, rimdicf * Ibdei LIBRI delmeseB^H Storia La categoria della doppia fedeltà di Francesco Germinario Giuseppe Parlato FASCISTI SENZA MUSSOLINI Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948 pp. 438, €25, il Mulino, Bologna 2006 Anche se alcune delle critiche che già sono state rivolte a questo libro sembrano da accettare, come, ad esempio, la sottovalutazione della presenza di neofascisti nell'organizzazione della strage di Portella della Ginestra, a noi pare che il lavoro di Parlato sia rigoroso e documentato, costruito su un buon uso delle fonti a stampa, ma soprattutto di quelle d'archivio, considerato che parte significativa della ricerca si regge sulla consultazione della mole consistente dei quasi mai spogliati archivi privati dei dirigenti missini depositati presso la Fondazione Ugo Spirito. In ogni caso, mentre finora non erano mancati gli studi di impianto politologico (come quelli di Piero Ignazi), a fronte di una memorialistica dei leader missini vasta quanto reticente per i motivi che si diranno, questo volume costituisce la prima opera storica sull'argomento. Esso gode quindi del vantaggio di addentrarsi in maniera profonda su un campo quasi del tutto sconosciuto. A destra è stato accolto da diverse discussioni, cui è seguita, nel giro di poco tempo, una spessa coltre di silenzio. Et pour cause-, l'area politica che per un quindicennio ha costituito la plebe plaudente del cosiddetto "revisionismo storico" in versione italiana sembra essere stata messa in rotta e annichilita dalla revisione dei luoghi comuni della memoria storica missina condotta dalla ricostruzione di Parlato. Lo storico tiene assieme molti fili, seguendo il percorso di personaggi, testate, gruppi legali, più o meno effimeri, o semilegali e anche del tutto clandestini. La sua potremmo definirla una ricostru--zione "lunga" delle origini del Movimento sociale, in quanto muove i primi passi dall'estate del 1943. Fin qui la parte del quadro che potrebbe soddisfare il palato dei lettori della destra, in quanto sottolinea le difficoltà in mezzo alle quali quell'area politica venne a ricostruirsi dopo la sconfitta del '45, e l'alterità politica, culturale e antropologica, che la destra medesima aveva rivendicato fino a Fiuggi (e anche dopo Fiuggi). Il problema è che Parlato disegna anche un'altra parte del quadro, a nostro avviso la più pregnante sotto l'aspetto storiografico: quella di un'area osservata, protetta e fi- nanziata dai servizi segreti americani, dagli ambienti ecclesiastici e da qualche loggia massonica. E i contatti - ma questo era già a conoscenza degli storici - rimontano addirittura al 1944, ai primi rapporti di agenti americani con Borghese, idolo delle milizie della Repubblica sociale, mito dei reduci e della base missina negli anni successivi. Su entrambi i fronti, neofascista e americano, si muovono militari, agenti segreti e politici dotati di una lungimiranza che li conduceva a intuire che lo scenario politico futuro del dopoguerra sarebbe stato contrassegnato dallo scontro fra sovietici e americani, con la necessità, da parte di questi ultimi, di affidarsi anche all'opera degli ex nemici fascisti. Beninteso, nulla di particolarmente sconvolgente per lo storico, persino quando si trova a ricostruire i rapporti in funzione anticomunista fra alcuni ambienti di reduci della Rsi e l'odiato "cagoia" Nitri. E però l'immagine di alterità e di diversità, coltivata per decenni da militanti e dirigenti, a saltare, perché quella che sarebbe stata per un quarantennio la classe dirigente missina, a cominciare dal politico che agisce da elemento propulsore nella fondazione del Msi, Pino Romualdi, nasce contrassegnata da rapporti con gli apparati dell'intelligence occidentali. Il neofascismo viene ripensato da questi settori come una sicura e affidabile area politica da mobilitare in funzione anticomunista; e gli stessi neofascisti, del resto, nei primi anni operarono in attesa che scoccasse il momento di un'insurrezione comunista. Non fu, quello neofascista, un puro opportunismo motivato dalla necessità di uscire dalla (semi)clande-stinità; i rapporti con gli apparati statali stranieri trovano piuttosto la loro origine più profonda nella radicata disponibilità neofascista a farsi reclutare in funzione anticomunista. Su queste origini, contrassegnate da notevole ambiguità, per anni è stata appunto stesa una cappa di