, L'INDICE ' ^Hoei libri del mese Storia Senza lasciare tracce di Ennio Di Nolfo Diplomazia della steppa di Niccolò Pianciola Isabel de Madariaga IVAN IL TERRIBILE ed. orig. 2005, trad. dall'inglese di Raffaella Fagetti, pp. 492, € 38, Einaudi, Forino 2006 Dopo aver scritto uno dei più affascinanti affreschi sul Settecento russo (Caterina di Russia, Einaudi, 1988), Isabel de Madariaga analizza ora la vita di Ivan per riconsegnarla all'epoca cui appartiene, il XVI secolo, tra diplomazia degli stati europei, cultura delle loro corti e "diplomazia della steppa" asiatica. Madariaga ha scritto un libro di grande fascino narrativo e ricco di intuizioni illuminanti su vari aspetti del regno di Ivan, la cui figura emerge come quella di un principe rinascimentale che condivideva molte delle caratteristiche culturali delle corti europee dell'epoca, come il forte interesse per l'alchimia e l'occultismo. Madariaga utilizza la comparazione con esperienze europee coeve in campo culturale, ma senza dimenticare le possibili influenze mongole sulle istituzioni politiche russe, ad esempio nel caso dell'opricnina. L'autrice si scontra però con la disparità tra le fonti utilizzabili dallo storico della Russia pre-petrina e quelle a disposizione di coloro che studiano l'Europa occidentale. Tale diversità è figlia anche delle caratteristiche dell'amministrazione moscovita del XVI secolo, ben diversa da molti dei contemporanei regni europei. Se Basilio III di Russia (1505-1533) aveva ai suoi ordini centoventuno segretari, l'amministrazione coeva di Francesco I di Francia contava quattromila ufficiali (e nel 1573 erano già ben ventimila). Questa diversità strutturale ha avuto come conseguenza una grande scarsità relativa di fonti scritte, amministrative ma anche di carattere privato, sulla Moscovia del tempo di Ivan. Alla scarsità si aggiunge la dubbia autenticità di fonti cruciali per lo studio del periodo. Madariaga è una specialista del Settecento e, come lei stessa scrive nell'introduzione, non possiede le competenze filologiche per giudicare con cognizione di causa l'autenticità o la corretta datazione dei testi su cui si basa la storia russa del XVI secolo. La questione non è di poco conto, dal momento che fin dall'inizio degli anni settanta Edward Keenan (seguito poi da altri studiosi) ha sostenuto con argomentazioni filologiche la falsità (sarebbero apocrifi del XVII secolo) di due delle fonti maggiori (e letterariamente più belle) sul regno di Ivan: il carteggio tra lo zar e il principe Andrej Kurbskij (pubblicato in Italia da Adelphi) e la Storia del Gran Principe di Mosca, il cui autore sarebbe lo stesso Kurbskij. Altre fonti coeve sono state sottoposte a simili critiche. Pur non nascondendo l'evanescenza della figura storica di Ivan, Madariaga per necessità non entra nella disputa e utilizza in modo ecumenico le fonti primarie e secondarie (tra cui i grandi storici ottocenteschi russi, in primis Karamzin), con esiti a volte contraddittori. Più che per altri periodi o aree geografiche, il corpus storiografico sul XVI secolo russo resta così legato a sottilissimi fili documentari che un attento esame potrebbe rivelare come già spezzati. Con l'eventualità, come ha di recente ricordato Carolyn Pouncy, di poter scoprire che forse "non sono sopravvissute abbastanza fonti per permetterci di scrivere una biografia di nessuna delle figure della Russia del XVI secolo, compreso Ivan IV". Constantine Pleshakov IL SILENZIO DI STALIN i primi dieci tragici giorni dell'operazione Barbarossa ed. orig. 2005, trad. dall'inglese di Francesco Roncacci, pp. 369, €24, Corbaccio, Milano 2007 Non è frequente che editori italiani pubblichino opere specialistiche di storia. Le ragioni sono facili da comprendere. Il mercato degli specialisti non è così vasto da assicurare un successo editoriale almeno eguale agli oneri della pubblicazione. Tanto più meritoria appare dunque la scelta dell'editore milanese di tradurre (magari in modo un po' frettoloso) questo volume. Ciò che attrae è il titolo italiano, che mette subito a fuoco il contenuto del libro. Infatti, di solito si ritiene che, preso di sorpresa dall'attacco