e Mescolando fantastico e quotidiano Scaglie di grana con motosega di Andrea Cortellessa Luca Ricci L'AMORE E ALTRE FORME D'ODIO pp. 141, €11, Einaudi, Torino 2006 La tattica di Ricci entra in azione alla quarta pagina del racconto iniziale Fantasma, quaderno. In un opaco interno borghese, una tensione sottile ma insostenibile si viene a creare - senza alcun congruo motivo - fra un io narrante, marito, e un altro, moglie. Nessuna fisionomia, nessuna psicologia. Niente cause, solo effetti. Il racconto, semplicemente, non si dà tempo per le cause: come un origami, semplice e delicato, si ripiega in tre lievi scatti. Perfettamente immotivato, così come ha avuto inizio, dopo sei pagine finisce. L'io-marito s'ingozza d'una pizza acquistata a domicilio, dando le spalle all'altro-moglie. "Pensavo in generale, in astratto, ma non ebbi il tempo di concludere la riflessione: mia moglie arrivò da dietro, come una saetta". Pausa. Stacco di capitoletto. "Mi svegliò il rumore della motosega". Con quest'a- leggiante sospetto di violenza (la moglie si muove "come una saetta"), l'apparizione della motosega fa immaginare sviluppi granguignoleschi, da vulgata splatter. Invece no; la motosega, ci viene spiegato subito, è quella di qualcuno che dà "una sistemata al giardino". Solo che poi dell'al-tro-moglie non si fa più menzione. Una violenza si esercita, in effetti, ma (almeno in apparenza) non su chi ci aspettiamo debba subirla (o meglio, l'abbia già subita). L'io-marito schiaccia una lucertola, che "muoveva la testa a piccoli scatti", con due colpi di mattone. Poi trascrive questi suoi piccoli gesti ed esce dalla casa-pagina. Non prima di notare che "il cartone della pizza era sempre a terra. Le scaglie di grana e la rucola imbrattavano il muro". Cosa è avvenuto? Non lo sappiamo. E dato solo sospettarlo, appunto. Fatte le debite proporzioni, il silenzio narrativo fra la mossa della moglie e il rumore di motosega ha lo stesso valore, se non la stessa funzione, dello spazio bianco memorabilmente celebrato da Proust (e di recente ripreso da Carlo Ginzburg), fra due capitoli del-l'Educazione sentimentale. Al- cuni dettagli (dalla lucertola schiacciata al "fantasma gonfiabile" clic d'innesco del libro; si può anzi credere che il dissidio fra i coniugi inizi quando la moglie si entusiasma del balocco e lo "abbraccia come se fosse una cosa viva") fanno pensare a Landolfi: alla miscela di fantastico e quotidiano di cui ha parlato una volta Zanzotto a proposito della Pietra lunare. Certo, un Landolfi ben strano: con questa lingua cauterizzata, ridotta quasi al grado zero. Che rifugge da qualsiasi ispessimento restando, tuttavia, sorvegliatissima (Guido Davico Bonino nel risvolto parla di "uno stile minuzioso e traslucido": per una volta, non una formula pubblicitaria). Qualcosa di inimmaginabile, si dirà: se non ci fosse Luca Ricci, appunto, a mostrarcelo. Proseguendo in questa lettura lenta, diciamo circospetta, ci si rende conto che quello di Ricci è un vero e proprio metodo. Anzi, per l'appunto, una tattica. I suoi interni domestici sono sempre (com'è detto all'inizio di Diciassette sedie) "un campo di battaglia". Ma della battaglia assistiamo solo ai preparativi, o ai suoi postumi. Per lo più non viene mostrata alcuna violenza, non entra in scena nessun elemento meraviglioso, enigmatico o appunto "fanta- stico" (le rare volte in cui accade, come in Degenza - nel quale un ricoverato per futili motivi viene turbato da un urlo straziante che par essere solo lui a sentire - il "mistero" non sfugge allo stereotipo, in questo caso buzzatiano; altro piccolo scivolone è Ultimi fuochi). Il perturbamento, proprio al contrario, si produce con l'omissione - da una situazione del tutto convenzionale, di regola ricondotta infatti al sempiterno teatrino della coppia borghese - di un particolare, in sé e per sé insignificante, attorno al quale ruota tutta la micro-vicenda. Cosicché il suo manifestarsi conclusivo, anche se non ha proprio nulla di "meraviglioso", sorprenda e appunto perturbi (esemplare il finale della Casa di fronte). Oppure 1'"oggetto" viene omesso del tutto: il racconto tende