Narratori italiani Sguardo da antropologo di Giovanni Choukhadarian Paolo Nori NOI LA FAREM VENDETTA pp. 191, €15, Feltrinelli, Milano 2006 Si è detto molte volte delle qualità di Nori. Una voce singolare, la volontà e il desi- derio di cambiamento intrin- seco alla sua scrittura, la capa- cità di riconoscere i suoi ante- cedenti e una quasi conse- guente generosità verso coloro i quali, a dispetto della sua gio- vane età, già lo hanno assunto come modello. Una dimensione finora insondata della sua vasta produzione è invece quella che attiene alla sua passione civile. Non è per aver dedicato questo libro (romanzo? saggio? in- chiesta o reportage? domande inutili) che Paolo Nori, quello di Bassotuba non c'è, Pancetta o Ente nazio- nale della cinemato- grafia popolare diven- ta d'emblée scrittore politico, intellettuale impegnato. Certo è però che attorno a queste due qualifi- che, oggi del tutto fuori moda, Nori svolge un la- voro secco e originale, conden- sato al massimo nelle strutture sintattiche e nelle scelte di les- sico e proprio per questo, in qualche modo, dirompente: al- meno rispetto a quanto di nor- ma prodotto dai suoi coetanei (Nori ha quarantatre anni). Lo dice chiaro e tondo il pro- logo: "Una vita. Io ormai è una vita, che sono sul punto di ras- segnarmi". La questione è quindi prima di tutto quella del tempo e della memoria: di sé, innanzitutto. La voce narrante, s'intende, è la solita: di tratto comico-grottesco, che ha come padre nobile il Celati delle Co- miche, il Vassalli dell'Arrivo della lozione e altri esordienti quando Nori era più o meno bambino. I fatti di Reggio Emi- lia, di cui Noi la farem vendetta si occupa, sono di tre anni an- teriori alla sua nascita: e di nuo- vo la questione è quella del tempo. Dei morti di Reggio Emilia, eternati da Fausto Amodei in una canzone famo- sa, si racconta nel capitolo più lungo (una trentina di pagine), messo quasi in fondo e costrui- to con una serie di brevi estrat- ti da documenti ufficiali. I fatti: non una strage di stato, delle molte lasciate più o meno senza spiegazione. Fatti, dati di realtà, che Nori non commenta se non alla fine e in modo indi- retto, cioè introducendo la fi- glia Irma, una bimbetta con cui "va a guardare il mondo". Nori padre che prova a dialogare con la sua bambina, di cui all'i- nizio del libro confonde il no- PAOLG v >KJ NOI LA FAREM VENDfcTTA me, è intanto una felice allego- ria della necessità di traman- darsi e tramandare il passato. Lo stupore di Paolo Nori pa- dre, che verso la fine del libro progetta un secondo figlio, è un elemento che sembra negare in radice un tema forte della nar- razione: la riappropriazione dolorosa di un tempo indivi- duale, personale così lontano dal tempo della storia. La modalità scelta da Nori è quella, quasi da antropologo, della ricerca sul campo. In que- sto senso, Noi la farem vendetta è anche un romanzo on the road, in cui i protagonisti non sono però soltanto i morti di Reggio Emilia. Che il primo mi- nistro Tambroni potesse diven- tare un personaggio di questo spessore in un testo di narrato- re italiano pareva impensabile - e per tutti lo sarebbe stato, ec- cetto che per il virtuoso Nori, che usa il Grande dizionario enciclopedico dell'Utet (il leg- gendario "Fedele", dal nome del suo primo direttore) come un'arma contundente. Sull'al- tro fronte, un Sandro Pertini ancora lontano dalle cariche istituzionali degli anni settanta, comiziante indomito e di loquela infrenabi- le, che il romanziere contemporaneo chio- sa con una specie di commozione rattenu- ta: "Quei politici lì, come Pertini, che avevan fatto la guerra, che eran stati in pri- gione, che eran stati al confino, che avevan fatto i muratori, avevan qualcosa, forse il fatto di essere stati in prigione, o di esser stati al confino, o di aver fatto i muratori, avevan qualco- sa, quello che dicevano, quei politici lì, che ci si credeva". C'erano tanti modi per dirlo, ma questa è l'inconfondibile maniera di Nori, che come di consueto lavora molto e con profitto anche sul montaggio, che lui chiamerà di sicuro "in- treccio". Non che siano mancati i lavo- ri di ripensamento sulla storia d'Italia del dopoguerra: di re- cente ce n'è anzi un'abbondan- za e sarebbe buona cosa se le patrie lettere conoscessero una fioritura di narrazioni della