N. 9 Lettere a nessuno di Linnio Accorroni Francesco Fagioli UN CERTO SENSO pp. 23% €14, Marsilio, Venezia 2007 £ 6 I gregio amministrato-J_vre, le sarà certamente noto che nell'aprile 2001 si verificò un'occlusione nella colonna di scarico delle acque nere che serve il mio appartamento, quelli dei condomini sottostanti e del condomino soprastante. Tempo fa notai la fuoriuscita di cattivi odori dai sanitari del mio bagno di servizio (...) Cordiali saluti Antonio Senso Proprietario dell'appartamento interno 7, piazza Elba 16". Che cosa può esserci di più antiromanzesco di questo esordio e congedo di lettera stilata in perfetto burocratese e mai spedita, ma, in compenso, reiterata come in un possessivo per ben sessantuno volte e destinata a tale Gianluca Barbaro amministratore di condominio? Nomen omen, questo, a quanto si desume dal finale cruento e dissonante rispetto al tono medio del racconto. Eppure il romano Francesco Fagioli, classe 1961, riesce a riscattare la natura intrinsecamente monotona di queste missive accogliendole, per così dire, in un romanzo che risulta senz'altro fra i più originali e sorprendenti degli ultimi tempi. Va anche sottolineato il fatto che questo libro, candidato al premio Strega, è uscito vincitore da una selezione operata dal supercilioso ed elitarissimo gruppo iQuindici, collettivo di lettura e filiazione on line del collettivo Wu Ming: fortunato travaso dal web alla carta stampata. La vicenda ha come suo epicentro un condominio romano e, all'interno di esso, l'appartamento del protagonista: Antonio Senso, uomo sensibile e vulnerabile, artista con un perenne grande avvenire dietro alle spalle. Il suo appartamento si rivela come una sorta di panopti-con dal quale questo maniacale compilatore di lettere scruta e certifica la composita, pittoresca umanità che affolla questo milieu urbano: c'è l'ex portinaio Angelacci, dal fiato puzzolente come una cloaca, deturpato da un bubbone sotto il naso, Don-nini, manager dell'Alitalia, mon-danissimo viveur, gli inquietanti e misteriosi Stanzoni, il signor Lodolce e sua figlia Mietta, avvizzita e isterica, la cui medusea bruttezza pietrifica (e non solo) Senso. Tutti cognomi senhal o antifrastici, a partire ovviamente da quello del protagonista. Fagioli pare più eccitato che intimorito dal repechage di due topos narrativi ottimamente 1ewwexse» wmm v» cm<>mm frequentati, quello della lettera smarrita (per cui è d'obbligo citare Poe) e quello del romanzo condominiale (La vita: istruzioni per l'uso di Perec, ma anche il Gadda del Pasticciaccio). Sa egregiamente eludere ogni Anxiety of Influence attraverso il ricorso a uno stile che, pur imprigionato dalla "gabbia" epistolare, cattura e avvince. La cura e la raffinatezza linguistica intorbidita da qualche superfluo manierismo, che dimostrano una frequentazione non banale della letteratura italiana di questo secolo (Savinio e Lan-dolfi, in primis), i monologhi interiori non esenti da qualche eccesso di cerebralismo, la liberazione della furia divagatoria del personaggio si coagulano efficacemente in una scrittura che, a dispetto dell'unidimen-sionalità del registro (la lettera) e del luogo (il condominio), non genera mai sazietà né noia. Potremmo considerare questo romanzo anche come un riuscito e calibrato esercizio di stile, perché in fondo tutte le vicende che lo caratterizzano si sviluppano in virtù di una serie di impercettibili slittamenti e spostamenti, affioranti nel canovaccio di ogni lettera. Ma è proprio dentro quelle piccole slabbrature della struttura fissa che Senso rinviene voragini di parole e vicende che chiariscono il caotico rapporto che il protagonista intrattiene con il mondo, dentro e fuori dal condominio. È come se queste "Raccomandate a nessuno", o meglio a uno a cui non vengono mai spedite, fossero solo l'occasione per sbrogliare un groviglio esistenziale altrimenti irrisolvibile. Il complesso rapporto con il genere femminile, con abbondanza di descrizioni pornosoft, ma mai volgari e piene di un humour contagioso, la condizione dell'artista, le cui eteroclite opere costituiscono un manualetto per ironizzare sulle tendenze di certa arte contemporanea (dall'ossessione per il ready made alla Land art del suo