N. 9 Cervello collettivo di Gian Carlo Ferretti C?è un Bollati editore e studioso da ricordare naturalmente, in questo decimo anniversario della morte, ma c'è da ricordare anche un Bollati fotografo che all'altro rimanda costantemente. Lo hanno fatto con una mostra e un catalogo in gran parte sorprendenti, la II Facoltà di architettura del Politecnico di Torino, la Fondazione Torino Musei e la Città di Torino, in luoghi diversi tra il maggio e l'agosto 2006. La mostra si intitola Giulio Bollati. Visti da vicino. Immagini di cultura italiana, e il catalogo Intermittenze del ricordo, (pp. 167, € 22). Voluta e organizzata dalla figlia Albertina e da Agnese Incisa, e da loro stesse curata con Rosa Tamborrino e Alessandro Martini, questa mostra-catalogo rappresenta un modo felicemente insolito di celebrare quell'anniversario. Vi contribuiscono gli scritti di Carlo Bertelli, Guido Davico Bonino, Ernesto Ferrerò, Vittorio Gregotti e Claudio Magris, e una serie di apparati bio-bibliografici. Le circa sessanta fotografie degli anni cinquanta-set-tanta, scelte tra le molte che Bollati scattò con una Kodak a soffietto e con una Minox, si prestano a letture diverse, accompagnate da quegli stessi scritti: il divertimento intelligente di un intellettuale, o la realizzazione pratica di ricerche e riflessioni teorico-critiche connesse al suo lavoro di storico (si pensi al saggio sull'Italiano) e al suo gusto editoriale della grafica, o la testimonianza discreta e indiscreta sulla vita e sull'attività di casa Einaudi della quale il privilegiato reporter è protagonista. Lettura quest'ultima che più direttamente può interessare lo storico e critico dell'editoria, e forse lo stesso lettore. Bollati entra perciò dentro il "laboratorio Einaudi", che in questi decenni ha sedi specifiche e pluridiscipli-nari, come le riunioni del mercoledì in via Biancamano, o la casa della famiglia Einaudi a Dogliani, o i seminari estivi a Rhèmes-Notre Dame in Val d'Aosta, con la presenza di molti importanti intellettuali e intellettuali-editori contemporanei. Sfilano davanti ai nostri occhi (in immagini talora già circolate per volumi e giornali) Gadda e Calvino, Vittorini e Manganelli, Bobbio e Franco Venturi, Cantimori e Cases, Spriano e Natalia Ginzburg, Fortini e Asor Rosa, Primo Levi e Consolo, e ancora Ponchiroli, Davico, Cerati, Baranelli, Ferrerò, oltre al carismatico Giulio Einaudi. La macchina di Bollati alterna il resoconto obiettivo o curioso al ritratto affettuoso o ironico, interpretando personaggi e situazioni, e ricreando il clima di una esperienza davvero straordinaria. Si ripercorrono così, attraverso esterni e interni, alcune fasi fondamentali del lavoro di quel formidabile cervello collettivo, conflittuale e tuttavia coeso (e comprendente nomi precedenti all'arrivo di Bollati: Leone Ginzburg, Giaime Pintor, Cesare Pavese e altri): dove tutti si occupano di tutto, in un continuo scambio di testi e di valutazioni, all'interno e al di là delle discipline e competenze di ciascuno. Ne è prova anche la grafica, che nella storia della casa editrice è ispirata o firmata da Albe Steiner, Bruno Munari o Max Huber, con la direzione tecnica di Oreste Molina (presenza costante nella mostra-ca-talogo, fino a una interessantissima intervista di Martini) e con la partecipazione personale di Giulio Einaudi e Giulio Bollati. Una grafica einaudiana tanto raffinata quanto sobria e funzionale, con una immagine di copertina che tende a suggerire il senso segreto del libro. Una grafica tra l'altro, che farà scuola per decenni. La copertina dei "Coralli" per esempio, caratterizzata fin dall'inizio (1947) da una riproduzione d'arte su fondo unito, che negli anni cinquanta si afferma come fondo bianco, sarà ripresa da altri editori con infinite varianti. Seguendo ambiente per ambiente e ritratto per ritratto l'attività della casa editrice, Bollati sembra anche sottolineare (al di là delle sue stesse cariche direttive ufficiali) il suo ruolo di originale prosecutore e rigoroso garante della feconda e geniale identità editorial-culturale fondata da Giulio Einaudi. Una casa-laboratorio appunto, sensibile alle tensioni politiche e culturali del presente, e orientata alla ricerca e alla sperimentazione del nuovo nella critica e nella letteratura: che è al tempo stesso una casa-istituzione, articolata in saggi rigorosi su diversi terreni disciplinari, e una casa di opposizione e di progetto, nella prospettiva di una trasformazione della cultura e della società stessa. Una produzione insomma basata su una tensione conoscitiva, creativa e militante insieme. La serie delle fotografie si arresta al 1978, non certo a caso. Propri^ negli