Storia Clamorose forzature di Silvano Montaldo Massimo Baioni RISORGIMENTO IN CAMICIA NERA Studi, istituzioni, musei nell'Italia fascista pp. 290, €32,60, Carocci, Roma 2006 Risulta efficace il titolo di questo libro (della collana "Pubblicazioni del Comitato di Torino dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano", nuova serie, n. 27), frutto di un lungo lavoro sul ruolo e l'immagine del Risorgimento durante il ventennio fascista e continuazione di un precedente volume dello stesso autore sulla memoria e la celebrazione del processo di unificazione nell'Italia liberale. Anche Garibaldi, del resto, fu arruolato tra i padri spirituali di Mussolini e del fascismo, secondo l'idea che le camicie nere fossero le eredi naturali di quelle rosse, con la marcia su Roma come ripresa della marcia interrotta a Mentana e inizio di una nuova civiltà. L'appropriazione e il nuovo uso della tradizione risorgimentale emerge cosi come uno dei tratti salienti del rapporto tra il regime e la storia nazionale, e come una vera e propria sfida per il fascismo, data l'ampiezza del dibattito culturale e la forza delle tradizioni politiche che si erano sviluppate nei decenni precedenti. Baioni traccia allora un percorso che parte dalla mobilitazione a scopi propagandistici dei miti risorgimentali durante il primo conflitto mondiale e arriva fino al crollo del regime, quando si delinearono nell' urgenza e nella drammaticità di quegli eventi le scelte di alcuni dei protagonisti della storiografia successiva, i quali però si erano formati e avevano esordito già negli anni trenta. È su quella fase che si concentra il fuoco del libro, affrontando modalità e conseguenze della riorganizzazione degli istituti storici attuata fra il 1933 e il 1935 secondo criteri di modernizzazione e accentramento. Quella che fu una "tappa periodizzante nella vicenda storiografica italiana", vide protagonisti personaggi di primo piano della cultura fascista, da Gentile a Volpe a Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, spesso troppo frettolosamente visti in conflitto tra loro: certo, tra la caratura intellettuale dei primi due e le rozze contorsioni storiografiche del terzo c'era un abisso, ma gli scontri furono più sulla gestione e il controllo degli istituti che sulle modalità e le finalità della riforma. Inoltre la fede monarco-dinastica impediva a De Vecchi ogni concessione all'immagine di un fa- scismo privo di legami con la storia nazionale, la qual cosa gettava un ponte con le posizioni di Gentile e Volpe, che miravano a saldare il presente con la tradizione culturale italiana. Ma grazie al riordinamento degli istituti storici il quadrumviro De Vecchi, che ottenne la presidenza dell'Istituto nazionale per la storia del Risorgimento e della Giunta centrale per gli studi storici, potè operare un'inedita e fortissima azione di condizionamento e di controllo su una miriade di istituzioni locali - settantuno comitati per la storia del Risorgimento, con circa settemila iscritti, e numerosi musei cittadini dedicati alla storia del processo di unificazione - che erano sorte, o stavano nascendo proprio in quegli anni, assecondando interessi legati soprattutto alle varie tradizioni regionali. Il tentativo di De Vecchi, in parte riuscito, impose una visione unificante del Risorgimento, che faceva perno sulla continuità tra l'assolutismo e le tradizioni militari sabaude settecentesche e il regime fascista e il suo destino imperiale, espungendo da questa interpretazione sia gli apporti esterni (la Rivoluzione francese, l'età napoleonica, il liberalismo europeo postrivoluzionario), sia gli elementi interni che stridevano con tale visione, quali i moti costituzionali, la "primavera dei popoli", il 1849 repubblicano, il laicismo cavouriano. Forzature e clamorose manipolazioni, che portavano ad accostare Carlo Alberto, re martire il cui sacrificio era stato il presupposto necessario per il rilancio delle aspirazioni nazionali, e Mazzini, inteso come pensatore antiliberale e antisocialista, a sua volta profetico nel