versiliese "Pontile rosa" o l'impiccato alla mongolfiera in puro stile Cattelan), la poetica scorribanda nell'immaginario onirico degli animali (e queste a parer mio sono le pagine più belle del romanzo perché "Imponente sarebbe il catalogo dei sogni prodotti dalla fauna addormentata") sono i tasselli attraverso cui progressivamente la figura di Antonio Senso, artista fallito e personaggio non facilmente dimenticabile, progressivamente si compatta e struttura. Non certo quel monumento alla sventatezza e all'insensatezza delle prime pagine, quel monomaniaco oppressivo che sfoga la sua bile ranco-rosa scrivendo, ma un essere che incuriosisce e diverte, che intenerisce e commuove e che, alla fine, in un certo "senso", pare tanto consustanziale al proprio cognome. ■ dr.scardanelli@libero.it L. Accorroni è insegnante e critico cinematografico Narratori italiani Apparire e scomparire di Andrea Giardina ALICE DISAMBIENTATA Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza a cura di Gianni Celati pp. 160, € 15, Le Lettere, Firenze 2007 Alice disambientata ha la vocazione del libro-margine, che cresce, come una concrezione naturale, su un displuvio, quello tra "la fine delle ideologie" e la nascita dello "strano" movimento studentesco del '77. E l'occasione -cerniera della storia recente del paese, ma anche sua "soglia culturale" - a marcarne il destino: che è poi quello di ospitare situazioni desuete, contraddizioni, utopie e profezie, segnare punti d'arrivo e innescare inizi. Chi ne è autore? Se lo firma Gianni Celati è perché ne è stato 0 "curatore", ovvero il promotore dell'idea (il corso universitario suM'Alice di Carroll e la letteratura vittoriana minore) e il suo esecutore. Anche Celati, va da sé, è autore, anzi è "l'autore", ma lo è tra gli altri del "collettivo A/Dams" (parodistica citazione della rivista "A/traverso" di Francesco "Bifo" Berardi), comprendente voci di studenti predestinati come Tondelli, Palandri, Pazienza, "Freak" Antoni; o di studenti oscuri, quali il contestatore con barba e tascapane o le affilate e noiose femministe. È legittimo definirlo libro, allora? Forse va meglio l'espressione "antilibro" proposta da Andrea Cortellessa nella postfazione alla recente riedizione AdV Alice. Anche perché in quelle lezioni, in quella scrittura, l'obiettivo è fare a pezzi qualsiasi ordine, qualsiasi individualismo autoriale, qualsiasi stigma dell'eroe tritatutto ("siamo tutti dei relais, delle staffette, che si passano qualcosa da un punto all'altro del territorio, identificandosi l'uno con l'altro"). Sogno, pazzia? Vicolo inevitabilmente cieco a cui non si dà via d'uscita? Sembrerebbe di sì, visto il seguito: appena nato, nel marzo 1978 (lo pubblica "L'Erba-voglio" di Elvio Fachinelli), l'antilibro scompare. Nessuno lo nota. Il tempo, plumbeo, si richiude sulle sue pagine. Che però rilasciano attorno a loro un pulviscolo difforme e impensato. Cosa è accaduto? E stato soprattutto Marco Belpo-liti a indicare in Alice disambientata, e più in esteso nel lavoro di Celati (il 1978 è l'anno del Lunario del paradiso), l'av- vio di una nuova letteratura incline al privato: lo testimoniano Boccalone di Palandri, Altri libertini di Tondelli o Casa di nessuno di Piersanti. Il breve "libro di teoria letteraria", insomma, con il suo prolungato attacco a qualsiasi dimensione ideologica mette in atto anche (ma non solo) "l'eliminazione del politico", aprendo le porte alla letteratura del riflusso. Se "la costellazione" di "storie" private e personali è la ricetta-strascico del "libretto-antili-bro" a uso della generazione del "disimpegno", è peraltro innegabile che tutta l'operazione-Alice sta dentro l'itinerario di ricerca (o di fuga) di Celati. È il luogo dove si condensa l'aspirazione a trovare "un modo per non farsi catturare" che regge i suoi libri precedenti (soprattutto Comiche, e Le avventure di Guizzardi), e informa gli apparentemente diversissimi lavori successivi, a partire dai Narratori delle pianure. Così Alice, "la bambina disambientata, spaesata, isolata, che fa i giochi da sola", diventa la modalità attraverso cui prendere di petto il mondo e farlo andare a gambe all'aria, allestendo lo "smembramento concettuale ed epistemologico" dei