contemporaneità, svincolata se possibile dalle convenzioni giornalistiche (lavoro precario, difficoltà d'inserimento dei gio- vani et coetera minima). Nori si muove precisamente in questa direzione. Il suo è un percorso, a dispetto delle apparenze, quasi lineare. Se soltanto ades- so, a quarantatre anni, ha deci- so di svelarlo è perché, forse, anche a lui è parsa necessaria una ricostruzione di certi even- ti intrecciata, con l'obbligo del- la memoria, al presente. C'è an- che Paul Ricoeur, mai citato (sì però il Kierkegaard eterodosso di Jesi), in queste pagine a trat- ti persin commoventi, e insom- ma Paolo Nori, dotto slavista poco oltre la quarantina, si can- dida a credibile maitre à penser per una parte almeno della sua generazione. ■ ohannes@katamail.com G. Chouckhadarian è consulente editoriale e giornalista Autobiografìa Nell'ultimo periodo di questo tempo frenetico e medio (mediocre?), ho assistito con stu- pore crescente, e dal di dentro, al graduale deperimento della cura editoriale. Qualche refuso, all'ini- zio, magari niente di grave, ma inaspettato in un organismo noto- riamente sano. E poi uno svarione sintattico, perché il testo ormai non si rilegge, e in fondo nessuno ci fa più caso. Ma intanto la ma- lattia peggiora, il pallore diventa persistente, il testo butterato, fino a che il libro, ormai intaccato nel governo delle subordinate, nel ri- spetto dei tempi verbali se non addirittura nella organizzazione del periodare, assume l'aspetto di quei "malati di consunzione" dei drammoni d'un tempo. E allora, prima che la fretta edi- toriale, equivalente di quel fred- do che rodeva i polmoni a Mimi, rendesse impossibile la guarigio- ne, mi sono erto a guardiano del testo. Si trattava di editing, ovvia- mente, e ho aperto l'agenzia di servizi editoriali. Così, quando l'editore attento prima di andare in stampa mi scarica il testo in ba- rella, ecco che corro con una fle- bo di avverbi in funzione di rac- cordo, cui segue subito un anti- biotico che elimini locuzioni abu- sate o termini settoriali. E poi via, con i tre livelli di cura, grammati- cale, sintattica e stilistica. Ma l'editing non serve soltanto ai testi già redatti. Per la seconda edizione del saggio di Enzo Soresi, Il cervello anarchico, 2006, UTET Libreria, l'editore ha puntato, per la prefazione, su una conferenza di Umberto Galimberti registrata durante una precedente presenta- zione. Ma si sa, parlando a braccio si tende a moltiplicare gli incisi, una digressione tira l'altra, e inol- tre la voce articola d'istinto una lingua contratta, fidando nell'ap- porto paraverbale - tono, mimica e gesto - che rende chiaro l'assun- to. Qui, il lavoro di editing è stato esaltante: riacciuffare la pulsazio- ne della consequenzialità, ridurre le fratture sintattiche, ricostituire una variante del tono orale con il solo contributo delle parole scrit- te, distendere la densità concet- tuale. .. Insomma, fai e fai, la pre- fazione giunta detta è infine torna- ta a casa scritta, e in perfetta for- ma. Editing transustanziale? Non so, e non ho tempo per le defini- zioni. Altri testi attendono in cor- sia. Riuscirò a fronteggiare l'epide- mia? Vedremo. Intanto, però, punto sulla prevenzione. A chi se- gue i miei consigli di scrittura, agli autori che mi inviano i loro testi in visione, fornisco le avvertenze più efficaci, e soprattutto già collauda- te su di me. Infatti, per conoscere e schivare le trappole del compor- re, mi tengo in esercizio io stesso, iniettandomi il bacillo della scrit- tura: una pagina al giorno, un giorno dopo l'altro... Massimo Tallone (1956) è na- to a Fossano e vive a Torino. Pubblicazioni: Ribò e il cadavere volubile, 1998, CeT (giallo). A bottega dal maestro di caz- zeggio, 1998, CeT (saggio sulla conversazione). Giallo, Rosso, Blu, 1990, Edi- zioni del Premio Andersen. Cura di alcune sezioni temati- che per l'Enciclopedia PRIMA, UTET. (M.T.) La differenza secondo Dieter Weber di Massimo Tallone Quando Dieter Weber propose a sua moglie e a suo figlio di trasformare il loro silenzio- so albergo di Senigallia in un albergo per soli cie- chi, i due proruppero in una risata la cui eco durò alcuni giorni. Ma Dieter Weber era ormai ben in- tenzionato a condurre in porto il suo progetto. Ma perché proprio per ciechi?, aveva chiesto più volte la moglie