percepire la funzione che l'Italia avrebbe avuto nel mondo una volta che la sua unità spirituale fosse stata cementata dallo stato sabaudo-fascista. Un pregio - fra i molti - di questo lavoro concerne la capacità di tenere insieme la storia dell'alta cultura con i dibattiti sulle origini del Risorgimento, gli scontri sui concorsi per le cattedre universitarie, le pubblicazioni della "Rassegna storica del Risorgimento", il condizionamento degli studi e la ricostruzione delle conseguenze che le operazioni di vertice ebbero sulla percezione diffusa della storia risorgimentale, soprattutto attraverso l'analisi delle trasformazioni - tra inerzie di fondo, pronti adeguamenti, ma anche non poche resistenze - che la nuova vulgata sabaudo-fascista provocò a contatto con le tradizioni risorgimentali locali. Ne risulta così un quadro corale e ricchissimo di sfumature, che ci restituisce un'immagine mossa e variegata della cultura italiana negli anni del regime fascista e delle scelte di coloro che operarono all'interno delle sue istituzioni culturali. ■ silvano.montaldo@unito.it S. Montaldo insegna storia sociale del XIX secolo all'Università di Torino Le crepe della Controriforma di Dino Carpanetto Federico Barbierato POLITICI E ATEISTI Percorsi della miscredenza a Venezia tra Sei e Settecento pp. 346, € 18, Unicopli, Milano 2006 A partire dalla documentazione inquisito-riale relativa a Venezia, per il periodo 1640-1740, l'autore riporta in vita una realtà se non proprio dimenticata, comunque mai così attentamente analizzata, in cui si muovono figure minori, portatrici di dissenso, di miscredenza, di incredulità, variamente modulate nei contenuti e nelle differenti modalità di manifestazione. E spiazzante rispetto ad alcune certezze storiografiche che pongono quel periodo storico sotto il sigillo della Controriforma trionfante, o della crisi dei modelli autoritari e confessionali vissuta da pochi spiriti liberi, avvertire la capillare presenza del dissenso religioso in ambienti marginali, popolati di artigiani, di frati e preti, di librai, di speziali e barbieri, che si agitano nei luoghi cruciali della socialità, tra caffè e botteghe, tra spezierie e barbierie, dal pulpito e dai salotti, o che più semplicemente prendono la parola in pubblico per spiegare la loro dissacrante verità. Con non comune efficacia narrativa il libro cuce la trama di tante inquietudini private che assurgono a casi di rilevanza storica in quanto palpitano di motivi eterodossi. Ne emerge un corpo culturale magmatico, in cui si riflettono le contaminazioni e le metamorfosi di idee eterodosse, e che l'autore riesce a ricomporre in persuasivi quadri generali tramite le categorie della storia sociale della cultura e della circolazione delle idee. I pro- cessi di trasmissione e di elaborazione autonoma si muovono lungo quei labili confini che separano ortodossia e eterodossia, e che frastagliano le tante espressioni del dissenso, tra anticlericalismo, professioni di ateismo, umori materialistici e così via, secondo una ricca casistica in cui forse può contare di più la volontà normativa degli inquisitori che non la consapevolezza degli attori. Scrutando le crepe dell'edificio della Controriforma, Barbierato opportunamente rammenta l'eccezionalità di Venezia, uno spazio di libertà unico in tutta la penisola. Occorre anche ricordare la sopravvivenza di modelli risalenti alla crisi religiosa del Cinquecento, destinati a varia fortuna, e la diffusione di quelle voci che appartengono al mondo dell'Illuminismo radicale, nella certezza, che sorregge l'autore, di contesti ampi in cui la circolazione delle idee non si propaga per settori separati, ma si muove incrociando destini individuali, contaminando i battiti della coscienza individuale con le culture del dissenso. Sono tante le ricomposizioni che l'autore suggerisce per dare spessore ai singoli casi identificati nelle fonti. Le une rimandano alla sopravvivenza di dottrine riformate o cripto riformate che in Veneto avevano avuto diffusione nel Cinquecento; le altre rinviano al