tedesco, Stalin, il 21 giugno 1941, scomparisse dalla scena politica per ripresentarsi il 3 luglio con un grandioso appello alla solidarietà nazionale. È fondata questa nozione? Che cosa fece Stalin dopo aver appreso che Hitler aveva scatenato la guerra contro l'Unione Sovietica? Sono, questi, interrogativi solo apparentemente marginali, in realtà tali da mettere in discussione tutta la figura del dittatore sovietico. Rispondere a questo punto oscuro della storiografia significa esplorare un caso personale che getta luce oltre l'episodio specifico, ma illumina il funzionamento di tutto il sistema di potere staliniano; un tema di tale portata da lasciar capire che ha un valore ben più esteso e disteso di quanto non abbia la storia di dieci giorni della vita di un dittatore. Questo spiega perché il volume di Pleshakov venga accolto con estremo interesse e, al di là di ogni giudizio sul suo contenuto e sull'efficacia della ricostruzione, rappresenti un contributo non marginale alla sprovincializzazione della storiografia italiana relativa alle questioni internazionali: una storiografia troppo spesso adagiata sui luoghi comuni dell'ideologia o del sentito dire e visto leggere. La lunga premessa contribuisce però a spiegare anche il senso di relativa delusione che poi la lettura del libro suscita. E ben vero che esso ricostruisce minuziosamente azioni, umori, malumori e decisioni di Stalin nei giorni successivi all'attacco tedesco e che pertanto colma un vuoto nelle nostre conoscenze, ma il metodo della ricostruzione e l'inadeguatezza delle fonti finiscono per circoscrivere la portata di un'opera che avrebbe potuto essere assai più rilevante se l'autore, anziché lasciarsi prendere la mano dal sarcasmo o dal proposito di colorire "alla russa" la sua rico- struzione, avesse potuto disporre di una documentazione più completa e avesse dato a tale ricostruzione un carattere più sinteticamente comprensibile, più logicamente esplicito. La prima delusione viene dalla natura delle fonti. Pleshakov ammette candidamente di avere lavorato su pochi documenti sovietici già noti e di non aver potuto disporre di quelli più importanti. Egli si basa sul controllo incrociato delle vecchie fonti (soprattutto russe: e questo è, per i molti che non conoscono la lingua, un bel contributo), ma conclude mestamente: "Non è possibile arrivare a un verdetto finale sulla 'verità' in assenza di Stalin, il testimone chiave che, tuttavia, non ci ha lasciato alcuna memoria, né diari, né taccuini, e ben poche lettere". Restano i ricordi degli altri protagonisti, "affidabili quanto l'amore di una prostituta" (un esempio, questo, del linguaggio icastico al quale Pleshakov si concede con troppa frequenza). Perciò ci si deve accontentare di una documentazione quanto mai soggettiva. Un'altra delusione proviene dalla contraddizione di base che mina uno degli aspetti principali della ricostruzione. Di solito si è creduto che una delle ragioni della fragilità del comando supremo sovietico fosse radicata nella grande purga del 1937: 35.000 ufficiali dell'Armata rossa eliminati per sospetto di tradimento. Pleshakov spiega che questa decimazione fu tra le cause della sconfitta del 1941, ma che il terrore staliniano era tutt'altro che irrazionale, dato che senza di esso "nei primi giorni o nelle prime settimane dopo l'invasione tedesca ci sarebbe certamente stato un golpe militare, o una rivolta popolare contro Stalin". Ora, a parte il fatto che l'uso dell'avverbio "certamente" dovrebbe essere espunto dalle previsioni storiografiche, l'autore non riferisce alcun elemento che sostenga la sua ipotesi. E ben noto che la popolazione sovietica non godeva di una vita felice in quegli anni e che il malcontento serpeggiava negli ambienti militari, ma per dare come certo un golpe militare occorrono indicazioni più precise di un'affermazione preconcetta. Infine, per dire dello stile troppo facilmente sarcastico di questo autore, basti notare il modo in cui tratta l'opera di Marx: "Nella dottrina marxista solo due tesi fondamentali erano innegabilmente chiare: il capitalismo era cattivo e la classe operaia era buona. Il rimanente