a una risoluzione traumatica che però non si produce, e la suspense resta per così dire inevasa (si veda il non meno che perfetto Ancora due minuti). A turbare, a ben vedere, non è dunque l'estraneità di un elemento all'interno di una serie, bensì il semplice fatto che nella serie venga isolato un elemento. Basta poco, pochissimo per innescare questo meccanismo, letteralmente niente. L'ho definito "meccanismo", e in casi come questi - di estrema economia di mezzi, di assoluto rigore esecutivo - il rischio, si capisce, è proprio quello del meccanicismo. Il miracolo - piccolo miracolo, in tutti i sensi "di misura", non di meno un miracolo - è che Ricci questo rischio lo evita sempre. A dispetto delle evidenti memorie letterarie, non c'è dubbio che si tratti di uno scrittore originale. Dopo l'esordio, l'anno scorso da Àlacràn, con un libro a questo molto simile (Il piede nel letto) - del quale non a caso trasmigrano qui tre episodi - non gli si possono che fare i migliori auguri. Senza mancare di prospettargli però, sadici, il dilemma che si pose a un certo punto proprio a Landolfi, dopo tre o quattro libri di racconti "perfetti". Che fare, dopo? Lecito rispondere che è davvero presto, per farsi tale domanda. Averne, in ogni caso, di problemi come questo. ■ cortellessa@mclink.it A. Cortellessa è dottore in italianistica all'Università "La Sapienza" di Roma Fatti in casa Alberto Cavaglion, Notizie su Argon. Gli antenati di Primo Levi da Francesco Petrarca a Cesare Lombroso, pp. 160, € 12, Instar Libri, Torino 2006. Angelo Morino, Rosso ta-ranta, pp. 173, € 10, Selle-rio, Palermo 2006. Paolo Vineis, Equivoci bioetici, pp. 128, € 15, Codice, Torino 2006. Ogni giorno uno sfratto di Vincenzo Aiello Luigi Compagnone GLI ULTIMI PALADINI E ALTRI RACCONTI a cura di Raffaele Messina, pp. 127, €8,60, Guida, Napoli 2006 Chi ha amato lo scrittore Luigi Compagnone, scomparso ottantaduenne nel 1998, non può lasciarsi sfuggire Gli ultimi paladini e altri racconti, a cura di Raffaele Messina. Questo perché è la prima volta che i materiali narrativi che vanno dal 1947 al 1953, antecedenti l'uscita del suo primo successo {La vacanza delle donne, 1954), vengono raccolti in volume. Se è vero che la "narrativa - rispetto alla lirica - è in più rapida maturazione e destinata a dare frutti più rilevanti nel corso del tempo", nel ripercorrere le genesi dell'attività narrativa di Compagnone partendo dai primi racconti che pubblicò su riviste e giornali (soprattutto su "Lavoro illustrato", preso a modello della ricognizione per la sistematicità della collaborazioni e anche per gli illustri collaboratori: Maratta, Ortese, Bartolini, Betti, Comisso), ben si possono intuire non solo le adesioni a quella letteratura neorealista che Compagnone aveva sposato in quegli anni, ma anche le sue scelte stilistiche, celate, ma visibili agli occhi allenati di Messina. Solo il primo racconto della raccolta, Mangani Cicluni Amendola, fu ospitato dal "Risorgimento" di Corrado Alvaro, narrando di emigrazione intellettuale calabrese, tema caro all'autore di Gente in Aspromonte. Bello anche - nella sua solo apparente, ortodossa corrispondenza gramsciana - Conducenti di muli, che ci riporta a una sapienza antica, precognitiva. Fortuna al figlio che è nato è invece il ritratto "della paura che genera figli" di un padre di quel proletariato urbano che scommette su una figliolanza con poche lire in tasca in quell'esclamazione - "Se bisognava altro?" - che è già una promessa di futuro. Ma quello che scalda di più i cuori è proprio il racconto che dà il titolo alla raccolta: Gli ultimi paladini. La famiglia di Michele Fracassa in un inverno che arriva improvvisamente una sera ha il problema dell'alloggio. Questa precarietà costringe il capofamiglia e sua moglie, eternamente scarmigliata, a un frequente andirivieni - "Ogni giorno è uno sfratto" - che porta poi alla tragedia della perdita della famiglia sotto una frana che induce il padre senza figli e senza speranza a un lamento antico gridato a ima madonna laica. C'è forse in questo racconto traccia del quartiere dove nacque Compagnone nel 1915 (vi nacquero