Mussolini non era di destra di Filippo Maria Battaglia Nicholas Farrell MUSSOLINI ed. orig. 2005, trad. dall'inglese di Maria Vittori, pp. 622, €29,50, Le Lettere, Firenze 2007 L'interpretazione che ispira questo Mussolini di Nicholas Farrell è, per più di una ragione, singolare. Al pubblico italiano l'autore non è del tutto ignoto: oltre a essere editorialista del "Sunday Tele-graph", è infatti il giornalista cui due anni fa Silvio Berlusconi rilasciò l'intervista sulla presunta bontà del fascismo, che scatenò una polemica estiva interminabile. L'opera ha, almeno nei suoi intenti, una spiccata tensione cosiddetta "revisionistica". Già nella premessa, infatti, proprio Farrell scrive: "L'idea di punta del fascismo che lo spirituale conta più del materiale risuona sempre di più, e nel campo economico il concetto fascista della Terza Via sopravvive ed è supportato dagli alfieri della sinistra moderna". Per poi affermare, più avanti: "Ciò potrebbe sorprendere qualcuno, ma sostenere che il fascismo sia stato un fenomeno di 'destra' significherebbe misconoscere la visione di Mussolini". E infatti lo studio del giornalista inglese per buona parte si consuma e ruota attorno a questa chiave di lettura, che cerca di attualizzare il pensiero del dittatore fascista e di renderlo precursore delle più avanzate esigenze dell'attuale "welfare state". Ben sapendo come questa interpretazione sia male accolta dalla storiografia internazionale, l'autore si spende così in una trattazione che sfiora le seicento pagine, vagliando la vita di Mussolini in ogni suo aspetto. Nulla del Duce è ignorato: perfino le vicende amorose sono descritte analiticamente, specificando, con una certezza che sfiora quasi il sospetto, i gusti e le preferenze dell'alcova del dittatore romagnolo. Nell'affrontarne la vita, la prosa di Farrell travolge, come un fiume in piena, ogni circostanza e personaggio, tutta tesa com'è a evidenziarne l'eccezionalità. Così Giovanni Giolitti è defini- www.lindice.com ...aria nuova nel mondo dei libri ! _ - tT É W\ to "trasformista", Giuseppe Prezzolini "un nazionalista fortemente influenzato da Nietzsche", Gobetti viene totalmente ignorato e Croce ridotto a un pensatore liberale assolutamente imbelle. Perfino Gramsci resta inchiodato a un grigiore tetro e dai contorni indefiniti: "il suo principale contributo alla discussione fu che non era sufficiente rilevare i mezzi di produzione, il comunismo doveva anche accaparrarsi anche la cultura", concludendo lapidariamente che "era esattamente ciò che pensava anche Mussolini". Per il giornalista inglese "il Duce degli italiani" rappresenta insindacabilmente l'evoluzione dello spirito nazionale e può certamente essere citato nella Legion d'onore dei più importanti patrioti: "Garibaldi aveva iniziato il processo di creazione dell'Italia e Mussolini lo avrebbe completato". La caduta del dittatore romagnolo è così causata quasi esclusivamente dall'antagonismo dei gerarchi e del sottobosco fascista. Ciano - per citare solo una delle descrizioni dei funzionari in orbace -"era semplicemente il tirapiedi del Duce" e il suo appoggio all'iniziale neutralità italiana nell'incipiente conflitto mondiale "era dettato solo dalla paura di perdere". Farrell non risparmia neanche l'azione partigiana, che viene paragonata a "una piccola, disorganizzata, male addestrata e disunita Armata Brancaleone". A Mussolini resta così sostanzialmente imputata la sola responsabilità dell'esiziale alleanza con la Germania e con il suo Fuhrer, colpevole del declino e della sconfitta italiana. Insieme alla vulgata assolutoria sul fascismo è poi presente la più corriva delle tradizioni legate allo stereotipo italiano, che ci descrive come un paese antropologicamente anomalo, "in cui la gente è tanto profondamente superstiziosa, religiosa, chiassosa e teatrale", "il solo in cui D'Annunzio e Mussolini avrebbero potuto ottenere un successo su così larga scala". Stupisce