Narratori italiani Surrealismo analitico di Giuseppe Traina Lucio Klobas PASSO FELPATO pp. 207, €9,30, Greco & Greco, Milano 2002 Gminciamo dalla quarta i copertina: "Un uomo che non c'è si butta nel fiume. Un uomo fa irruzione con la forza a casa sua. Un uomo, la mattina, non si ritrova nello specchio. Un uomo grigio si confonde con i muri grigi. Un uomo dorme sempre. Un uomo vive su un albero per osservare fenomeni primordiali. Un uomo viene divorato nella notte. Un uomo si trasforma in un calendario umano. Un uomo perseguita altri uomini per restare solo al mondo. Un uomo telefona a se stesso. Un uomo cerca di catturare un fantasma. Un uomo fugge dal mondo. Una città che non esiste". Questi gli argomenti dei racconti che Lucio Klobas ha raccolto in Passo felpato: l'autore istriano, ma bergamasco d'adozione, rimane in tal modo fedele al surrealismo analitico dei suoi libri precedenti - da Silenzi collettivi (Theoria, 1988) a Macchinazione celeste (Garzanti, 1990) a Orari contrari (Theoria, 1994), per citare solo alcuni titoli di una produzione ampia e regolare, declinata anche sul versante della poesia (l'ultima silloge è L'aria che tira, Campanotto, 2002). Ancora una volta il catalogo di nevrosi redatto da Klobas prende spunto dalla minima realtà d'ogni giorno (in Irruzione improvvisa rientrare in casa propria comporta l'ansia di trovarvi nascosto un nemico, sicché si rende necessaria un'occupazione manu militari del proprio appartamento), dalle fantasticherie più autistiche (in Perseguitare tutti la voce narrante si dice dedita allo sterminio di tutti gli altri esseri viventi - un "impegno che non solo ritengo sacro e doveroso (nonché oneroso), ma addirittura moralmente ed eticamente indispensabile e quindi indiscutibile nella sua puntuale e impeccabile esecuzione" - per rimanere unico padrone del mondo), da fissazioni e da paure paranoiche: tutti elementi che effettivamente si compongono in Un romanzo in tredici racconti, come suggerisce ancora la quarta di copertina e come già accadeva in Silenzi collettivi. Legato sul piano teorico alla revoca dell'idea di romanzo come macchina narrativa ben costruita e spazio bachtiniano della plurivocità, Klobas - pur senza mai aver condiviso gli estremismi di certa neoavanguardia che ha creduto fermamente nella destrutturazione del linguaggio come unica possibilità e-spressiva - ha costruito negli anni un percorso coerente di scavo monologico nei buchi neri del quotidiano: fin troppo ovvio fare il nome di Kafka come archetipo di riferimento; più probante forse il rinvio ad altre suggestioni, all'eloquio rattrappito dei capolavori beckettiani e allo sguardo freddo di Thomas Bernhard. Sono due forti influenze europee che s'innestano fervidamente - mi pare - su un'altra memoria, geograficamente più vicina ma stilisticamente un po' più tenue, diversa, che è quella dei bevi racconti surreali del giuliano Enrico Morovich. Ben oltre i limiti di una recensione, ci vorrebbe un'analisi minuziosa dello stile riconoscibilissimo di Klobas, che è garanzia dell'unità dei suoi libri, fino alla metamorfosi dei racconti in romanzo, sia pure molto sui generis - ma il discorso andrebbe allargato alla produzione in versi, prettamente antilirica e discorsiva, anche perché il problema del genere letterario nasconde una preoccupazione, anzi una vera e propria angoscia conoscitiva, come testimonia l'epigrafe prelevata da Mandel'stam ("È terribile pensare che la nostra vita / è un romanzo senza intreccio / e senza protagonista, / fatto di vuoto e di vetro, / dell'ardente balbettio di sole digressioni"). Intanto si può dire del timbro inconfondibile, chioccio e capzioso, con cui la voce narrante si rivolge al lettore senza concedergli pause, travolgendolo con un fiume di parole che rifiuta perfino la scansione in capoversi e che architetta il ragionamento (o lo sragionamento) per ampie campate sintattiche, strutturate per accumulo di sostantivi e reduplicazione di aggettivi che continuamente precisano, o fingono di precisare, ma spesso