Storia Normalizzare il passato di Antonio Annino Alicia Hernàndez Chàvez STORIA DEL MESSICO Dall'epoca precolombiana ai giorni nostri ed. orig. 2005, trad. dallo spagnolo di Duccio Sacchi, pp. 404, € 12, Bompiani, Milano 2006 Alicia STORIA DLL MESSICO Lo scarso interesse odierno degli editori italiani per l'America Latina è tanto più vistoso se paragonato all'abbondanza di trenta e passa anni or sono, quando, nell'immaginario politico italiano, il continente era un grande soggetto collettivo impegnato nel riscatto di sé e del proprio passato e, per una parte della nostra opinione pubblica, sembrava incarnare un'altra Resistenza, capace di sfuggire alle logiche ferree delle potenze internazionali. Erano gli anni del non allineamento, della decolonizzazione e del Vietnam. Quella congiuntura italiana e internazionale produsse linguaggi e credenze collettive, tra cui l'idea che le opportunità umane di "quella" parte del mondo fossero state compromesse dall'azione storica (imperiale e coloniale) della parte anglo-europea. La credenza ebbe tanto successo da divenire luogo comune e il risultato fu la diffusione di un paradosso occulto: a un passato coloniale che aveva preteso di essere l'unico vettore di progresso, si oppose un presente democratico rispettoso delle culture "altre", che affermava di essere l'unico responsabile storico dei mali del resto del mondo. Si ribaltava il giudizio etico-politico rispetto al passato ma non il protagonista: l'Occidente, prima "buono" e ora "cattivo", restava pur sempre il grande protagonista della storia, assegnando agli "altri" il ruolo di vittime passive, prive di autonomia e dunque di una vera storia. Quest'opera di alta divulgazione si distacca da tutto ciò e ha il merito di presentare al lettore una riflessione sul passato messicano aggiornata agli orizzonti storiografici degli ultimi anni. L'autrice appartiene a quella generazione di intellettuali messicani che, a partire dalla strage di Tlatelolco del 1968, hanno iniziato a fare i conti con i miti del nazionalismo populista del regime. Con atteggiamento criti- Le nostre e-mail direzione@lindice.191.it redazione@lindice.com ufficiostampa@lindice.net abbonamenti@lindice.com co, il passato messicano è stato ricuperato in tutta la sua complessità, nel suo essere cioè nazionale e continentale allo stesso tempo, marcato da forti specificità ma anche rappresentativo dei processi più significativi che hanno costruito l'identità della maggior parte dei paesi di origine ispanica. Tale prospettiva è rivendicata nella prefazione, dove l'accenno a Octavio Paz e al suo classico II labirinto della solitudine non è letterario, ma storiografico. Paz è stato senza dubbio colui che più ha esplorato le radici e la complessità dell'identità messicana: la conquista e il meticciato culturale, la colonia e l'autonomia della nuova società, l'indipendenza e i suoi costi, la rivoluzione e i suoi miti irrisolti. Rivendicare Paz significa ricollegarsi idealmente a chi per primo, e forse con più coraggio, aveva sbattuto la porta al regime nel 1968. La sfida maggiore della revisione storiografica avviata dopo di lui fu superare le semplificazioni di un paese dal passato coloniale segnato dal cataclisma culturale e demografico della conquista spagnola, prima, e da ben tre guerre civili, dopo l'Indipendenza. Tanto più che proprio il regime postrivoluzionario aveva fatto dell'indigenismo di stato uno dei suoi pilastri ideologici. La riflessione storiografica di Chàvez punta invece a valorizzare del passato messicano le grandi continuità epocali e identitarie: destruttura l'immagine, tanto diffusa, di un paese frammentato e di un continente segnato da grandi rovesci indotti dall'esterno, per lasciare il posto a processi storici forti e autono-. mi, capaci di interagire positivamente con le sfide poste dallo scenario internazionale. La capacità del segmento indigeno di ricostruirsi un proprio mondo dopo la conquista e la catastrofe demografica della seconda metà del XVI secolo è esemplare perché non è mera resistenza, come vorrebbe una vulgata cara al terzomondismo italiano, ma un'impresa di sopravvivenza collettiva che l'autrice ripercorre con un'attenzione particolare a quei processi di ridefinizione delle identità etniche, resi possibili anche grazie alle risorse portate dai vincitori spagnoli. Per chi studia la storia del Messico può essere difficile riuscire a dar conto dello scenario sociale: il Messico, rispetto