, L'INDICE ^■idei libri del mese|h o Narratori italiani Biografie Letterature Poesia Arte Danza e Teatro Psicoanalisi Storia e memoria Lascismi Socialisti Internazionale Narratori italiani Antonio Castronuovo. macchine fantastiche, pp. 238, € 13, Stampa alternativa - Nuovi Equilibri, Viterbo 2007 Fra gli attuali scrittori italiani Castronuovo è di una specie rara. Predilige la scrittura breve, l'aforisma estroso (come in Tutto il mondo è palese, Mobydick, 2006). Se intreccia una trama, la vuole di secondo grado: basata non su sentimenti diretti e comuni schemi psicologici, bensì su connessioni e digressioni che sollecitano il sapere del lettore, la memoria intellettuale, le libere mescolanze e impressioni. Così è fatto questo libro: descrizione di descrizioni, narrazione di narrazioni, messe insieme da un autore che si dichiara viandante senza sistema, passeggiatore tra scaffali e opere d'arte. La passeggiata qui avviene attraverso le "macchine fantastiche", da intendere come macchine di fantasia (inverosimili o incomprensibili e comunque mai esistite) che artisti e scrittori hanno creato e collocato nelle loro opere, seguendo non l'ispirazione, un concetto che Castronuovo respinge (e cita subito infatti la poetica antiromantica di Sinisgalli: "è esattamente senza ispirazione che si deve scrivere"), ma la ferrea logica della macchina o altri oscuri motivi. Qualcosa avrà suggerito a Kafka il tremendo erpice che sul corpo del suppliziato incide ia legge ed esegue la sentenza, ciclo di morte da compiersi in circa dodici ore. Kafka segna un punto massimo di analitica crudeltà nella scrittura descrittiva. Ma anche un congegno semplice, la serratura segreta escogitata da Epeo per l'apertura del famoso cavallo, "con i greci che sgozzano i Troiani assopiti", evoca sangue e vittime. Le macchine che Castronuovo elenca, divagando fra storia e mito, sono un bel numero, di circa duecento voci. Ogni macchina innesca una storia con le sue fonti, un racconto. Possiamo leggere questo li-briccino sterminato come una raccolta di racconti. Oppure, e meglio, leggiamolo come una grande storia collettiva che tutti ci riguarda, una porzione della storia umana. Le invenzioni, meccaniche o elettriche, sono state spesso prodotte per uccidere. Castronuovo sostiene che, depositate nell'arte o nella scrittura, cessano di spaventarci. Questo infatti è un libriccino spavaldo e strambo, un viaggio nel meraviglioso. Un'elegante macchinazione dell'amabile Castronuovo per distrarci dalla vita. Lidia De Federicis Andrea Ferrari, passaggi di tempo, pp.155, € 12,50, Fazi, Roma 2007 Curioso esordio, questo dell'emiliano Andrea Ferrari, nato a Reggio Emilia nel '62, del tutto nuovo nel panorama della narrativa italiana e lontanissimo dai suoi conterranei più noti che hanno preferito la linea della riproduzione del parlato. Andrea Ferrari presenta un romanzo, che può essere inscritto nel genere fantastico -altra novità per un italiano che, tra i contemporanei, può trovare qualche forma di parentela con ii fantasy spinto di Valerio Evangelisti -, sulla perdita della memoria e viceversa sulla corsa contro l'ineluttabile, sull'ossessione dei ricordi e viceversa sulla loro intrinseca volatilità. Ci sono due uomini maturi che, non proprio incidentalmente, si incontrano per stipulare un contratto che prevede uno scambio del tempo vissuto dell'uno con il tempo ancora da vivere dell'altro. Questa relazione sta nel cuore del libro. Intorno, l'ambientazione anni trenta, l'ascesa di Mussolini, una colonia sperduta nell'Atlantico, i viaggi per mare, ia nascita delle compagnie aeree -descritta con una precisione all'altezza del cronista americano William Langewiesche a cui le pagine iniziali e quelle finali sembrano ispirate -, due storie d'amore, una figlia cresciuta con un passato misterioso da gestire. Le frasi brevi, il fitto