contraddicono retoricamente quanto appena detto. Infatti, sulla complessa tramatura della sintassi e su un lessico nitido ed elegante, qua e là prezioso (genuinamente incapace di volgarità e frettolosità), si stende sovrana la figura dell'ironia, quasi sempre rappresa negli incisi parentetici che punteggiano frequentemente il discorso, interrompendone il fluire quasi asfissiante. È il correttivo più proprio dell'autore, che mitiga con sghemba generosità la natura ansiogena dei suoi testi. Già a proposito delle poesie di Senza scampo (Manni, 1999), Cesare Segre scriveva: "Anche se la scena è solo mentale, se i gesti sono finti, l'orizzonte è di tragedia". Quale maggiore tragedia (non dell'individuo, ma dello sguardo collettivo inquinato alle radici dalle banalizzazioni massmediatiche) di quella splendidamente messa in scena nel primo racconto, Indagini preventive, un'allucinante inquisizione sul nulla? Nessuna meraviglia che "lo stesso Dio, quando si trova di fronte a queste cose, ai suoi infiniti specchi, alle sue molteplicità, preferisce assumere atteggiamenti defilati, insignificanti, semplici, quasi anonimi". ■ gtraina@unict.it G. Traina è ricercatore di letteratura italiana all'Università di Catania Cronache essenziali di Maurizio Griffo Ugo Ojetti COSE VISTE a cura di Toni lermano, pp. 293, €11, Avagliano, Salerno 2002 Giornalista e scrittore, Ugo Ojetti (1871-1946) è stato fra i protagonisti della cultura italiana del primo Novecento. Romano, di famiglia papalina, monarchico e dannunziano, per quanto fosse soprattutto un letterato, trovò nel fascismo divenuto regime le ragioni di un'ordinata conservazione sociale e di un'adeguata soddisfazione dell'orgoglio nazionale, che motivarono un'adesione non ideologica. La nomina all'Accademia d'Italia coronò questo impegno, ma ha nuociuto, ingiustamente, alla sua fama successiva. A partire dal 1921, e per oltre venti anni, Ojetti pubblicò, con lo pseudonimo di Tantalo, moltissimi articoli di terza pagina per il "Corriere della sera" sotto la rubrica "Cose viste", raccogliendoli poi in volumi dallo stesso titolo. Da molto tempo i sette tomi della serie non vengono più ristampati, e ora, opportunamente, ne viene riproposta una scelta. Il saggio introduttivo del curatore tratteggia un profilo attendibile e preciso dell'autore. Assai utili gli apparati che completano l'antologia: oltre all'elenco completo degli articoli della serie, abbiamo un'accurata bibliografia di e su Ojetti. Le Cose viste sono un personalissimo genere letterario che lo scrittore romano si era tagliato su misura: incontri, ritratti, visite, resoconti, ricordi, rievocazioni. Citando alla rinfusa dalla lista dei 277 pezzi abbiamo, per esempio: La bibbia di Borso, La camera di Cavour, Verdi e Pasca-rella, Pirandello chine-se antico, Via Condotti, La luna e Agrigento, La casa di D'Annunzio, ecc. Non sono semplici elzeviri. Lo stile è certo assai curato, e non mancano i pezzi di bravura. Tuttavia non è la forma, sempre accurata, ad avere il sopravvento, quanto il desiderio di riportare, certo filtrato dalla sensibilità dell'autore, un episodio, un fatto, un'osservazione. A metà strada fra la testimonianza e il reportage, le Cose viste si raccomandano come una personalissima cronaca, ricca di sfumature, dell'Italia fra le due guerre. Un documento essenziale, insomma. E non solo per la storia letteraria o per quella del costume. Ojetti, infatti, riesce quasi sempre a cogliere il Archivio colore di un periodo, a fissare un'atmosfera effimera. In definitiva, oltre che una singolare performance letteraria, gli articoli di Ojetti sono una fonte cui lo storico può fare ricorso per trovare quelle sfumature d'ambiente e quel clima di un momento che spesso non si trovano nei documenti ufficiali o persino nelle testimonianze dei protagonisti. Si vedano, a tal proposito, i pezzi sulla grande guerra, che Ojetti visse come ufficiale dello stato maggiore. E, in particolare, il ritratto di Cadorna, e il pezzo sul dopo Caporetto. Ma esemplari sono anche, per