di Dieter Weber. E lui aveva risposto che i motivi erano molti. A esempio, Weber diceva che sarebbe stato il primo alber- go per ciechi in Italia, e forse in Europa, e que- sta era una scommessa che da sola valeva la po- sta in gioco. E poi sarebbe stato sicuramente in- teressante e divertente progettare le soluzioni architettoniche per uno spazio nel quale avreb- bero potuto muoversi senza sforzi esclusivamen- te i ciechi. Per tacere dei colori. Quali colori avrebbero dovuto avere le camere, i corridoi, le coperte? E che dire dei gradini? Sarebbe stato necessario abolirli o no? E i corrimano? Già, oc- correvano molti corrimano, poiché non era pen- sabile che un cieco riuscisse in pochi giorni a fare suo uno spazio sconosciuto. Tu sei pazzo, aveva detto la moglie, e aveva obiettato che la sua idea non sta- va in piedi, perché i ciechi in viaggio L'INEWW sono sempre accompagnati. È inevitabile, aveva risposto Dieter Weber, e sarà così fino a che non ci saranno luoghi per ciechi, con una grammatica dello spazio com- prensibile dai ciechi. Fino a quel giorno saranno sempre accompagnati. Ma ho pensato a tutto, aveva continuato: oltre alle stanze e ai locali per i ciechi, l'albergo sarà dotato di un'ala nella qua- le troveranno posto i vedenti, i familiari e gli amici dei ciechi. Ma la zona destinata ai ciechi sarà solo per ciechi, e nessun vedente potrà mai vederla, tranne noi tre, che rigoverneremo le stanze. I soli occhi che, diciamo così, vedranno quelle camere, saranno gli occhi dei ciechi. Da loro, dai ciechi, accetteremo tutti i consigli di modifiche e di varianti. Ma l'unica regola ferrea e rigorosa sarà questa: nessun vedente dovrà ve- dere le camere dei ciechi, perché se ai ciechi ve- nisse descritta la loro camera, d'improvviso la camera non sarebbe più per ciechi, ma per ve- denti. La descrizione del vedente ricaccerebbe il cieco in quel ruolo di subalternità e di dipen- denza che l'albergo intende abolire. E quel ruo- lo possiamo abolirlo soltanto negando ai veden- ti, nei luoghi destinati ai ciechi, il loro vantaggio. E se fosse un fallimento completo? Questo era il dubbio della moglie e del figlio di Dieter Weber. Ma Dieter Weber volò sul problema, e disse che avevano quattrini a sufficienza per fare que- sto divertente esperimento, e che se fosse andata male non sarebbe stato difficile (ma qui mentiva) ritrasformare l'albergo per ciechi in un normale albergo per persone normali. Normali, poi... Alla fine l'idea fu accettata e iniziarono i lavo- ri, che si conclusero nel giro di due anni. La pubblicità e l'informazione diedero presto notorietà all'albergo, sicché giunsero i primi clienti ciechi, naturalmente accompagnati. Ma non era ancora trasc arso un mese dall'apertura, quando, nel mezzo di un mattino, spuntò un cie- co che, a differenza dei precedenti, si presentò al- l'albergo senza la scorta di un vedente, ma sem- plicemente accompagnato dal tassista fino al cor- rimano che dalla porta di ingresso dell'albergo correva lungo il muro esterno per un buon tratto. Non appena il cieco posò le dita sull'estremità del corrimano, un messaggio registrato an- nunciò in tre lingue: "Seguite il corri- mano fino alla sporgenza tonda". H cieco ascoltò e avanzò poi, sicuro di sé, sfiorando appena l'asta orizzontale. Quando giunse a un metro dall'ingresso, la porta munita di fotocellula si aprì da sé scorrendo late- ralmente. Dopo la breve cesura che permetteva lo scorrimento della porta, il corrimano proseguiva per un buon tratto nel salone di accesso e giunge- va fino al bancone della reception, per piegare poi a destra. Prima di questa ansa era applicata la sporgenza tonda descritta nel messaggio sonoro. Il cieco si fermò, dunque, diligentemente, da- vanti al bancone e fu ricevuto da Dieter Weber, il quale raccontò, come già aveva fatto con gli al- tri clienti, di come e quando gli fosse frullata per capo l'idea dell'albergo per ciechi, e di come fosse stata realizzata. Le camere, spiegò, sono disposte su due pia- ni. Dieci camere sono collocate al piano terra, lungo un corridoio semicircolare che gira intor- no al salone della reception. Questo corridoio presenta una serie di bassi gradini, uno prima di ogni camera, sicché le camere del piano terra non sono poste tutte allo stesso livello, ma van- no digradando di un poco.