N. 5 dei libri del mese | 43 Hayden White, forme di storia. dalla realtà alla narrazione, a cura di Edoardo Tortarolo, pp. 215, € 18,50, Carocci, Roma 2007 Oltre trent'anni dopo la pubblicazione di Metahistory, Hayden White, in occasione della presentazione al pubblico italiano di una densa raccolta di alcuni saggi assai brillanti, invita a riflettere criticamente sulla distinzione aristotelica tra storia e poesia e, con ciò, a respingere l'idea di un'immediata corrispondenza tra la realtà storica e la sua rappresentazione. Le osservazioni di White sono poi arricchite da una breve e illuminante postfazione di Tortarolo, che offre un inquadramento dell'opera del filosofo americano nella riflessione metodologica del Novecento. L'idea principale che percorre tutto il testo è la seguente: sebbene debba aspirare all'oggettività, la storia non è una disciplina scientifica in senso stretto. Più precisamente, mettendo in moto quel complesso processo cognitivo che Collingwood definì "immaginazione costruttiva", la narrazione storica opera secondo un meccanismo metaforico che non solo riproduce gli eventi, ma soprattutto suggerisce un complesso di simboli che restituisce familiarità agli eventi del passato, simultaneamente inserendoli in un contesto morale. Ciò avviene, secondo White, essenzialmente perché la storia, non possedendo un proprio oggetto di studio, è uno spazio aperto di confronto irrisolvibile tra figurazioni poetiche antagonistiche di ciò che è possibile definire "passato". In altre parole, diversamente dalle scienze propriamente dette, la conoscenza di tipo storico progredisce attraverso molteplici codificazioni di materiale letterario e, come tale, inconfutabile. Nondimeno, ammonisce White, riconoscere l'elemento di fantasia presente nella storiografia non significa dissolverne lo statuto conoscitivo: al contrario, rappresenta il primo passo per la liberazione del sapere storico dalle sofisticazioni ideologiche nascoste al di sotto delle presunte trasparenze del linguaggio specialistico. Federico Trocini politici della storia e, nel contempo, a differenti memorie nascoste, se non perseguitate. È qui che si evidenzia l'importanza del ruolo dello storico, che, pur non potendo pretendere di raggiungere l'ideale avalutatività, ciò nondimeno non può neppure lavorare, sulla spinta del coinvolgimento emotivo della memoria, "con categorie da diritto penale". Francesco Regalzi Enzo Traverso, Il passato: istruzioni per l'uso. Storia, memoria, politica, ed. orig. 2005, trad. dal francese di Gianfranco Morosa-to, pp. 143, € 12,50, ombre corte, Verona 2006 Nato da un intervento tenuto all'Università argentina di La Piata e ulteriormente arricchito con nuovi spunti di ricerca, quello di Enzo Traverso è un originale e interessante itinerario investigativo intorno al rapporto tra storia e memoria e ai loro possibili usi politici. Attraverso la ricostruzione delle tappe principali di un dibattito che ha attraversato la storiografia novecentesca, con particolare riferimento a Paul Ricoeur, Walter Benjamin e Maurice Halbwachs, il lettore è indirizzato verso un cammino che ripercorre il nesso storia-memoria alla luce di alcune delle più discusse eredità del secolo scorso. Non senza una certa vena polemica, l'autore nota infatti l'uso massiccio, quasi un'inflazione, del termine "memoria" negli ultimi anni, tanto da spingere Annette Wieviorka a descrivere quella contemporanea come l'"era del testimone". La storia necessita invece, sostiene Traverso, di un processo di emancipazione dal dominio della memoria, superando quei caratteri personali, emotivi e selettivi che le sono propri. Tra i molti esempi offerti al lettore, particolarmente interessante è la differenza tra i resoconti in margine al processo Eichmann dei commentatori mossi dalla memoria dei sopravvissuti e le pagine celebri di Hannah Arendt. Soprattutto bisogna rifuggire dall'errore che porta a considerare la memoria come custode della verità e all'istituzionalizzazione delle memorie ufficiali, che conduce facilmente a distorti usi Avishai Margalit, L'etica della memoria, ed. orig. 2004, trad. dall'inglese di Valeria Ot-tonelli, pp. 176, € 13, il Mulino, Bologna 2007 Avishai Margalit è figura nota a chi si cimenta in studi filosofici. In lingua italiana il suo volume più significativo, La società decente (Guerini e Associati, 1998), è quello che ha raccolto la minore eco tra il pubblico. Più conosciuto per i suoi ritratti gerosolomitani raccolti in Volti d'Israele (Carocci, 2000), ora ci è offerto alla lettura nell'esercizio della sua