momento politico in cui cadono le storie individuali, chiamando in causa le tradizioni giurisdizionalistiche della Serenissima e la peculiarità del suo apparato inquisitoriale; le altre, ancora, gettano luce su gruppi dissenzienti, come nel caso di quei "liberi metafisici" che si radunavano presso il cappellaio Bortolo Zorzi, di cui l'autore riporta in appendice l'elenco dei libri in suo possesso: una biblioteca proibita, con settantuno titoli, molti dei quali non ci saremmo mai attesi di trovare. Umana diversità di Renato Pasta LE PROBL^ME DE L'"ALTERITÉ" DANS LA CULTURE EUROPÉENNE AUX 18e ET 19e SIÈCLES Anthropologie, politique et religion a cura di Guido Abbattista e Rolando Minuti pp. 298, €25, Bibliopolis, Napoli 2006 Universalismo e diversità, civiltà e barbarie, tolleranza e repressione, degenerazione e progresso: sono alcuni dei temi affrontati in questo volume che raccoglie quattordici interventi di studiosi italiani e stranieri. Affidato in prevalenza alla disamina di testi editi e delle rappresentazioni (teologico-religiose, politiche, storico-naturalistiche, geografiche), il panorama offerto presuppone una cronologia più ampia di quella denunciata nel sottotitolo e avviata dagli incontri con popolazioni e culture extraeuropee nel Cinquecento. Ne scaturiscono esperienze e conflitti destinati a trovare terreno fertile fra Sei e Ottocento quali elementi costitutivi dei linguaggi politici della "seconda modernità". F merito degli autori il richiamo alla specificità dei contesti e dei contatti (non sempre e solo distruttivi) tra i bianchi e le svariate forme della diversità. Si delinea un quadro sensibile ai mediatori che nutrirono le immagini delle realtà d'oltremare (diplomatici, viaggiatori e mercanti, cacciatori bianchi nelle tribù nordamericane, missionari), attento alle dinamiche politiche e religiose, vigile nel segnalare l'emergere di stereotipi precocemente razziali, ma anche nel cogliere la volontà di comprensione dell'altro che animò settori essenziali dell'opinione colta europea. E il caso del grande progetto di acculturazione gesuitica fra Cinque e Seicento, volto a edificare "uno stato religioso privo della libertà e della società civile", ma destinato a confliggere con le esigenze delle potenze continentali e con la laicizzazione illuminista della storia. La qual cosa avviene anche per le rappresentazioni dell'islam e dell'impero ottomano, costantemente declinate sul metro interno dei dibattiti religiosi e delle strategie degli stati europei. Se i popoli orientali restano ai margini dell'indagine, grande attenzione è posta alle multiformi raffigurazioni dell'Africa nera, luogo privilegiato della lettura dell'alterità tra monogenismo e poligenismo, philosophie e antropologia fisi- ca: con esiti che incrociano sia le giustificazioni teologiche e razziali della tratta, sia i primordi dell'abolizionismo. Tra Sette e Ottocento muta, inoltre, la raffigurazione degli Indiani nordamericani, che pure aveva mobilitato l'opinione pubblica delle ex colonie americane e alimentato gli ideali utopistico-egualitari dell'Illuminismo francese. Abbandonata l'idea della naturale libertà degli indigeni, lo stereotipo del pellerossa selvaggio e brutale, incompatibile con le forme di civiltà europee/prelude ormai allo sterminio. In questo quadro, che investe genesi e consolidamento delle dottrine razzistiche ottocentesche, la nascita dell'identità somatica degli europei riveste assoluta centralità, a conferma dei percorsi che legano scienza e ideologia, liberalismo e dominio. Nell'attenzione alle differenze e alla polisemia dei discorsi, ai fattori di ricezione e di rielaborazione intellettuale, sta uno dei pregi del libro, che non ignora la dimensione collettiva delle percezioni dell'altro, o la difficile dialettica tra integrazione e rifiuto che impegna individui e gruppi non bianchi nell'età del colonialismo. Il libro approfondisce così la consapevolezza del lettore di fronte ai drammi dell'oggi. ■ renato.pasta@libero.it R. Pasta insegna storia moderna all'Università di Firenze