all'Europa, è connotato storicamente dalla forte autonomia dei poteri endogeni al territorio rispetto ai poteri più o meno centrali. Le gerarchie sociali sono sempre state, per così dire, "centrifughe", contrarie a delegare funzioni e risorse a poteri "esterni". Tra Otto e Novecento la sfida del nation state building fu quindi la nazionalizzazione del territorio, e la stessa Rivoluzione può essere inscritta in questa tensione irrisolta, che nemmeno l'adozione della forma federale di governo del 1824 riuscì ad assorbire completamente. Giustamente Chàvez costruisce la seconda parte del suo lavoro, quello sul XX secolo, attorno al rap- porto stato-nazione spezzato dalla Rivoluzione e ripreso in altre forme dopo il conflitto. Probabilmente il Messico è il caso latinoamericano più studiato, ma rispetto alla letteratura esistente questo libro introduce uno strappo perché nel definirlo non ricorre quasi mai al termine "populismo". Il punto non è irrilevante: il concetto di "populismo", oltre a fare scuola, è anche portatore di una visione semplificatrice (il carisma, la mobilitazione politica, le modernizzazioni più o meno strutturali, i linguaggi ecc.) che mal si adatta alla complessità del processo di consolidamento del regime messicano. Soprattutto perché la capacità di mediazione politica in Messico è stata notevolmente più eflicace e ampia che in altri casi, come il peroni-smo argentino o il varghismo brasiliano. E questo maggior successo è dipeso, suggerisce il libro, proprio dalla Rivoluzione, che ha sottratto alle vecchie classi dirigenti il dominio sul mondo rurale, permettendo una nazionalizzazione politica che altrove non si è data. Poco nelle analisi comparate si è insistito su questo rilevante aspetto: malgrado la retorica nazionalista né il pe-ronismo né il varghismo sono mai stati veramente nazionali, nel senso che si sono guardati bene dall'esportare nelle campagne i modelli di mobilitazione politica delle città. In questi paesi i patti di regime furono principalmente verticali, riguardarono cioè le vecchie classi dirigenti (con il loro intoccabile mondo rurale) e i nuovi attori più o meno militari, e più o meno espressione dei ceti medi, mentre nel caso del Messico i patti furono orizzontali, tra le nuove élite e il resto dell'intera società. Così il regime postrivoluzionario riuscì a trasformarsi in stato perché potè estendere al mondo rurale le nuove pratiche di mobilitazione e inclusione, a cominciare dai sindacati, che negli altri paesi furono rigidamente confinate alle aree urbane. Questa prospettiva è utile anche per comprendere la progressiva crisi dei regime messicano e l'attuale fase di transizione democratica, cui l'autrice dedica la parte finale dell'opera. Il Messico si è trovato infatti ad affrontare una doppia congiuntura difficile: il 1989, con il conseguente "disordine" internazionale, e l'esaurimento del modello di sviluppo del dopoguerra. La tendenza alla disarticolazione politica e sociale si è poi rivelata negli anni novanta più grave del previsto, facendo fallire i tentativi di inserire costruttivamente l'economia messicana nella globalizzazione. Questo libro, in conclusione, ha una motivazione etico-politica che permette all'autrice di non perdersi nella vastità dei problemi affrontati e si colloca in un orizzonte estraneo alla retorica terzomondista di casa nostra. "Normalizza" infatti con pacatezza un passato non facile per affrontare con più sicurezza il prossimo futuro. ■ annino@studistato.unifi.it A. Annino insegna storia e istituzioni dell'America Latina all'Università di Firenze Epidemie non leggende di Marcello Carmagnani Massimo Livi Bacci CONQUISTA La distruzione degli indios americani pp. 335, 36 ili, €24, il Mulino, Bologna 2005 Massimo Livi Bacci è un demografo molto noto nella comunità scientifica italiana e internazionale. I suoi volumi, Popolazione e alimentazione. Saggio sulla storia demografica europea, La popolazione nella storia d'Europa e Storia minima della popolazione del mondo, tutti tradotti in numerose lingue, sono assai apprezzati per la sfida lanciata ai luoghi comuni e alle prese di posizione ideologiche, troppo frequenti nei saggi riguardanti la popolazione, l'alimentazione e la povertà. Tutti i suoi studi, compreso quest'ultimo sulla catastrofe degli indios americani tra la scoperta del Nuovo mondo e il primo terzo del XVII secolo, si contraddistinguono per la capacità di analisi, di sintesi e di dialogo tra la