saperi (meglio la tassonomia fluttuante del bazar, come Celati afferma nel saggio inserito nella seconda edizione di Finzioni occidentali), che - afferma Cortellessa -rimanda a Benjamin e, ancor di più, allo Swift di Gulliver. Alice è la mina che fa deflagrare la famiglia e il partito, la vita consequenziale e ordinata degli adulti, il loro discorso che altro non è se non "una certa sonorità vuota per mantenere le distanze dagli altri". Ma Alice è anche, neUo stesso tempo, il modo per rendere evidente come la fantasia sia un puntello alla realtà: non una modalità per aggirarla, ma una stampella per sorreggerla. Con Gilles Deleuze - e la sua Logica del senso, ma anche il Kafka scritto con Félix Guattari - Celati e i suoi studenti cercano la "deterritorializzazione" per trovare "intensità" perdute, le stesse che si ottengono attraverso l'animalizzazione. In tal senso il "commento" alla storia di Alice, parallelo al manganelliano commento a Finocchio, va in direzione opposta alle strategie della letteratura per l'infanzia, che invece insegnano "a evitare il fuori, l'estraneità, il pericolo, le contaminazioni". Inseguire Alice, entrare nel suo mondo capovolto, significa operare "la caduta nelle voglie", ovvero "la caduta nel basso e nel minore", facendo del corpo il luogo in cui si iscrivono le storie. È di certo intervento paradossale, esagerato, che schianta la narrazione, esposta al rischio - e al fascino - di essere "scritta in milioni di persone". Ma da qui, anche il Celati a venire - lo "scrittore solitario", il "wanderer stagliato nel paesaggio" - non si allontanerà. ■ a.giardina@aliceposta.it A. Giardina è critico letterario Passerelle milanesi di Ade Zeno Raul Montanari È DI MODA LA MORTE pp. 130, €5, Perrone, Roma 2007 E trascorso quasi un decennio dall'ultima raccolta di testi brevi di questo autore, dieci lunghissimi anni che separano Un bacio al mondo (Rizzoli, 1998) dal tanto nuovo quasi atteso È di moda la morte, pubblicato ora dal piccolo editore romano Perrone. Una finestra in cui hanno trovato spazio alcuni tra i romanzi più interessanti della narrativa italiana, titoli come Che cosa hai fatto, Chiudigli occhi, La verità bugiarda, e il recente L'esistenza di dio. Opere lunghe, storie complesse in cui abbiamo imparato a riconoscere la voce di uno scrittore potente, visionario, chirurgico interprete di un mondo - il nostro - e dei suoi volti più nascosti, burattinaio di personaggi da un lato umili e normali, dall'altro complicati e vitalmente sofferenti. Ma sembra credibile che la dilatazione delle possibilità narrative (il romanzo, appunto) può rappresentare il luogo privilegiato per un immaginario dirompente come il suo, è allo stesso tempo vero che nella forma più contratta del racconto la genialità di Montanari riesce a esplodere con vigore sorprendente, una spinta improvvisa, senza esitazioni. A comporre il volume dieci brevi quadri che seguono un unico filo conduttore - l'ambiente delle passerelle milanesi, l'universo della moda - strada unificante che funziona da pretesto per mettere in scena drammi e ossessioni dei suoi protagonisti (stilisti affermati, modelle slave, pietre) che corrono parallelamente a quelli delle loro spalle, comparse fragili e precarie come sogni (un taxista caronte, un assassino vecchio e stanco, un indimenticabile guardone che dialoga con fantasmi complici) incrociando i propri destini su un palcoscenico fatto di stanze e luci, di bellezze funeree e segreti inconfessabili. Gli sguardi di un'umanità divisa tra ribalta dello spettacolo e sconfinate solitudini parlano tra loro, monologano a vicenda attraverso lettere d'addio, frettolose interviste o incubi capaci di scavare in passati atroci, talmente orribili da risultare pietosi, spesso ridicoli, o addirittura normali. Se dovessimo distinguere uno tra i pregi di Montanari, sceglieremmo di certo la sua sapienza nel far resuscitare pietà dimenticate. E in ultimo pietà verso la morte, la sua ombra, che si sposta da un corpo all'altro insinuandosi in ogni angolo, in ogni parola; si copre il volto con una maschera, si nasconde dietro una frase, sotto la pelle dei ricordi. In fondo siamo tutti morti, sembrano sussurrarci avidamente queste storie minime. ■