anni settanta Bollati comprende EditoriA bene i pericoli della svolta impressa da Giulio Einaudi alla casa editrice, con l'avvio di grandi opere in molti volumi: dalla Storia d'Italia all'Enciclopedia, dalla Storia dell'arte italiana alla Letteratura italiana. Al di là dell'alto livello dei curatori e collaboratori italiani e stranieri, quel cambiamento di strategia segna il coinvolgimento di Casa Einaudi in una logica industriale di apparato e di mercato del tutto estranea alla sua tradizione e struttura. Da quella svolta infatti maturano alcune rilevanti ragioni di una grave crisi di identità, che all'inizio degli anni ottanta sarebbe diventata anche una gravissima crisi finanziaria. Di lì maturano inoltre le ragioni della rottura di Giulio Bollati con Giulio Einaudi. Proprio nel 1978, in una lettera all'amico editore, Bollati traccia un'analisi esaustiva e impietosa di quella operazione, parlando di una casa editrice che non è più "un gruppo di intellettuali raccolti intorno all'editore": con il conseguente pericolo di passare dai processi decisionali collettivi e democratici del laboratorio, alla prevalenza del "momento decisionale-autoritario". Anche se bisogna ricordare altre concomitanti ragioni negli anni settanta: una minore capacità di proposta nella saggistica e di sperimentazione nella letteratura, all'interno di una generale crisi di quella cultura di sinistra che si era espressa editorialmente nello storico incontro tra la tradizione li-beral-democratica e il marxismo, aprendosi ad altre esperienze. Il contesto sociale e culturale italiano del resto viene mutando rapidamente, decretando l'illuso-rietà di ogni strategia di vera trasformazione. ■ gcferrettiStiscali.it g.c. Ferretti insegna letteratura italiana contemporanea e sistema editoriale all'Università di Parma Franco Matticchio, trilogia del signor Ahi, pp. non num., € 8, Nuages, Milano 2005 Ricky Gianco e Franco Matticchio, Ti tirano le pietre, pp. non num., € 16,50, Gallucci, Roma 2006 Franco Matticchio, Esercizi di stilo, pp. 224, € 12,50, Einaudi, Torino 2006 Tre editori, tre generi, tre stili differenti, tutti uniti però da un tratto comune, sempre riconoscibile, quello di Franco Matticchio, disegnatore, illustratore e pittore tra i più discreti e al tempo stesso vigorosamente personali del panorama italiano. Questi tre volumetti rendono il giusto omaggio a una person aìità multiforme che riesce a esprimersi con pienezza tanto nella storia breve quanto nella singole vignette, spesso icasticamente ironiche e spiazzanti. La Trilogia del signor Ahi mostra nascita, morte e resurrezione di un omino che ha un occhio al posto della testa ma, per un crudele paradosso, cammina con il bastone bianco, come un cieco. Il signor Ahi si materializza dal nulla in una stanza vuota, sparisce passeggiando, inghiottito dai fiocchi di una nevicata, torna cadendo dal cielo e, dopo un lungo peregrinare, rientra nella sua stanzetta. Il denso tratteggio, le atmosfere inquietanti e decisamente surreali, ma condite, di quando in quando, da immagini nettissime, quasi iperrealiste, ricordano certo Topor. Un To-por, però, la cui crudeltà si stempera in una malinconica e lieve ironia, soprattutto nella seconda storia, La scomparsa del signor Ahi, in cui testo e disegni si commentano l'un l'altro quasi scherzosamente e l'omino con l'occhio, prima di sparire, dice la sua unica parola: "Poffarbacco". Ti tirano le pietre è invece un testo per bambini, o piuttosto per genitori e nonni giocosamente nostalgici, che fa parte di una curiosa collana di libri illustrati, con annesso ed, che riprendono i testi di note canzoni, principalmente, ma non solo, degli anni sessanta. Matticchio ha scelto il più crudele, disperato e attuale dei tormentoni, la canzoncina senza speranza cantata da Antoine al Festival di Sanremo del 1967 e ne ha fatto una versione esilarante: lunghi gatti dall'aria spesso svaporata vengono bersagliati da grossi sassi che con il loro realismo - sono pezzetti di fotografia inseriti nel disegno - portano una ventata d'insano cinismo nel mondo ovattato e sorridente del disegno per l'infanzia. Esercizi di stilo, infine, è il Matticchio meglio conosciuto qui alF'Tndice", quello delle vignette che rappresentano, con inesausta fantasia, e da moltissimi anni ormai, una delle anime del nostro giornale. I suoi disegni, spesso affettuosamente irriverenti, sono un conforto per chi collabora con la rivista e per chi ci lavora . "Ci mettiamo un Matticchio!", esclamano soddisfatti i redattori davanti a una pagina troppo seriosa. "Mi mettete un Matticchio?", chiede speranzoso l'autore che desidera ravvivare con un tocco d'imprevedibilità la