Nella trama del tempo e della musica di Lidia De Federicis Giorgio Luzzi LA TRAVERSATA pp. 200, €80, L'Epos, Palermo 2005 Qualcosa ci attrae, o ci insospettisce, quando un poeta sfugge alla misura del verso per raccontarsi in prosa. C'è da supporre infatti che gli resti nella memoria la nostalgia di quella densità che è nell'uso poetico; e che resti nel testo una percepibile tensione fra la polisemia tendenzialmente illimitata, che è il lavoro del poeta, e il circostanziato contenuto del microcosmo narrativo, con i suoi fatti, luoghi, personaggi, con la sua esistenziale evidenza. Nella prima parte del libro di Luzzi il lettore, di pagina in pagina, s'aspetta lo sviluppo che la struttura narrativa promette, una vicenda appunto. Quel che grandiosamente avviene riguarda invece solo il cane, soltanto un cane morto. Impiccato, però. Per creare emozione e tensione il poeta Luzzi non ha sfruttato le parole. Ha lavorato di pensiero. E nella sostanza, a me pare, ha risolto in metafisica la varietà dei diversi mondi e modi espressivi, forme tutte di approssimazione a un innominato nucleo germinativo, il presunto assente. E una metafisica senza gerarchia, dove i Momenti musicali dell'amato Schubert hanno la stessa dignità delle lesioni cutanee che la sifilide gli procu- rava. La musica accompagna i viventi e a volte parla per loro. (Non è forse obbedendo all'imperiosa Quinta di Beethoven che la caparbia Severina cede infine all'innamorato?). Ma non sembra aiutarli, nel peggio. Come nel morire. Il libro esce per un piccolo editore specializzato in testi di ricerca, in una collana diretta da Luigi Pestalozza. La musica ne è la materia e crea la trama. A Sor-togo, un paese del nord, di confine, di periferia, in Valtellina, nel chiarore invernale c'è chi N. 4 Narratori italiani valtellinese se la cava in ogni circostanza dice Luisa che valtellinese non è". Questo di Luzzi, dunque, è un piccolo libro di musica e d'amore, con una linea autobiografica collegabile al grande tema metafisico. L'adulto Gravius ha attraversato la vita intera, dai turbamenti dell'adolescenza alla soglia della senilità. Ha insegnato, ha frequentato cronache, archivi, e ora gli piace raccogliere elenchi, numeri. Conosco pochi che sappiano, come Luzzi in queste paginette, trarre dai dati anagrafici l'immagine di un'epoca ed evocarne la compassionevole quotidianità. Enorme il numero dei figli (ventotto ne ebbe il solo Ferdinand, fratello di Franz). Numeri striminziti per abiti e arredi (vedi quattro camicie lasciate Attorno ai due esperti nell'arte teatrale, il venditore di cocco e 'O Magistrato, ideati da Antonella Cilento, si dispongono altri personaggi consimili. Caratteri accomunati dall'instabilità. Sono tipi trasversali, esposti alle occasioni e alle passioni. Non c'è identità collettiva che li possa contenere e pietrificare. Rappresentano la soggettività in quanto mutamento, la vita in divenire muore, chi s'innamora. I giovani cultori di Schubert ascoltano musica fra di loro al sabato sera. Ma il protagonista dallo strano nome, Gravius, desidera anzitutto la figlia del sindaco, la bruna Severina, stringerne i boscosi capelli. Nel punto decisivo (sarà poi incinta o no?) Severina gli impone di non cercarla, Gravius non insiste, finisce così una storia d'amore. Passano quarant'anni, e siamo alla seconda parte. Siamo a Vienna il giorno di Pasqua del 2002. Assieme a Gravius c'è ancora una donna. Non è il bruno fantasma che s'incarnava nell'elusiva Severina, ma è la positiva, l'incoraggiante Luisa: "un agli eredi). "È da quando ho aperto il suo libro, Gravius, che non si parla altro che di funerali e di cimiteri", protesta l'interlocutore o lettore. 