pertanto che questo volume sia stato pubblicato dalla casa editrice Le Lettere nella collana a cura dello storico Francesco Perfetti, in una dubbia traduzione (secondo cui i partiti "vincono" anziché conquistare i seggi, un'offerta è "condannata" anziché rifiutata, e via proseguendo). Per questi e per altri motivi, al lettore inglese, che ha letto il Mussolini di Farrell un paio di anni fa, e a quello italiano, che si appresta a leggerlo ora, qualche dubbio evidentemente sorgerà. Ma i dubbi si dissolveranno comunque presto. "Dal 1998 - come si evince sul retro di copertina del libro - l'autore si è trasferito in Italia e vive a Predappio, continuando a svolgere attività giornalistica e occupandosi di ricerche storiche". ■ info@gliapoti.it F.M. Battaglia è giornalista culturale di diversi quotidiani e periodici Storia Preziosi spunti di Alexander Hobel Albertina Vittoria STORIA DEL PCI 1921-1991 pp. 190, € 13,50, Carocci, Roma 2006 Questa Storia del PCI è una sintesi documentata e ricca di spunti di riflessione. Del Pei l'autrice ripercorre del resto tutte le fasi salienti, con i momenti di svolta e i fattori di continuità. Tra questi ultimi è la centralità del "legame di massa", concepito da Gramsci come l'elemento essenziale per un partito comunista. In questo quadro si pone l'idea della "conquista" delle masse, cioè il tentativo di esercitare un'egemonia al loro interno per consentire al proletariato di farsi classe dirigente e di aprire una nuova fase storica. Com'è noto, le cose vanno diversamente ed è il fascismo a affermare il suo dominio. I comunisti pagano il prezzo più alto alla macchina repressiva del regime, con 4.030 condannati dal Tribunale speciale su 4.671. L'esigenza di intensificare l'azione politica nella clandestinità è alla base della "svolta" del 1929: Vittoria dà un giudizio critico su quella scelta, che ha costi umani pesanti e muove da un'analisi in parte errata; e tuttavia essa consente al PCd'I di conquistare quel rilievo nella lotta antifascista che è la base del suo ruolo nella Resistenza. La centralità attribuita al radicamento sociale porta il PCd'I e Togliatti a vedere il fascismo come "regime reazionario di massa", che tende a mobilitare le masse e a riplasmarne l'identità. Di qui la scelta di lavorare nelle organizzazioni del regime, a partire dai sindacati. Ma - come Vittoria mette in luce, anche sulla base di suoi studi precedenti - il contatto si stabilisce anche con giovani intellettuali che fanno la fronda al regime e che in non pochi casi saranno nella Resistenza e nel Pei. Radicamento popolare e lavoro di massa sono alla base del "partito nuovo", e tra i "segreti" del suo successo, in un paese in cui si arriva alla condanna di quindicimila comunisti nel 1948-50. Vittoria riporta questi dati e quelli sulla composizione sociale del partito, che è presente in diversi ceti e in particolare nella classe operaia. E sottolinea l'azione svolta tra gli intellettuali, la molteplicità delle "strutture culturali" costruite e il peso via via crescente dei ceti medi tra gli iscritti e soprattutto tra i dirigenti. Quanto al versante internazionale, l'autrice evidenzia il contribu- to autonomo del Pei al movimento comunista, dal ruolo di Togliatti nella svolta dei fronti popolari e nella politica di unità antifascista alla "via italiana al socialismo", dal memoriale di Yalta alla condanna dell'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Comincia qui una fase nuova, che porterà a quel graduale distacco dall'Urss simboleggiato dal discorso del 1969 di Berlinguer a Mosca, dalla presa di distanza del 1976 e infine dallo "strappo". Intanto, con il "compromesso storico", volto a contrapporre un ampio fronte democratico e popolare ai pericoli reazionari, per certi versi giunge a compimento la strategia del partito, ma l'omicidio Moro e la tattica di "logoramento" attuata dalla De ne determinano la sconfitta. Inizia così un periodo di difficoltà, nel