dialogato sono controllati bene da Andrea Ferrari che, a tratti, inciampa in qualche ingenuità un po' inutile. I cognomi vistosi dei protagonisti, forse anche troppo evocativi, i profumi delle donne (la vaniglia, le spezie...) sono di troppo. Ma, nell'insieme, la complessità della struttura tiene e ha un suo ardimento. Il finale colpisce con una classica agnizione. Restano impressi bei periodi come questo: "Philippe non sapeva più com'è quando si toccano le cose e, dal momento che tutto era tornato nuovo, viveva un'esistenza di soprassalti". I "soprassalti" del cuore che in letteratura, e non solo, sono una continua insidia allo scorrere del tempo. Camilla Valletti Chiara Valerio, Fermati un minuto a salutare, pp. 138, € 10, Robin, Roma 2006 Chiara Valerio, non ancora trentenne, non è al suo esordio narrativo: la raccolta di racconti A complicare le cose, pubblicata nel 2003, ha vinto il premio Carver-Prospektiva e nel 2005 la pièce Non capisci è stata rappresentata durante "Mai detto, m'hai detto", primo fe- stival nazionale di microdrammaturgia. Il pregio di questi nuovi racconti, come di quelli precedenti, sta nella scrittura, secca e precisa, corrispondente a una logica stringente, che forse discende dal corso di studi in matematica: "Quando il principio A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria si era trasformato in A ogni azione corrisponde una assunzione di responsabilità". Da un pretesto minimo o da un'osservazione quotidiana ha origine una concatenazione di pensieri lucidi e mai scontati, che spesso comportano un cambiamento o una rivoluzione dolorosa. È il caso, per esempio, di The price of Spritz, dove tutto si muove, dalle scelte compiute all'identità sessuale, trascinato dall'onda di una riflessione continua sulla borghesia. Altre volte c'è un segno minimo, il sintomo di un disagio a cui non si è ancora dato un nome, come nel caso della ragazza che si muove in una casa perfetta, sotto il carico delle aspettative che i genitori hanno riposto in lei, con un'insopprimibile e frustrata voglia di caffè che si risolve in una truffa grottesca. Il meccanismo, che scatta sempre da un particolare minimo, può sconvolgere esistenze o può sospingere verso soluzioni impreviste, a meno che "l'anonimato ci torni addosso come una coperta calda e sicura contro il vento freddo degli aneddoti degli altri". Il rischio è che lo scavo, che intacca ogni gesto quotidiano, sia minato da un eccesso di attenzione (e anche, a volte, di intellettualità) tanto da inceppare il meccanismo della vita. Chiara Valerio lo sa e lo dice in più modi, per esempio quando riporta la riflessione sui "lacci" ("il laccio è la sintesi della sicurezza del l'hai fissato bene?' dei viaggi in auto e bagagli") di una ragazza che, quando cade per l'ennesima volta in metropolitana e perde una scarpa, rimpiange il tempo dell'infanzia, quando si cadeva e "non ci si faceva niente". O, ancora, quando racconta, in Pe(n)ne d'amore (una finta lettera a Natalia Aspesi), la crisi di un uomo, abituato a usare solo gomma e matita, nel momento in cui una ragazza che gli interessa gli regala una penna. Se le metafore e la simbologia degli oggetti possono sembrare talvolta troppo complesse, si chiariscono sempre nello svolgersi del monologo interiore, chiaro, spezzato, spesso denso di ironia. Monica Bardi Bianca Garavelli, Amore a cape Town, pp. 145, € 12, Avagliano, Roma 2006 Abbandonando i territori per lei consueti della cultura medievale e degli intrecci dalle chiare implicazioni esoteriche-metafisiche, Bianca Garavelli propone un resoconto scritto in prima persona di una vacanza a Cape Town, ovvia- mente non autobiografico. Sugli sfondi affascinanti del Sud Africa, si snoda una serie di incontri e di scoperte che trovano un comun denominatore nella volontà della protagonista di liberarsi delle inibizioni consuete in