anche Mastria-ni e Totò): quello della Stella, che forse più di tutti i quartieri napoletani racchiude il senso di una città intera, "che chi non ne sente il terribile fascino non sarà mai in grado di capire nulla". ■ Armando Petrini, Dentro il Novecento. Un secolo che non abbiamo alle spalle, pp. 192, € 19, Zona, Arezzo 2006 Nato a Torino nel 1967, Armando Petrini fa di mestiere in Torino lo specialista e docente di storia del teatro. Ma fuori sede, in Val di Chiana, Arezzo, ha pubblicato questo volume di scritti attuali e un po' speciali. Sono cinque saggi del 2003-2005, destinati a occasioni e situazioni concrete e varie, conferenze convegni iniziative del Dams. La tesi unificante, secondo la quale il Novecento ci ha consegnato le durevoli categorie di contraddizione e dialettica, è esposta nella nota introduttiva e confermata poi dalla coerenza dei cinque saggi. Ma quel che più interessa, mi pare, nella raccolta è lo sconfinamento: la ricchezza intellettuale disseminata, la trasversalità che per frammenti e lampi può spostarci, metti, da Pirandello al Sessantotto, da Benjamin a Pansa. Due atteggiamenti o forme di ricerca mi sembrano esemplari e trasferibili. L'interesse per l'extra-testo e l'intento di comprendere in tutti i sensi realtà e cultura, impiegandovi però e facendo agire le proprie competenze. Un esempio si ha nel giudizio su 11 sangue dei vinti di Pansa. La concettualizzazione che Petrini utilizza, per interpretarne i motivi profondi, è il cinico-frigido e gli viene da Carmelo Bene, che l'elaborò e se ne servì durante una riflessione sul giornalismo. Il cinico è facile da usare. Ma è la coppia che l'arricchisce. Il frigido apre su questo Pansa una prospettiva di contrasto con i correnti luoghi comuni e con la soggettiva verità e autorità dell'autore. La perdita della passione implica infatti, secondo Bene-Petrini, un decorso infelice e la resa all'esistente, "vissuto come unico orizzonte possibile". E una considerazione da pensarci, un bell'effetto teatrale, e anche il cinico Pansa ne risulta malinconicamente nobilitato. Michela Volante, Uno a testa, pp. 231, € 16, Frassinelli, Milano 2006 S'incomincia con un ammazzato, "il numero uno dell'uno a testa", a cui risponde "da qualche parte del mondo" l'urlo di gioia dello scommettitore. E l'ultimo chi sarà? Michela Volante, torinese del 1975, laureata sulla letteratura femminile del primo Settecento, nel primo romanzo, Domani andrò sposa (Frassinelli, 2004), raccontava la vita della poetessa arcade Petronilla Paolini Massimi, inserendosi così nella riscrittura del romanzo storico, un genere fra i più tipici (anni fa) dell'innovazione femminile. Per questo secondo romanzo ha scelto invece diversamente. Dagli studi storici è passata alle ipotesi sul futuro, e in un tema, la politica, e in un genere, la fantascienza, poco praticati dalle scrittrici. Fantascienza sociologica, e il titolo che viene meglio in mente è Le città che ci aspettano di Roger Elwood, un "Urania" del 1974. Ma Michela Volante ha l'esperienza della nostra contemporaneità e attualizza perciò con bravura le fondamentali paure dei viventi. È di noi che si parla, è nostro quell'urlo. In Uno a testa è accaduto che la Repubblica Commerciale, lo Stato totale e globale, abbia concesso per legge il diritto di sparo, a ciascuno il suo ammazzato. "È la banalizzazione dello sparo, la sua comodità a farmi paura", riflette un certo Sean Lamb-son, biologo marino. Mestiere eccentrico, che lo predispone alla parte dell'eroe che pensa, antagonista e protagonista. Sul resto della vicenda basti sapere che è genialmente punteggiata di dettagli e rapide intuizioni. Una è come, nella novità dello Stato selvaggio e legalizzato, riemergano tutti i vecchi modi e posti e mestieri deputati alla trasgressione. Vedi Sean che va alla tavola calda fumando per strada e nel locale e scolandosi due birre. "L'aria era sudicia di tabacco e sullo spiedo la mole di carne grondava grasso". Attrito fra sparo e tabacco. Felice (settecentesca) ironia di Michela Volante sugli imperativi e i fondamentalismi dei nostri costumi. LUCA IttC CI wAMSm » AWttR ft>»M8 O OOIO 'ippr