1 ppure, in mezzo a tanti znomi e nella compresenza di morti e di viventi, è sempre il corpo del cane che spicca e vince, appeso a un ramo, tirato su per il collo da un foulard color ciclamino, e giù per la coda da un peso aggiunto che comunica a passanti e lettori l'assoluta intenzionalità dell'ammazzamento. Povera vittima, povero assassino e generale insensatezza, in questo libro bello e strano. ■ Indicativo presente di Vincenzo Aiello Antonio Pennacchi L'AUTOBUS DI STALIN E ALTRE STORIE pp. 122, € 13, Vallecchi, Firenze 2005 Quando un autore ha un suo stile consolidato lo si riconosce anche in prove di genere slegate dall'ortodossia letteraria. E il caso dell'ultimo testo del laziale Antonio Pennacchi, un insieme di pezzi stravaganti nei modi e nelle tematiche che una volta si chiamavano "d'occasione", ma che altre occasioni danno al lettore attento per andare in una riflessiva controcorrente rispetto ai dettati della maggioranza. Che si occupi di stabilire precedenze di morte violenta in casi automobilistici limits con lo schema informatico del worst case-, o che faccia revisionismo da caffè comparando morti staliniani e morti democratici, Pennacchi non rinuncia ad andare oltre o al di sotto del vero male del nostro tempo: il politically correct. Chiaramente le sue non sono fessane 'e café - per dirla nell'i- dioma partenopeo - perché Pennacchi ha avuto modo di legare il suo passato d'operaio alla Fulgorcavi con una postuma ma fruttuosa sanzione accademica. Allora cos'è che fa diverso Pennacchi dagli altri - a partire dal 1994, quando con il romanzo Palude (Donzelli) interessò lettori, critici ed editor - e che lo ha portato a prove narrative che hanno messo d'accordo tutti? La differenza è quella richiamata dal prefatore Umberto Croppi, "la lingua è quella che conosciamo, colorata, sorprendente, arguta, esilarante a volte". Sì, Pennacchi è con Camilleri la vera novità di questi ultimi dieci anni di letteratura italiana, perché il dialetto dell'Appia sta al dialetto d'Agrigento, come la fucina stilistica del laziale sta a quella dell'uomo di Porto Empedocle. Una lingua - eppure frutto delle letture e delle esperienze di un autore, in una parola della sua vita - non può nascere dal nulla. Viva Pennacchi e Camilleri che, poi, le loro storie le pescano in quella gora che molti scrittori anche under quaranta oramai allontanano: il temuto, perché corrosivo, "indicativo presente'". Quando il personaggio è luminoso di Sergio Pent Claudio Piersanti IL RITORNO A CASA DI ENRICO METZ pp. 204, € 15, Feltrinelli, Milano 2005 La misura della contemporaneità si evidenzia - e si rende necessaria - oggi più che mai nella discrezione soggettiva dei linguaggi narrativi. In tempi di scritture disinvolte e megalomani, indirizzate sempre più spesso al miraggio della miracolazione televisiva o cinematografica - checché ne dicano, scandalizzandosi, i diretti interessati - si avverte l'urgenza di appartarsi in una dimensione quieta e strettamente letteraria, senza colpi di scena, senza sbudellamenti, senza gli eccessi di ispirazioni pompate, ma votata al semplice, naturale bisogno spirituale del lettore. Ormai un noir non si nega a nessuno - Arbasi-no, Rigoni Stern, Busi, perché tentennate? - ma il crescendo di consensi che vorrebbero eleggere il genere delittuoso a emblema assoluto della narrativa "necessaria", rischia un coro di fischi a furor di critica, fatte salve le eccezioni - quanto credibili? - di chi promuove le botteghe artigiane dei Faletti e dei Biondillo all'olimpo irraggiungibile delle boutique d'alta letteratura. Se un narratore severo e discreto c'è, in casa nostra, quello è Claudio Piersanti. Bravo e onesto, sempre, nel percorrere la dimensione selettiva dell'analisi psicologica contemporanea, quella che, partendo dall'ombelico tormentato di un protagonista poco appariscente, anonimo, cresce e si sviluppa fino a diventare la metafora assoluta del nostro