demografia e la storia. In questo volume splendidamente illustrato, l'autore rimette in discussione la leggenda nera formulata nel momento stesso della conquista del Nuovo mondo, che attribuisce alla violenza dei conquistatori iberici affamati d'oro la distruzione delle popolazioni americane. La sua analisi è anche una critica alle tesi più recenti, che insistono nel dare importanza alla quantità di popolazione indigena esistente al momento del contatto con gli iberici per accertare l'impatto distruttivo della diffusione delle patologie endemiche d'origine europea (vaiolo, morbillo, varicella, parotite, influenza ecc.). L'originalità di Livi Bacci consiste così nel percorrere un itinerario analitico in grado di superare la staticità delle tesi vecchie e nuove. La rilettura delle testimonianze cinquecentesche e degli studi recenti alla luce delle evidenze biologiche, ambientali e sociali permette di capire che l'esaurimento delle popolazioni indigene non fu un fenomeno ineluttabile, ma il risultato di una pluralità di fattori biologici, ecologici, economici, sociali, politici e culturali. L'inevitabilità della catastrofe demografica, secondo quanto ci dice l'autore, è congetturale, data l'impossibilità di stabilire la popolazione esistente al momento del contatto, stimata da alcuni a un centinaio di milioni di persone, da altri a una cinquantina di milioni e da altri ancora ad appena una decina di milioni. Questa prima incertezza è rafforzata dall'impossibilità di stabilire il processo del declino demografico, che incomincia a distanza di tempo dal primo contatto tra iberici e indios, e si colloca in un arco temporale troppo vasto, compreso tra il 1550 e il 1640. Livi Bacci mostra infine che le nuove patologie endemiche, la violenza della guerra, la nuova organizzazione economica e del lavoro e il sistema di dominazione coloniale non seguono lo stesso ordine temporale in tutte le società indigene. Se si dà dunque la dovuta importanza all'analisi dell'autore in merito alla congetturalità dell'entità, alla durata e alle cause del crollo della popolazione, diventa allora impossibile affermare che le epidemie hanno sempre le stesse cause e le stesse conseguenze in tutte le regioni americane. Se le catastrofi demografiche apportano uno choc biologico, ambientale, economico e politico in tutte le società indie, questo avviene però in tempi diversi nelle diverse regioni del Nuovo mondo. La capacità di apprendimento e di reazione al declino demografico non ebbe le stesse conseguenze in tutte le regioni. Se così non fosse, non si riuscirebbe a capire perché, una volta raggiunto il nadir, la curva demografica del sottocontinente riprende a crescere con tempi e ritmi diversi a seconda delle regioni, come avviene in Europa durante la lunga crisi demografica del XIV secolo. I diversi capitoli del volume rendono conto delle forme che assume la catastrofe demografica. La più devastante avviene nelle AntiOe, area nella quale l'enorme impatto dell'epidemia di vaiolo del 1518 è preparata da due decenni di sfruttamento del lavoro indigeno per la raccolta dell'oro alluvionale e dalla confisca di derrate alimentari prodotte da una agricoltura di pura e semplice sussistenza. Una minore letalità avviene nelle terre basse del Golfo del Messico e del Pacifico per effetto della diffusione della malaria, prima sconosciuta, ma anche come conseguenza della fragilità ecologica tropicale. Inoltre, il declino demografico colpisce in modo differenziato le aree che conoscono un'espulsione violenta o graduale di popolazione india per effetto della diffusione di nuove torme produttive europee lungo le coste e nelle aree minerarie. Accanto a queste forme catastrofiche caratterizzate da un'elevata letalità, ritroviamo altre forme di comportamento demografico nel Messico centrale, nelle regioni andine dell'attuale Perù, in Bolivia e nel Paraguay. La lettura del volume permette comunque di ripensare la catastrofe demografica della conquista alla luce di altre catastrofi demografiche avvenute nel continente americano, in Australia e in Polinesia nell'Ottocento, e ancora oggi in Africa. Esse sono annunciate e denunciate, senza che l'opinione pubblica, i governi e le istituzione internazionali riescano a fermarle: questo sembra essere il denominatore comune di tutte le catastrofi demografiche che ci hanno afflitto e ci affliggono. ■ mkarmag@tin.it M. Carmagnani insegna storia dell'America Latina all'Università di Torino