silenzio. Se, infatti, sul piano della propaganda, il Msi coltivava slogan terzafor-zisti ("Europa nazione"), rivendicando un'anima "sociale" (lo "Stato del lavoro" ecc.), si conferma ora, absit iniuria verbis, che era nato come un partito "amerikano". Indicativo è proprio il caso di Pino Romualdi. Colui che dà vita al partito è un militante alla macchia al centro di rapporti politici e personali a dir poco equivoci. Ebbene, proprio Romualdi non riuscì mai a diventare segretario del Msi, per evitare che quei passati rapporti fossero utilizzati contro di lui quale arma di ricatto. Come osserva Parlato, segretario missino Romualdi "non lo divenne perché non lo volle; ma non lo volle diventare perché probabilmente sapeva benissimo a quali scenari sarebbe andato incontro". Ma c'è un altro aspetto della personalità politica di Romualdi che emerge dalle pagine di Parlato. Nella memoria storica del partito, quella di Pino Romualdi è stata una figura celebrata, ma collocata sempre in secondo piano rispetto a quella di Almirante. La ricostruzione di Parlato fa definitiva giustizia dell'agiografia e della memoria storica. Si verifichi nell'indice dei nomi la frequenza con cui compare il nome di Romualdi: è più del doppio rispetto alla frequenza con cui compare il nome di Almirante. Mentre la stessa ascesa di Almirante alla carica di segretario fu molto casuale, Romualdi, absit semper iniuria, è al tempo stesso il Bor-diga e il Gramsci del Msi, nel senso che l'ex vicesegretario del Partito fascista repubblicano comprende che gli spazi politici e l'udienza del nuovo partito non potevano ridursi ai reduci, ma erano da estendere anche all'area moderata. Da qui la scelta di rinunciare alla linea eversiva, dando vita a un partito "a tutti gli effetti visibile e destinato a correre nell'agone della democrazia e dei suoi valori". Nell'ipotesi di Romualdi la classe dirigente poteva anche essere costituita da reduci; ma il Msi non poteva essere un partito di reduci: "Gli stessi richiami a Salò si dovevano stemperare in un'ottica occidentale che avesse ben presenti i problemi dell'Italia del dopoguerra". Beninteso, il giudizio storiografico crudo e disincantato sui rapporti di quasi tutti i dirigenti missini con servizi occidentali e, in qualche caso, la massoneria, non deve comportare scandalo. E tuttavia implica almeno tre conseguenze. Intanto, anche il Msi rientra a pieno titolo nella categoria della "doppia fedeltà": nel suo caso, fedeltà alle matrici ideologiche della Rsi e al blocco politico mondiale occidentale. Inoltre, proprio queste origini proiettano luce sulla strategia della tensione un ventennio dopo. Un partito nato con questi rapporti equivoci era storicamente voca-to a partecipare, attraverso alcuni suoi militanti o pezzi di area politica che in esso si riconoscevano, ai momenti più oscuri e drammatici della storia repubblicana. Il terzo è che l'anima "sociale", ovvero la pretesa di porsi quale terzo polo alternativo al blocco comunista e a quello atlantico, diveniva poco più di un vuoto orpello ideologico: da ciò saranno probabilmente originate, nei decenni successivi, le numerose liti, le scissioni e fuoriuscite da parte di settori nazionalrivoluzionari e socialisti nazionali, dagli ordi-novisti al Partito nazionale del lavoro di Massi. Insomma, nel caso missino la memoria storica risulta essere ben altro dalle vicende così come si sono effettivamente svolte. " f.germinario@libero.it F. Germinario è ricercatore presso la Fondazione Micheletti di Brescia Non fu un bluff di Marco Palla Gianpasquale Santomassimo LA TERZA VIA FASCISTA Il mito del corporativismo pp. 317, €28, Carocci, Roma 2006 L'autore ha dedicato in passato numerosi studi al tema che ora affronta in un volume organico nel quale rifluiscono ricerche svolte da molti anni. Se la cultura di tradizione marxista ha spesso ridotto il fascismo a "variante" del capitalismo ciò è forse avvenuto per il timore non dichiarato di riconoscere al fascismo stesso una sua "dignità" originale; e, d'altro canto, il rifiuto di riconoscere da parte della tradizione liberale e azionista l'esistenza stessa di una cultura fascista ha analogamente provocato un ridimensionamento del fascismo a pura empiria "muscolare". La "terza via" fascista tendeva a dare una risposta alla drammatica necessità reale di intervenire nella crisi tra le due guerre e, particolarmente dopo il