tempo. Il tempo dei pensieri e delle vite di riserva, ovviamente, quello che sfugge alle promozioni pubblicitarie e ai titoli in prima pagina, accontentandosi del trafiletto in cronaca o dei modesti omaggi sulle testate locali. La provincia raccontata con devozione e sapienza da Piersanti rappresenta al meglio l'Italia che coltiva i propri dubbi, si affaccia sulle autostrade del progresso, vede correre l'alta velocità dei tempi da un angolo d'ombra in cui la vita cresce e si spegne senza troppi sussulti, senza troppe sorprese ma senza neanche rimpianti. Il personaggio straordinario di Enrico Metz, protagonista luminoso di questo nuovo romanzo, raccoglie in sé tutte le figurine provinciali finora conosciute di Claudio Piersanti, ma si presenta - e poi si conferma - come il riassunto tutto italiano di certi grandi nomi della letteratura mondiale del Novecento, un po' Herzog un po' Stiller, un po' Humbert Humbert e un po' von Aschen-bach, condensando le illusioni -e poi le deluse amarezze - di un secolo arrivista spesso vittima di un eccesso d'ambizione, autofagocitato dalle proprie frenesie. È un vero ritorno a casa, quello dell'avvocato di grido Enrico Metz, ultracinquantenne timoniere legale di uno dei grandi nomi della finanza nazionale. Mara-ni, il megaimpresario, è colato a picco in un crac finanziario di rilevanza mondiale, e Metz, il suo uomo-ombra, ne ha subito le conseguenze, se non le devastazioni. La città natale di provincia riaccoglie l'avvocato con entusiasmo diffidente, ma fin da subito Metz si premura di ricostruire se stesso senza più azzardi o battaglie epiche: il piacere della casa e del giardino, qualche cliente selezionato, i vecchi amici ritrovati, le telefonate alla moglie Ivana - ancora presa dal suo nevrotico lavoro a Milano - i rari contatti con i figli gemelli ormai adulti e lontani, le chiacchiere discrete con i vicini e con la nuova segretaria, Rita, che talvolta rispolvera con leggerezza la sua virilità calante. La provincia addormentata riabbraccia quindi con gradualità il figliol prodigo, se non fosse che il successo - anche quello esaurito - è un marchio indelebile. Dopo aver rifiutato una candidatura alle elezioni regionali offertagli dai papaveri locali, Metz si ritrova suo malgrado vittima di calunnie e diffamazioni, perché le colpe - anche quelle di riflesso - si pagano a caro prezzo. E qui inizia la parabola discendente del grande avvocato Enrico Metz, che si accosta a grandi passi alla semplice e inoffensiva protagonista di Luisa e il silenzio: Metz si lascia invecchiare, richiama a sé la moglie, si illumina nella figura snella e sensuale di Eleonora, figlia del suo amico Alberto, si perde prima nell'alcool e poi in una nuova dimensione di rifiuto del mondo, che diventa circoscritto sempre più alla sua casa e al giardino, mentre gli altri fanno gruppo intorno a lui e il tempo passa e scivola verso la fine. Partendo da una dimensione etica di rilevanza innegabile, relativa al caos dell'affarismo politico di questi anni - "i politici li pago ma non gli do confidenza", citazione da inquadrare -, il romanzo cresce e poi si evolve in una sua eleganza tutta privata che sospinge gradualmente le illusioni contemporanee nell'angolo solitario delle sconfitte, ridimensionando le ambizioni, dando il giusto valore ai sentimenti, offrendo al protagonista - eroe senza medaglie di questa epoca di guerre mondiali economiche e sociali - un riscatto che non è decadimento, ma solo un punto di vista estremo sull'importanza di vivere guardandosi attorno con lentezza e ingenuità. In questa sua struttura di parabola individuale, il romanzo racconta il nostro tempo con nobile precisione e partecipazione commovente, in una calibrata leggerezza dai toni assoluti. ■ s.pentSlibero.it S. Pent è insegnante, scrittore e saggista