guazzabuglio del suo pensiero restava aperto alla libera interpretazione". Non è necessario essere marxista per osservare che un giudizio del genere può compiacere qualche lettore, ma non è un giudizio serio. Detto questo, è però necessario aggiungere che sul tema centrale della sua ricerca Pleshakov riesce a produrre una ricostruzione se non definitiva, sufficientemente persuasiva e tale da modificare le interpretazioni precedenti, riconducendole a una visione meno irrealistica dell'accaduto. Questa ricostruzione può essere sintetizzata come segue. Stalin era ben consapevole che l'accordo del 1939 con la Germania era solo una parentesi. Non si faceva troppe illusioni sul futuro, ma prendeva per certa una propria persuasione: "Hitler e i suoi generali non sono così pazzi da iniziare una guerra su due fronti. I Tedeschi ci hanno rimesso le penne durante la Prima guerra mondiale. Hitler non rischierebbe mai una cosa del genere". Pensava dunque di sorprendere Hitler con una mossa preventiva, preparando una grande offensiva sovietica contro la Germania, ma per il 1942, e rimase fedele a questa sua persuasione sino all'inizio dell'attacco tedesco. La notizia dell'attacco sferrato durante la giornata del 21 giugno non sorprese il dittatore sovietico per il fatto che esso aveva luogo, ma perché frantumava le persuasioni sulle quali egli aveva costruito tutti i propri progetti per l'avvenire. Quanto poi alle versioni riguardanti la sua assenza dal Cremlino, le interpretazioni correnti sono solo in piccola parte fondate. Stalin "resse il timone", cioè rimase al Cremlino, benché in maniera "instabile e precaria" per tutto il periodo in questione, tranne il 29 e il 30 giugno. Tuttavia si comportò in modo tale da rendere possibile ai tedeschi un'avanzata di 550 chilometri in territorio russo. Pur presente, Stalin non era in grado di esercitare le proprie funzioni e, secondo Pleshakov, il 30 giugno "arrivò più vicino a perdere tutto il suo potere". La sua mente "iniziava a vaneggiare"; era "abbattuto e sgomento", "stanco e sopraffatto dagli eventi", "sprofondava nella depressione, a volte interrotta da un'ira irrefrenabile". Il suoi generali rimasero privi di ordini chiari e fu solo con l'arrivo di Zukov al quartier generale (dal quale Stalin lo aveva allontanato pochi giorni prima dell'attacco tedesco) e con la collaborazione di Timosenko, che gradualmente la situazione ritornò sotto controllo. Ma a un prezzo altissimo, che coincideva poi con la determinazione alla quale Stalin stesso era frattanto pervenuto attuando uno schema strategico elaborato da Zukov: "Salvare Mosca a ogni costo, anche abbandonando il resto della Russia europea". Le ipotesi di un imminente crollo di Stalin erano però infondate (e appare alquanto sfuocato il modo in cui Ple- shakov argomenta questa sua interpretazione). Bastò che il dittatore si rimettesse al lavoro e si rivolgesse direttamente al popolo perché il suo potere recuperasse il carisma di cui la sconfitta iniziale lo aveva privato. "Fratelli e sorelle", furono le parole con le quali Stalin fece sentire la sua voce e si presentò ai suoi concittadini per ammettere le sconfitte e promettere una battaglia comune. Un contatto diretto con il popolo, è questo l'argomento che Pleshakov utilizza per spiegare come tutti i dissensi, le voci di tradimento, le paure fossero messe a tacere. Ma questo argomento è troppo fragile per spiegare una svolta repentina. Dopo tutto, ammette il nostro autore, in presenza dello sfacelo dell'esercito Stalin seppe dar vita "a una nuova classe militare basata sulla meritocrazia". Questa conclusione, che giunge un po' repentina dopo tante pagine di critiche e di pur accurata, benché frammentaria, descrizione delle operazioni militari, indica un profilo interpretativo che forse, accanto alle annotazioni psicologiche, sarebbe stato utile mettere meglio in evidenza in un libro che, con tanti difetti, resta pur sempre un contributo di importanza risolutiva sul caso che studia. ■ dinolfoSstudistato.unifi.it E. Di Nolfo insegna storia delle relazioni internazionali all'Università di Firenze Constantine Pleshakov IL SILENZIO STALIN sakr".