Politica Espansionismo e pluralismo di Giovanni Borgognone Emilio Gentile LA DEMOCRAZIA DI DIO La religione americana nell'era dell'impero e del terrore pp. 266, €16, Laterza, Roma-Bari 2006 Gn questo lavoro Emilio dentile riprende le proprie riflessioni sulle religioni civili e sulle religioni politiche. E in effetti, in tale prospettiva, un'analisi della realtà americana, considerata la rilevanza che il dibattito sul rapporto tra fede e politica negli Stati Uniti ha assunto negli ultimi anni, risulta indubbiamente un opportuno approfondimento della precedente linea di ricerca. Gentile mette in luce, innanzitutto, come vi sia stata una semplificazione in materia: si è spesso detto, infatti, che l'arrivo di Bush junior alla Casa Bianca abbia rappresentato un evento nuovo nel rapporto statunitense tra religione e politica. In realtà "alla Casa Bianca Dio era giunto col primo presidente, due secoli prima, e vi era rimasto senza interruzione coabitando equa- mente con presidenti repubblicani e presidenti democratici". Da sempre la religione ha imperversato, ad esempio, nelle campagne elettorali. Solo per citare qualche esempio: nel 1896 si scontrarono Bryan, "precursore del fondamentalismo cristiano", e McKinley, "fervido metodista"; nel '53 Ei-senhower, primo e finora unico tra i presidenti, inserì nel discorso inaugurale "una preghiera a Dio onnipotente scritta da lui stesso"; nel '72 Nixon "diede un'intonazione teologica alla sua esaltazione del sistema americano, dello spirito americano e della fede nell'America", mentre il suo avversario McGo-vern chiese a Dio sapienza e conoscenza per rigenerare la nazione; nel 1980 si scontrarono il cristiano rinato Carter e l'alfiere della "crociata" contro il comunismo Reagan. Nel '92 Bush senior dichiarò in campagna elettorale: "Nessuno può essere presidente dell'America senza credere in Dio, senza credere nella preghiera". E in effetti questo valeva anche per il suo avversario Bill Clinton, il quale affermò di pregare ogni giorno e di leggere la Bibbia settimanalmente. Anche in un altro ambito fondamentale della politica americana, l'espansione nazionale, prima sul continente americano e poi attraverso gli oceani, è sempre stata fortemente presente una motivazione-giustificazione di carattere religioso, basti pensare all'uso della nozione del Mani/est Destiny. "I missionari americani, osserva Gentile, precedevano o seguivano i mercanti e i soldati, lo spirito di evangelizzazione si coniugava con l'interesse capitalista e la strategia geopolitica". Il linguaggio religioso adoperato da Bush nel presentare la guerra contro ì'"asse del male", pertanto, rientra in una lunga e assai radicata tradizione retorica e ideologica. Gentile, però, sottolinea nel contempo un altro aspetto essenziale della religione americana: il suo "ecumenismo", dovuto alla configurazione, fin dalle origini, quale "cristianesimo di sette". Su questa base si può forse spiegare, come propone l'autore, l'attenzione prestata da Bush, al di là di qualche sbavatura, nel non indicare la guerra al terrorismo come una crociata contro la religione islamica. È proprio il pluralismo religioso, questa la conclusione a cui giunge il volume, il principale argine, oltre naturalmente alla tradizione liberaldemocra-tica, in grado di impedire che la "religione civile" americana si trasformi in una "religione politica", ovvero che un partito possa imporre i propri principi e i propri valori, giungendo al monopolio della politica e della fede. ■ giovborg@tiscalinet.it G. Borgognone è dottore di ricerca in storia delle dottrine politiche all'Università di Torino Tipologia delle comunità antidemocratiche Un manuale storico di Enrica Bricchetto Oliviero Bergamini LA DEMOCRAZIA DELLA STAMPA Storia del giornalismo pp. 488, €20, Laterza, Roma-Bari 2006 Ci si occupa di giornalismo non può che ompiacersi per la pubblicazione della storia del giornalismo di Oliviero Bergamini, inviato, storico degli Stati Uniti, storico del giornalismo e insegnante della disciplina. Ecco i pregi