disciplina, di cui fa un uso applicativo, reputandosi un filosofo "per esempio", impegnato nella chiarificazione più che nella enunciazione dottrinale. Il quesito di fondo verte intorno all'esistenza o meno di un'etica della memoria. Il richiamo all'attualità è evidente, laddove l'impellenza del ricordo sembra fare il paio con il difetto di storia che connota la nostra contemporaneità. Ma l'autore sposta il tiro verso un fuoco più circoscritto, concentrandosi sul problema della costruzione morale degli individui e delie comunità attraverso l'uso del ricordo. Da questa premessa la sua riflessione spazia sulla memoria come dovere e come diritto, sulla dinamica sofferta tra ricordi e oblio, sulla natura del soggetto, singolare e plurale, che deve rammentare. La conclusione è che "sebbene si dia un'etica della memoria, nella memoria c'è ben poca moralità". In altre parole, se la memoria è uno degli attributi del porsi in relazione con ciò che ci circonda, essa ha fondamento nei legami "spessi", quelli costituiti da appartenenze strette e solide, fondate sulla reciprocità. Ben diverso è invece il discorso che riguarda la morale pub-. blica, dove prevalgono lealtà e identificazioni assai più fragili. Margalit ci fa quindi presente che "la memoria è conoscenza che viene dal passato, non è necessariamente conoscenza sul passato". L'equivocare su queste due diverse funzioni vuol dire fraintenderne la sua fruizione per il tempo a venire. Claudio Vercelli Denise Holstein, Non vi dimenticherò mai, bambini miei di auschwitz, testimonianza raccolta da Gilles Plazy, ed. orig. 1995, trad. dal francese di Nicolò Barile, pp. 142, €10, il nuovo melangolo, Genova 2007 Chi si cimenta nella memorialistica della deportazione sa che ci troviamo dinanzi agli ultimi bagliori di un crepuscolo. Non a caso la quantità di testimonianze consegnate alla carta, ma anche ad altre forme di comunicazione pubblica, sono visibilmente cresciute negli ultimi venti anni. Con risultati diseguali, a onore del vero, ma concorrendo a creare un vero e proprio genere letterario, fondato sulla "testimonialità". Un trend che in parte si interseca con una diffusa domanda da parte dei pubblico europeo e americano, ma che si alimenta soprattutto della scomparsa degli ultimi protagonisti di quella storia. All'inevitabile declino anagrafico e al transito intergenerazionale si accompagna il bisogno di consegnare alla memoria frammenti delle proprie esperienze, spesso facendo forza contro legittimi pudori personali, superati solo dalla coscienza che il tempo per narrare è oramai agli sgoccioli. La parola ferisce, ma anche sana, come ci spiega la stessa Denise Holstein, ebrea francese che, tra il 1943 e il 1945, conobbe i campi di Drancy, di Auschwitz e di Bergen-Belsen. Quel che più conta della sua testimonianza, ora anche in italiano, è l'evidente sforzo che la connota nel tentativo di verbalizzare, a beneficio altrui, quel che altrimenti non potrebbe che rimanere nel silenzio dell'eternità. Non a caso le parole per dirlo sono quelle che più le occorrono e che ancor più le difettano. Nella feroce e irrisolta dialettica tra dicibile e indicibile, quindi, sta il senso di ciò che l"'era del testimone" consegna a noi che di quelle cose sappiamo solo per averle ascoltate. (C.V.) Alessandra Chiappano, I lager nazisti. Guida storico-didattica, con un contributo di Fabio Maria Pace, pp. 270, € 15, La Giuntina, Firenze 2007 Il fenomeno ha assunto, negli ultimi vent'anni, la natura di evento di massa. Parliamo delle visite ai campi di concentramento e ai luoghi di sterminio, là dove la barbarie nazista ebbe il suo tragico corso. Nati un po' in sordina negli anni settanta, come pratica propria soprattutto degli ex deportati, i cosiddetti "viaggi della memoria" sono divenuti una forma attraverso la quale la collettività europea esprime la sua adesione ai valori della democrazia. Ma anche, e soprattutto, un criterio attraverso a cui le scuole e le pubbliche amministrazioni cercano di far fronte, a volte anche in maniera confusa, alla domanda di "veridicità" che le giovani generazioni vanno avanzando nel merito della storia recente, Il volume di Alessandra Chiappano, responsabile della didattica per l'Istituto nazionale per la storia del movimento dì liberazione, da anni impegnata sul versante della divulgazione storica, si presenta come una vera e propria guida ai luoghi del dolore e dei ricordo, colmando così un vuoto che sussisteva da tempo nel panorama editoriale italiano. Tre sono i percorsi di significato che l'autrice offre ai suoi lettori: una