell'Italia. La rilevanza della giornata della fede, citata in quasi tutti i testi sul ventennio, è ampiamente riconosciuta. Mancava tuttavia finora una ricostruzione dettagliata dei presupposti e dei contesto storico di questo evento. Nell'analisi di Petra Terhoven la decostruzione della campagna propagandistica appare funzionale all'approfondimento di due strutture costitutive dei dominio fascista. In primo luogo, il ruolo centrale dell'espansionismo militare non solo come mezzo per un fine di politica estera, ma anche come strumento di consolidamento e di mobilitazione interna. In secondo luogo, il coinvolgimento delle donne in un progetto di nazionalizzazione delle masse privo di qualsiasi valenza emancipatrice e, al contrario, fondato su un'immagine tradizionale e conservatrice della femminilità. Un'esaltazione, dunque, della donna come madre e come moglie che, nella giornata della fede, troverà appoggio e protezione nella chiesa cattolica, tanto da indurre l'autrice a parlare - anche in polemica con gli scritti di Emilio Gentile - di "relìgionizzazione" del fascismo piuttosto che di "religione" fascista. Francesco Cassata Anthony Read, Alla CORTE DEL FuiIRER. GÒRING, GOEBBELS E HlMMLER: INTRIGHI E LOTTE PER IL POTERE NEL TERZO ReICH, ed. orig. 2003, trad. dall'inglese di Francesca Gi-melli, pp. 1029, € 30, Mondadori, Milano 2007 Questo volume, che dal titolo potrebbe apparire scandalistico (l'originale è il non meno intrigante The Devil's Disciples), contiene una circostanziata analisi delle dinamiche interpersonali che si andarono intrecciando attorno a Hitler, in una lotta di potere non di rado giocatasi sulla pelle della popolazione, a partire da quando il suo carisma prese ad affermarsi fino al crollo del Reich sotto le bombe anglo-americane e l'assalto sovietico. Sorprende in queste ormai ben note figure la diffusa, sincera devozione per Hitler, il quale si destreggiava con abilità fra le diverse correnti e le varie rivalità, seguendo la tattica del divide et impera. A dimostrarlo sono gli ampi sunti biografici, proposti con dovizia di dettagli, anche se con eccessive divagazioni sulla vita sentimentale dei "cortigiani": da Góring, asso dell'aviazione, che all'amore per la sua cagionevole Carin presto preferì varie volte seguire il Fuhrer, a Himmler, con la sua formazione cattolica e la passione per Veme; da Rohm, eroe pluridecorato, il solo "uomo d'azione intelligente" della cricca, a Goebbels, mago della propaganda, cinico ed erotomane (come del resto Heydrich), dall'opaco Rosenberg a Hess, che aiutò Hitler a scrivere il Mein Kampf trasmettendogli i concetti che furono alla base del Lebensraum. Sebbene spesso li caratterizzasse una sorta di smaccato infantilismo edonistico, molti furono per loro gli appoggi ad altissimo livello, da quello dei Krupp a Thyssen e al principe Augusto Guglielmo, indubbiamente decisivi per lo sviluppo del movimento hitleriano su scala nazionale ed europea. (D.R.) David Cesariani, Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale, ed. orig. 2004, trad. dall'inglese di Nicoletta Lamberti, pp. 535, € 22, Mondadori, Milano 2006 Sulla base di documenti inediti e dei più recenti approcci storiografici, questa biografia - la prima dopo gli anni sessanta - ricostruisce la figura di Eichmann contestando le tradizionali interpretazioni psicopatologiche relative alla sua infanzia, al suo antisemitismo, alla sua adesione al nazismo e, più in generale, mettendo in dubbio la rappresentazione caricaturale, oscillante tra il mostruoso e il banale, tracciata nel processo del 1961 e nei testi di Hannah Arendt. Richiamandosi alle ricerche di Christopher Brow- ning, Gòtz Aly e Suzanne Heim, il testo ripercorre perciò l'itinerario di Eichmann all'interno delle SS e colloca la sua attività nel contesto dell'erratica e per nulla scontata evoluzione della "politica ebraica" del Terzo Reich. In altre parole, anziché dare per scontato che egli fosse predestinato a diventare il più noto "killer da scrivania" del XX secolo, l'autore segue la carriera di Eichmann da organizzatore dell'emigrazione ebraica negli anni trenta a efficiente responsabile del. genocidio paneuropeo dal 1942 in poi. Tappe fondamentali di questo processo di progressivo "apprendimento" furono prima la politica di migrazione coatta nella Polonia occidentale nel 1939-40, ordinata da Hitler al fine di favorire l'insediamento dei coloni tedeschi, e poi lo sterminio perpetrato, a partire dal 1944, nei confronti degli ebrei ungheresi. Nel complesso, tuttavia, il proposito dell'autore di superare le tesi di Arendt sulla banalità del male e quelle di Stanley Milgram sulla naturale propensione all'obbedienza riesce solo in parte. Infatti, l'autore, in conclusione, non fa che restituire Eichmann alla propria normalità: fu un uomo del Novecento come tanti altri, che fuse il linguaggio della guerra con i miti dell'eugenetica razziale e dell'efficienza burocratica. Federico Trocini Charles Liblau, I KapO di AuSCFIWITZ, ed. orig. 2005, trad. dal francese di Camilla Testi, pp. XXII-160, € 10, Einaudi, Torino 2007 il problema, quando si tratta del "pianeta Auschwitz", è che i territori che lo costituivano, abitati da individui, ma costruiti anche e soprattutto da ruoli e funzioni, lungi dall'essere delimitabili, come suppone il pensiero ingenuo, andavano intersecandosi continuamente. È questo il significato della formula conosciuta come "zona grigia", punto di collisione e di collusione tra vittime e carnefici, tra som- mersi e salvabili, tra subalterni e superiori. Auschwitz non era luogo di anomia, ma, piuttosto, territorio di una legge hob-besiana, dove il debole era invariabilmente destinato a essere divorato dal forte. Da questo punto di vista il lager enfatizzava anche aspetti già presenti, sia pure in fieri, nella vita quotidiana degli esseri liberi: avidità, calcolo d'interesse, omertà, ferocia e così via. Elemento di raccordo tra l'amministrazione del campo e i prigionieri erano coloro che tra questi ultimi venivano scelti per esercitare la mansione di Kapo, ovvero di detenuti-funzionari, addetti alla verifica, per conto dei nazisti, del "buon" funzionamento dell'insieme delle attività grazie alle quali si articolava la vita (e la morte) nel lager. Charles Liblau, militante comunista polacco, combattente nella guerra di Spagna, deportato politico ad Auschwitz, ricostruisce con stile secco e sobrio, senza concessione alcuna alla retorica di maniera, ii funzionamento dell'universo concentrazionario attraverso l'indagine sul ruolo svolto da sei Kapo. Più che l'aspetto della loro disumanità, quel che all'autore interessa è mettere a fuoco i meccanismi attraverso i quali i campi di concentramento poterono funzionare. Lo fa con la perizia che fu propria di parte dei deportati politici, coscienza storica di una tragedia collettiva. Claudio Vercelli