crollo del 1929, nei vecchi equilibri tradizionali delle economie di mercato basati sulla mano libera e invisibile della virtuosa autoregolamentazione, cercando al contempo una soluzione che costituisse una sfida nei confronti dell'ipotesi collettivistica posta in essere nell'Urss. L'antipolitica fascista proponeva cioè una radicale sostituzione della rappresentanza tradizionale (suffragio universale, diritti dell'individuo, parlamento) con una nuova rappresentanza del mondo produttivo, delle categorie, dei ceti e delle professioni. E dunque la soluzione fascista era in rebus ipsis tanto anticomunista quanto antidemocratica. Il fenomeno "corporativismo" si presentò tuttavia nel periodo fascista come uno dei più dibattuti e fortunati esempi di elaborazione dottrinale e di propaganda internazionale. Meno evidenti, e in definitiva poco consistenti, furono al contrario le cosiddette realizzazioni corporative, che fornirono alla dittatura - ben centrata sull'asse stato-partito - l'estetica appariscente dello stato sindacale-corporativo, inteso come stato essenzialmente e radicalmente "nuovo". Quella novità era in buona parte una velleitaria pretesa, ma l'autore dimostra efficacemente che non era però solo un bluff e che, nonostante contorsioni e sussulti, il corporativismo fu, anche nella realtà, la componente più originale della ricerca fascista di una "terza via", altra sia dal liberalismo che dal socialismo, sia dall'Occidente capitalista e "plutocratico" sia dall'Oriente sovietizzato. In particolare, tra le due guerre mondiali, ma in modo signifi- cativo in tutta la prima metà del XX secolo, la lotta incessante di tre miti (il liberista, il collettivista e il corporativo) segnò l'intera epoca storica della contemporaneità. Dato che molte altre componenti ideologiche fasciste erano definibili solo per contrapposizione negativa, il corporativismo finiva per risultare un'affermazione positiva di valori e di indicazioni operative di "fuoriuscita" dalla crisi generale che Mussolini affermava essere "del" sistema e non interna "al" sistema. L'Italia fascista, che senza dubbio fu meno radicale e avanzata nelle sue pulsioni e tendenze totalitarie rispetto alle esperienze sia nazista sia sovietica, ebbe con il corporativismo un altrettanto indubbio primato ideologico, potendo presentare al fascismo internazionale un suo mito più radicale, attraente e "moderno" di quanto non fossero lo stesso razzismo nazista o, nell'altro campo, la prospettiva leninista della dissoluzione dello stato e della società divisa in classi. Diverso dai meri marchingegni conciliativi e paternalistici della dottrina sociale della chiesa e dell'interclassismo corporativo di matrice cattolica, il corporativismo fascista rispose a suo modo alle nuove esigenze produttivistiche di relazioni industriali non necessariamente e aspramente conflittuali fra capitale e lavoro, e fornì una cornice dottrinale, a suo modo "elevata", alla prassi fascista di disciplinamento e anche di peculiare "socialità" autoritaria. Fra tanto parlare di "occasioni mancate", quella colta tramite il corporativismo dalla borghesia italiana durante il ventennio fu piuttosto un'occasione realizzata (salvo il suo catastrofico esito finale) di ottenere la pace sociale all'interno del paese e di proiettarlo all'esterno nelle avventure imperialistiche, dando compimento a una non improvvisata volontà di conseguire lo status di grande potenza. Nel volume si passano in rassegna le principali vicende sia politico-legislative sia culturali della parabola corporativa, e sono particolarmente apprezzabili una serie di ritratti equilibrati e acuti dei maggiori e minori protagonisti - con la singolare assenza o laconicità di Mussolini - dei dibattiti e delle polemiche corporativiste (Giuseppe Bottai e Alfredo Rocco, Ugo Spirito, Massimo Fovel, Nello Quilici, Giulio Colamari-no), con l'adeguata registrazione delle reazioni degli economisti classici o della polemica Croce-Einaudi su liberalismo/liberismo. Per lo spessore delle ricerche, per la qualità dell'attenta esegesi delle fonti, per la sicura sintesi interpretativa delle valutazioni e dei giudizi, questo libro merita una segnalazione fra i più importanti della bibliografia sul tema. " marco.pallaSunifi.it M. Palla insegna storia contemporanea all'Università di Firenze La terza via fascista U «fe» M èw^aMviSR® «iasìpas^jàls Safi&mèssfefto I