sua recensione. Per loro e per tutti i lettori della rivista questo volume, purtroppo privo d'introduzione, è un pezzetto di memoria da ripercorrere con un pizzico di nostalgia e di rinnovato divertimento. Chiara Bongiovanni La passione non basta di Bianca Maria Paladino Gli studi sull'editoria libraria hanno avuto un crescente sviluppo a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Questo settore industriale aveva interessato storici, letterati, editori, autori, giornalisti, sociologi, economisti, distributori, direttori editoriali e commerciali, ma non era ancora accaduto che un libraio, parte in causa del ciclo economico del libro, esponesse organicamente i problemi relativi alla vendita di questo speciale bene di consumo. In tal senso Vendere l'anima. Il mestiere del libraio, di Romano Montroni (prefaz. di Umberto Eco, pp. VII-288, € 15, Laterza, Roma-Bari 2006), rappresenta una novità editoriale e aggiunge un punto di vista agli studi relativi a tale settore. Utile quindi appare la scelta dell'editore Laterza, già impegnato nel progetto dei "presidi del libro" (che incentiva l'apertura di librerie nelle zone territoriali che ne sono prive), di pubblicare il testo di uno dei più famosi librai italiani. Le competenze dell'autore sono peraltro attestate dal "credito" attribuitogli nella prefazione di Umberto Eco e in una serie di lettere a lui indirizzate dai più importanti rappresentanti del mondo dell'editoria libraria italiana, poste a conclusione del volume nella sezione Ritratto di libraio. A metà strada tra il manuale, il saggio e il racconto autobiografico, il libro rivela inequivocabilmente sia vizi strutturali rispetto ai generi di scrittura a cui si ispira, sia il carattere del suo autore, noto nell'ambiente per la severità e per una certa intransigenza. Il tono assertivo che caratterizza soprattutto i primi capitoli, rafforzato da punti esclamativi, citazioni, principi evidenziati in corsivo, elencazioni di qualità e capacità necessarie per il buon esercizio del mestiere, denota l'importanza assegnata al ruolo gerarchico nell'organizzazione del lavoro e soprattutto manifesta l'esperienza maturata nella gestione di un certo tipo di libreria: la catena delle Feltrinelli. Inoltre, i concetti ricorrenti di "orgoglio di appartenenza", "fiducia", "buone relazioni", proprio in quanto fondativi e formativi del mestiere di libraio, avrebbero dovuto essere sviluppati e spiegati meglio in relazione alle peculiarità del bene-libro; la loro mera enunciazione invece li ha resi categorie generali dell'attività commerciale tout court, imperativi di marketing. Così, ad esempio, il decalogo del libraio enuncia precetti validi per tutti i commercianti; l'autore stesso ne comprende l'insufficienza e, per completare l'argomento, ricorre alle sedici parole "che fanno la qualità del libraio". Ma anch'esse risultano inidonee a semplificare la complessità del mestiere in regole e dogmi di stampo manualistico. Il paragrafo si conclude con la frase: "La qualità è fatta anche di tante altre parole". Però la qualità è il risultato dei contenuti assunti dalle parole. Dunque, pur condividendo l'impianto generale del discorso, la prima parte del volume ci è sembrata meno efficace della seconda, forse più vicina alle abilità espressive dell'autore. L'esigenza di esplicitare e sviluppare i principi e le qualità che sono alla base di questo tipo di lavoro non rispondeva solo alla necessità di chiarezza espositiva del tema, ma all'obiettivo che si era assegnato a questo libro con il sottotitolo: Il mestiere del libraio. Destinato a coloro che si avviano a farlo o già lo fanno, in autonomia o come dipendenti di catene di libreria, a tutti va spiegato che "dare valore" ai libri vuol dire ammettere l'importanza che in essi hanno le componenti immateriali e quelle materiali. Solo a partire da questa realtà si può costituire la base professionale che rendono un libraio "il" libraio. Partire dal riconoscimento anche del valore materiale dei libri vuol dire acquisire la consapevolezza che la sola passione non basta per fare bene questo lavoro. Bisogna conoscere e applicare le tecniche di gestione della libreria, cioè padroneggiare gli strumenti commerciali: come si fa l'assortimento, che cos'è la rotazione, come si calcola il budget, il margine di utile o le rese, quanto incidono le spese sulla gestione, ecc. Gli ultimi capitoli sono un vero e proprio codice di regole di gestione e sono la vera forza del libro. In maniera semplice, efficace, sintetica e chiara vengono forniti gli strumenti del lavoro quotidiano, quelli per cui vale la pena di "vendere l'anima". ■ bmpala@tin.it B.M. Paladino è saggista