patria e di cercare una "soluzione straniera" ai suoi problemi sentimentali. Gli incontri casuali mettono in luce molti dei problemi che possono affliggere una donna che non ha ancora raggiunto una soddisfazione se non molto parziale dei suoi ideali: qui, il raggiungimento di una momentanea pienezza, grazie al rapporto con l'interessante Guido, lascia il posto a nuove delusioni, incertezze, desideri di cercare di nuovo. Il tema, chiaramente bovaristico, viene affrontato da Bianca Garavelli con un misto di perfetta partecipazione e di sottile distacco. Con delicata ironia vengono per esempio affrontati i continui ripensamenti della protagonista, indecisa sul da farsi in molte delle occasioni che le vengono offerte. Ben delineato è il rapporto con l'amica Margherita, lei pure nel mezzo di molti cambiamenti in ambito sentimentale. Alla fine, rimane ben impressa al lettore la condizione non pacificata della protagonista, viaggiatrice che vuole sempre tornare indietro, e che ha creato una casa che è come "un piccolo tempio del viaggio, che ricarica ogni volta la mia energia e mi permette di continuare a viaggiare all'infinito, per tutti i luoghi del mondo". Così come rimane impressa la sua scelta conclusiva di rimanere sola, ma con la speranza di ritrovare un compagno capace di condividere la sua fiduciosa ricerca di un'impossibile stabilità. Alberto Casadei Alessandra Arachi, lunatica. storia di una mente bipolare, pp. 139, € 15, Rizzoli, Milano 2006 Alessandra Arachi ha quarantatre anni, è una giornalista del "Corriere della Sera", ha già scritto un paio di libri di reportage (Leoncaval-lo blues. Feltrinelli, 1995 e Unico indizio: la normalità. L'Italia a sud dell'Italia, Feltrinelli, 1997) e un terzo sulla sua adolescenza da anoressica (Briciole. Feltrinelli, 1994). Sul disturbo bipolare si incentra questo suo recente libro, che è al contempo autobiografico e divulgativo. Di questa patologia, in Italia per lo meno, si parla e si scrive poco: nonostante la sua diffusione è difficile farsi venire in mente un solo personaggio in qualche modo pubblico che abbia raccontato di esserne afflitto. Lo si dice di grandi artisti e scrittori deceduti (Whitman e Hemingway, Rossini e Caravaggio), ma con tutte le cautele di un'ipotesi diagnostica fatta a posteriori. Arachi costituisce dunque un'utile anomalia che permette di seguire da vicino i picchi e le tremende cadute di un umore instabile che sa placare l'incontrollabile eccitazione della fase maniacale (dodicimila chilometri percorsi in un mese con poche e brevi pause di sonno) solo con uh eccesso di segno opposto di natura depressiva. Così la mente, prima sovraccarica di stimoli non filtrati ed emozioni travolgenti, si svuota rimanendo priva di appigli: "Non avevo più niente. Da fare. Da pensare. Da dire. Da immaginare. Da sognare. Da sperare. (...) Avrei voluto solo chiudere gli occhi e non avere più il mondo intorno". Dopo un primo ricovero questo vuoto sarà riempito con il pensiero tenace, messo in pratica ma fallito per una casualità, di lasciarlo in modo efficace, questo mondo. Il racconto è però molto di più dall'esposizione di un caso clinico. Sopravvissuta a se stessa, e con sapiente mestiere, la cronista usa parole asciutte e controllate per mettersi al servizio della donna che faticosamente ha saputo domare la propria malattia - imparando a conoscerla, a tenerne sotto controllo gli eccessi, a lasciarsi aiutare da persone, terapie e farmaci - e non se ne vuole più vergognare. Il suo racconto, pur così carico di sofferenza, è lieve, riesce a non avere pudori senza mai essere morboso; è uno scritto consapevole, che però predilige l'ironia e a tratti riesce anche a farci sorridere, come quando in clinica Alberto, che in cocaina ha speso una fortuna, la guarda con invidia e commenta: "Beata te, tutto questo casino gratis". Tiziana Magone