ricostruzione storica sia delle deportazioni che della loro natura, mettendo in rilievo identità e differenze all'interno del più generale fenomeno concentrazionario; un approccio didattico, utile soprattutto agli insegnanti che accompagnano i gruppi di studenti in visita ai lager; una mappa ragionata dei singoli campi, con una particolare attenzione a quelli italiani, Fossoli e la Risiera di San Sabba. Come ogni buona guida, il volume è corredato di utili indicazioni pratiche, affinché chi vi faccia ricorso ne possa fruire anche logisticamente e operativamente. (C.V.) rie, ai fianco, tra gli altri, di Primo Levi, Hannah Arendt e Margarete Buber-Neu-mann, come lo stesso Tzvetan Todorov, nei suoi libri sulla memoria, ha più volte ribadito. Allieva di Marcel Mauss, profonda conoscitrice dell'Algeria berbera, nella quale ha compiuto le sue ricerche di etnografia, e poi militante della Resistenza, nel 1942 viene arrestata dai tedeschi e deportata a Ravensbruck. Salvatasi dalla tremenda prigionia, e quindi ritornata in patria, nel secondo dopoguerra si impegna attivamente per l'indipendenza algerina e nella denuncia dei gulag staliniani. Il libro che ci viene ora offerto è la sua prima opera disponibile sul mercato italiano. Si tratta di un volume pluritema-tico e robusto, che ambisce a presentare al lettore i diversi aspetti dell'impegno dell'autrice. Per rendere più intelligibile la gran messe di riflessioni e di scritti offerti alla comune lettura, il libro si articola infatti in una serie di sezioni che ricalcano i distinti ambiti dell'impegno di TiI-lion: la Resistenza, la deportazione, la denuncia dello stalinismo e del totalitarismo, l'Algeria berbera e i rapporti non sempre facili con il Fronte di liberazione nazionale, l'etnoantropologia e la riflessione sulle scienze sociali. Un ritratto a tutto tondo, che, per essere compreso, richiede tuttavia una buona conoscenza della realtà e del dibattito francesi. (C.V.) Germaine Tillion, alla ricerca del vero e del giusto. Dalla Shoah all'Algeria, una testimone del male nei. novecento, ed. orig. 2001, trad. dal francese di Mario Porro, pp. 350, € 30, Medusa, Milano 2007 Ben nota in Francia, sia come studiosa e ricercatrice nel campo delle scienze umane e antropologiche che come militante per i diritti umani, Germaine Tillion, nata nel 1907, con la sua lunghissima vita ha attraversato la storia del Novecento, vivendone la contraddittorietà. Di questo secolo è una delle figure icona, in quanto "testimone" per eccellenza del connubio irrisolto tra modernità e barba- Gianni Barrai, borovnica '45. Al confine orientale d'italia. memorie di un ufficiale italiano, postfaz. di Raoul Pupo, pp. 303, €16, Edizioni Paoline, Milano 2007 Ecco una vicenda italiana insieme ordinaria e straordinaria. Il protagonista è un ufficiale degli alpini piemontese. Durante la guerra viene mandato sul Don, ma fa ritorno prima della grande offensiva russa, perché trasferito nella valle dell'Isonzo a presidiare la ferrovia. Qui giunto, l'alpino - laureando in scienze filologiche - scopre l'esistenza degli sloveni e si innamora della lingua, della cultura, dei canti e della gente. Si mescola agli abitanti e comincia a studiare lo sloveno. Dopo l'8 settembre torna in Piemonte, ma ci resta poco: la nostalgia del piccolo mondo sloveno è troppo forte e l'unico modo che Barrai riesce a escogitare per tornarci è di arruolarsi nel battaglione Mussolini. Riprende a frequentare gli sloveni e si trova una ragazza, che sposerà. Finita la guerra, il battaglione viene catturato dai partigiani. Barrai finisce allora a Borovni-ca, il più terribile campo di prigionia jugoslavo. Qui le possibilità di sopravvivenza sono scarse, ma Barrai è l'unico dei prigionieri a conoscere lo sloveno e viene destinato all'amministrazione. Mangia. E perciò sopravvive. Non solo: tiene i registri dei prigionieri, è informato su tutti gli aspetti dell'amministrazione e conosce da vicino i comandanti e tutti i carcerieri. Il suo diario, in cui tutte le informazioni sono riportate, costituisce quindi la fonte principale per la conoscenza di quel che è accaduto a Borovnica. Alla fine dell'estate del '45 Barrai esce, torna in Italia, ma si reca spesso nel paesino sull'Isonzo. Agli inizi degli anni cinquanta le autorità jugoslave gli vietano però l'ingresso nel paese. Ma Barrai non si scoraggia e, appena Tito allenta il pugno di ferro, riallaccia i rapporti con il mondo sloveno, diventando il traduttore di alcuni tra i maggiori scrittori e storici sloveni del dopoguerra. Bruno Bongiovanni IO k o OD e • IO k o "SO co o