esempio, l'incontro con Salvemini in carcere nel 1925 o la visita alla casa di Garibaldi a Caprera. Per concludere, un consiglio al potenziale lettore. Il curatore, oltrepassando l'ordine soggettivo della cronologia, ha incasellato i pezzi tematicamente: città e luoghi, personaggi, ecc. Suggeriamo di scompaginare quest'ordine, necessario ma riduttivo, e di leggere trasversalmente, saltando dal ritratto alla descrizione, al ricordo, all'aneddoto, in modo da recuperare quel piacere di pacifico vagabondaggio che la lettura dei singoli volumi di Cose viste offre. ■ magriffo@libero. it M. Griffo è ricercatore di storia delle istituzioni politiche all'Università di Napoli di Lidia De Federicis Si parlò poco del maestro elementare di Vigevano Lucio Mastronardi, quando morì suicida il 29 aprile del 1979, anno di assassini. E come poteva interessare un reperto del miracolo economico e delle controversie sul realismo, su realismo e avanguardia, avanguardia e sperimentalismo? Un'impolitica soluzione personale in mezzo all'urto dominante della politica? (Uccisi nei primi mesi dell'anno da terroristi di Prima linea e delle Brigate rosse l'agente Giuseppe Lorusso a Torino, l'operaio Guido Rossa a Genova, il magistrato Emilio Alessandrini a Milano; e a Roma il giornalista Mino Pe-corelli, delitto oscuro). Però a maggio uscì il primo numero di "alfabeta". Tra i libri di fine d'anno Mondadori pubblicava A che punto è la notte?, il secondo, postmoderno, romanzo di Frutterò & Lucentini. Poi ci fu subito II nome della rosa di Eco. Nuova letteratura, mutata letteratura. Mastronardi non era professore. A lui conviene invece il profilo del ribelle "indifeso e fuggitivo" che ne ha tracciato Giovanni Tesio, presentando la raccolta A casa tua ridono e altri racconti (pp. 272, € 9, Einaudi, Torino 2002). Era uno spericolato, che s'esprimeva con le intemperanze e i fallimenti, con il gesto oltre che con il dialetto. (E a proposito del suo italo-pavese anche la formula di Gianfranco Contini, del "barbarismo fonico", sembra coglierne l'aspetto materico: materico dunque in lingua e in vita). Di tale esposta soggettività il perturbato Mastronardi era consapevole, e questa appunto avrebbe voluto poter valorizzare da scrittore. La raccolta attuale copre la seconda fase della produzione, dopo il distacco da Einaudi e il passaggio a Rizzoli: perciò il romanzo A casa tua ridono (1971) e dodici racconti, quasi tutti usciti in giornali e riviste, e in volume con il ti- tolo L'assicuratore (1975); s'è aggiunto in chiusura un racconto del 1962, comparso su "L'Unità", L'industrialotto. Tesio nel saggio introduttivo fa riaffiorare una porzione del passato, della scomparsa società letteraria, e avanza una proposta editoriale, un bel libro che rimetta insieme il carteggio fra Mastronardi e Calvino. Il romanzo epistolare che ne verrebbe culminò nel marzo del 1967, quando Mastronardi, ITI, scriveva: "Vogliamo, Italo, metterci a lavorare insieme? Io mi levo dal chiuso della provincia; e tu, dal chiuso della torre d'avorio". E Calvino laconico rispose il 20: "Quanto all'invito che mi rivolgi, di dedicarmi alla televisione anch'io, no, non ci penso nemmeno". Qui vengono in mente altri nomi. Giovanni Arpino che nel 1959, mentre lasciava "Il Mondo" e andava a "Paese Sera", a Calvino scrisse: "Perché non cambi? non ricominci? Se non lo fai tu, chi lo fa?". E Ottieri che esordiva nei "Gettoni" e una volta a Calvino osò chiedere: "Ma perché stai sempre zitto?" ("Preferiresti," disse Calvino, "il bla bla?"). Così vediamo formarsi, nelle relazioni d'epoca, un noto e durevole schema dicotomico: il razionale Calvino, il Calvino di taciturna autorità, contro le altrui confessate passioni, le domande inevase di scrittori ansiosi e meno autorevoli, vite che si sbattono, corpi che si buttano ai pesci (vedi Mastronardi). Ho citato: Italo Calvino, I libri degli altri, a cura di Giovanni Tesio, Einaudi, 1991 Silvio Perrella, Calvino, Laterza, 1999 (2001) Ottiero Ottieri, Una irata sensazione di peggioramento, Guanda, 2002