quadro di un declino della politica a cui il Pei non vorrà adeguarsi, rivendicando la sua "diversità", ma da cui sarà travolto. E tuttavia dell'ultimo Berlinguer restano idee attuali come quelle sull'austerità e sul nuovo modello di sviluppo, la questione morale e la riforma della politica: spunti preziosi, non svolti dai soggetti e dalle organizzazioni emersi in seguito. ■ hobel@unina.it A. Hòbel è borsista dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia Il padre, il figlio e la chiara fama di Francesco Cassata Paolo Simoncelli TRA SCIENZA E LETTERE Giovannino Gentile (e Cantimori e Majorana) pp. 175, € 16,50, Le Lettere, Firenze 2006 Giovannino Gentile, figlio del ben più noto "filosofo del regime", morì di setticemia nel 1942. Non aveva ancora qua-rant'anni. I necrologi - scritti in quel momento, tra gli altri, da Arnaldi, Sommerfeld e Timpanaro sr. - saranno seguiti da più di un cinquantennio di oblio. Dopo questo lungo silenzio storiografico, rotto nel 1999 dalla voce redatta da Roberto Maiocchi per il Dizionario Biografico degli Italiani, Simoncelli dedica oggi alla figura del giovane fisico teorico un importante saggio, che si fonda su un'ampia base documentaria in gran parte inedita. Il curioso sottotitolo affianca Gentile jr. a Cantimori e Majorana: due amici, conosciuti alla Normale di Pisa e all'Istituto romano di via Panisperna, con i quali il giovane fisico teorico darà vita a un sodalizio epistemologico e politico progressivamente distante da quello degli "sperimentalisti" Fermi e Rasetti. Al fianco di Cantimori e Majorana, l'epistolario di Giovannino descrive peraltro un tortuoso percorso giovanile fascista, fra entusiasmi rivoluzionari e perplessità sulla retorica del regime, vissuto non solo in Italia, ma anche nella Germania weimariana e poi hideriana, a contatto scientifico con Einstein, Heisenberg e Sommerfeld. Decisivo è poi il 1937, data del concorso a professore straordinario per la cattedra di fisica teorica all'Università di Palermo, evento intorno al quale ruota la seconda metà del volume. Nel suo romanzo La scomparsa di Majorana, pubbli- cato da Einaudi nell'ottobre 1975, Sciascia sosteneva infatti una tesi singolare: Majorana non si era suicidato, ma era scomparso. E fra le cause di questa scomparsa erano da annoverare anche i risultati del concorso del 1937: dinanzi alla terna dei vincitori (Wick, Racah, Gentile jr.), già predisposta dalla consueta malavita universitaria, Majorana avrebbe deciso improvvisamente di concorrere, mandando all'aria i piani accademici organizzati da Fermi. Costretto a insegnare dall'intervento del senatore Gentile, interessato alla promozione del figlio, Majorana avrebbe patito di nuovo "il trauma di dover comunicare". Tanto da decidere di scomparire. La ricostruzione di Sciascia, contestata a sua tempo da Edoardo Arnaldi, susciterà una certa eco sulle pagine dell'"Espresso" e del "Corriere della Sera", pur essendo - come dimostra efficacemente Simoncelli - del tutto infondata. In realtà, il concorso del 1937 vide confrontarsi due "cordate" contrapposte: da un lato, quella accademica di Fermi, favorevole a Majorana, Wick e Racah; dall'altro, quella più "familiare" del senatore Gentile, a sostegno del figlio. La mossa a sorpresa, probabilmente frutto delle pressioni gentiliane, fu la nomina di Majorana per "chiara fama", la quale consentì a Gentile jr. l'ingresso nella terna. Dopo il concorso, a venti giorni dalla sua scomparsa, Majorana scriveva la sua ultima lettera a Giovannino: «Sono contento degli studenti, alcuni dei quali sembrano risoluti a prendere la fisica sul serio. Spero che ci rivedremo presto». Non era certo questa una manifestazione del "panico" teorizzato da Sciascia. Dal libro non scaturiscono, dunque, clamorose rivelazioni sulla scomparsa di Majorana. A emergere è piuttosto un ritratto sfumato di Giovannino Gentile, nel quale molto sembrano contare le ombre dell'influenza paterna.