più evidenti: chiarezza espositiva mai semplicistica, rapporto chiaro con la grande storia, distanza dalla mera elencazione delle testate, approfondimento di alcuni temi e personaggi "di svolta", bibliografia che orienta. La storia del giornalismo possiede finalmente il suo manuale. Entrando più nel merito, La democrazia della stampa - titolo "sostantivo", perché il destino dell'una è indissolubilmente legato a quello dell'altra, e nel contempo di buon augurio, perché sottolinea l'attualità del ruolo della stampa stessa - costruisce passo dopo passo la fisionomia di una disciplina autonoma e con una sua pe-riodizzazione, scandita dagli stretti legami tra invenzione tecnologica, diffusione dell'alfabetizzazione, compimento degli stati nazionali, affermazione dei diritti, definizione del profilo professionale degli addetti. La riflessione di Bergamini, facendo convergere questi fattori, trascina il giornalismo nella lista dei tratti iden-titari dell'Europa moderna e dentro gli aspetti specifici della cultura occidentale, con le sue basi saldamente poste nell'età moderna e il suo sviluppo confinato in una "post-modernità" che inizia nell'ultimo ventennio dell'Ottocento. A questa altezza cronologica si attesta infatti l'atto di nascita del giornalismo moderno: si afferma la cultura della notizia - la notizia merce, la notizia prodotto - che sottrae alla politica la sua centralità. Bergamini argomenta con precisione questo snodo cruciale: la storia del giornalismo moderno è la storia della rappresentazione di un mondo simbolico interessante per un lettore che richiede l'informazione necessaria a esercitare il proprio diritto di cittadinanza. Questa rappresentazione, tuttavia, è continuamente contesa tra i grandi poteri (il politico, il finanziario, l'economico, tutti sempre più pervasivi), l'affermazione dei nuovi media, l'aumento delle richieste di intrattenimento e di evasione. Il mondo di prima, il mondo in cui i giornali hanno avuto la funzione di mobilitare, di educare alla politica (si vedano i politicai papers americani e la stampa mazziniana in Italia) tramonta con sensibili varianti nei singoli contesti nazionali, che Bergamini ricostruisce mettendo in evidenza somiglianze e differenze tra le varie realtà e dedicando spazio alla storia del giornalismo americano (lo storico degli Stati Uniti travalica i soliti confini dalla penny press allo user paper, raccontando anche il prima e il dopo). Il volume sfocia infine in una riflessione motivata sul destino attuale del giornalismo. Pagine interessanti e "internazionali" sono riservate all'adattamento del reporting di guerra dal Vietnam all'Iraq, con la relativa transizione dalla dimensione statuale a quella globale. La ricostruzione delle radici storiche giustifica questa parte finale, che ha il senso di far emergere i limiti di un medium vecchio costretto a fare i conti con la rivoluzione digitale, con il mondo in cui "tutto è bit", ma che, proprio per il suo carico di tradizione, ha ancora qualcosa da dire, anzi da scrivere. Juan J. Linz SISTEMI TOTALITARI E REGIMI AUTORITARI Un'analisi storico-comparativa ed. orig. 2000, trad. dall'inglese di Marco Bassani e Marcella Mancini, introd. di Alessandro Campi, pp. 484, €25, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2006 Nato a Bonn nel 1926, ma vissuto in Spagna negli anni della propria formazione, Juan J. Linz fu allievo dello scienziato politico weberiano Francisco Javier Conde, dal quale ricavò gli elementi essenziali di una caratterizzazione tipologica del regime autoritario, di cui la Spagna franchista era un esempio. La carriera universitaria di Linz proseguì poi negli Stati Uniti, dove la sua fama giunse all'apice grazie a un lungo articolo pubblicato nel '75 all'interno del prestigioso Hand-book of Politicai Science, nel quale proponeva di distinguere tre tipi di comunità politiche non democratiche: 1 ' " autoritarismo ", il "totalitarismo" e i "regimi politici legittimati dalla tradizione". I sistemi totalitari, a loro volta, potevano essere "ideologici", "di partito" e "di potere", a seconda del peso relativo assunto al loro interno dai tre elementi essenziali del totalitarismo, vale a dire l'ideologia, il partito unico di massa e la concentrazione del potere nelle mani di un individuo e dei suoi collaboratori. Venticinque anni dopo Linz ha rielaborato la propria classificazione fondamentale, presentandola nei seguenti termini, che paiono sufficientemente espliciti da non richiedere ulteriori spiegazioni: "autoritarismo", "totalitarismo", "sultani-smo", "post-totalitarismo". Nella letteratura politologica, comunque, l'autore può essere considerato soprattutto, come mette in luce Alessandro Campi nell'introduzione, l'inventore del modello del regime autoritario; significativa, in particolare, è la scelta del termine "sistema" per il totalitarismo, che ingloba la società nel suo complesso, e di "regime" per l'autoritarismo, che ha quali caratteri propri un limitato pluralismo politico, la mancanza di un'ideologia guida, l'assenza di un grado ampio e intenso di mobilitazione e la presenza di un leader che esercita il potere entro limiti in pratica ben prevedibili. Sulla base della comparazione storica Linz distingue poi diversi sottotipi di regimi autoritari: quelli burocratico-militari, quelli di statalismo organico (che tendono a cavalcare forme di mobilitazione popolare secondo formule organiciste e corporative, come fu il caso del Portogallo di Salazar), quelli di mobilitazione nei paesi in lotta per l'indipendenza dal dominio coloniale, quelli di mobilitazione in società post-democratiche (come l'Italia fascista), le democrazie razziali (il Sudafrica) e infine i regimi autoritari post-totalitari. L'analisi di Linz, dunque, è un tentativo, nel solco del classico impianto metodologico della scienza politica, di individuare una precisa "tipologia" delle forme politiche non democratiche. Tentativo che ha però conseguenze di rilevante importanza, anche al di là delle classificazioni accademiche. Ad esempio nella comprensione del fascismo italiano: il termine "totalitarismo" fu adottato dagli stessi fascisti, ma il regime di Mussolini, secondo Linz, pur avendo "intenti chiaramente totalitari" fu nella sostanza un "totalitarismo interrotto" (viene ripresa qui la nozione del "totalitarismo imperfetto" elaborata dalla storiografia italiana). Il coevo regime giapponese respirò "lo Zeitgeist del fascismo globale", pur rimanendo però un autoritarismo burocratico-militare. Su queste basi, Linz affronta inoltre le discusse tesi di Ernst Nolte: lo studioso tedesco, a suo parere, ha giustamente sottolineato l'importanza della reazione europea al comunismo, ma sbaglia nel considerare l'anticomunismo sostanzialmente come unico motore del totalitarismo nazista. "L'anticomunismo -afferma Linz - poteva condurre, come di fatto avvenne in numerosi paesi, a regimi autoritari e repressivi, ma non a un sistema totalitario". Anche da questa "correzione" dell'impianto interpretativo di Nolte risulta evidente la prospettiva "anti-rivoluzionaria" di Linz, che lo avvicina per molti versi, come osserva Campi, ad Aron e a Furet: la contrapposizione mortale del Novecento non è stata quella tra la tendenza rivoluzionaria comunista e quella fascista, bensì quella tra la democrazia liberale e tutti i suoi nemici. E come nella riflessione sui regimi non democratici l'autore è stato attento a non perdere di vista la complessità dei fattori in gioco e dei loro possibili esiti, così il consolidamento democratico, grande questione tornata alla ribalta con la conclusione del ciclo storico novecentesco, non può, a suo avviso, essere affidato semplicisticamente a un solo aspetto, sia esso la procedura elettorale o i meccanismi del mercato, bensì occorre prendere in esame il funzionamento della società civile, il grado, di strutturazione della società politica, il rispetto della legalità da parte di tutti gli attori, la presenza di un apparato burocratico razionale e l'istituzionalizzazione di un mercato socialmente e politicamente regolato. (G.B.)