N. 11 Guido Crainz IL PAESE MANCATO Dal miracolo economico agli anni ottanta pp.627, €29, donzelli, Roma 2003 In primo piano L'onda lunga del '68 attraverso i documenti Solo Pasolini aveva capito di Guido Viale Con II paese mancato Guido Crainz ha disegnato un ponderoso (oltre seicento pagine, tutte peraltro leggibilissime), accurato e documentarissimo affresco di due decenni cruciali della storia d'Italia, in continuità quasi diretta con i suoi precedenti studi sfociati nel precedente volume Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta (Donzelli, 1996). Al centro di questa ricostruzione storica e del ragionamento che ne sottende l'interpretazione c'è il Sessantotto, la "felicità pubblica" improvvisamente scoperta e praticata nelle università e nelle scuole di tutto il paese, e poi, quasi senza soluzione di continuità, nelle fabbriche, a partire dall'autunno caldo, e nei processi di riconsiderazione del proprio ruolo e della propria condizione innescati da quegli avvenimenti nei settori più diversi: dalle carceri alla magistratura, dagli ospedali psichiatrici alle forze armate, dalla polizia ai media, in quella che l'autore definisce "l'onda lunga" del Sessantotto. In questa chiave interpretativa, il decennio che precede il Sessantotto viene interpretato come un periodo di preparazione e di rodaggio delle problematiche e dei temi che esploderanno a cavallo del 1970. E Guido Crainz comincia giustamente ad affrontare nei dettagli questo periodo a partire dal 1964, cioè dalla prima crisi del centrosinistra: quella che pone definitivamente fine tanto alle promesse programmatiche della nuova formula di governo, quanto allo slancio degli animai spirits del paese che avevano alimentato il miracolo economico, ma dietro la quale si percepisce già, in tutta la sua rilevanza, quel "rumor di sciabole" provocato dal Sid del generale De Lorenzo (il "piano Solo") che costituiva uno dei fili sottotraccia indispensabili per l'interpretazione di tutta la storia a venire. Analogamente, il periodo che succede ai momenti alti delle lotte autonome di studenti e operai viene interpretato come una fase di dissipazione delle passioni, delle idee, delle energie e delle iniziative concrete che avevano alimentato il Sessantotto studentesco e l'autun-ncf caldo operaio; non a caso, anche qui la storia si conclude - se si eccettua un'inutile appendice sulla vittoria italiana ai mondiali di calcio - con il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro (1978); il più grave, anche se non certo l'ultimo, episodio di quella rete sottotraccia che ha governato larga parte della storia di questi due decenni. L'incapacità o l'impossibilità di confrontarsi con la realtà di un establishment prigioniero delle proprie complicità emerge in tutta la sua mostruosa evidenza nel documento (qui commentato con le parole di Leonardo Sciascia e Adriano Sofri) con cui i vertici del governo e della Democrazia cristiana - ma non solo loro - disconoscono l'autenticità e l'affidabilità delle lettere di Moro, per poi ritrovarsi come tante mummie a un funerale di stato senza feretro, sottratto dalla famiglia a una cerimonia assurta a simbolo della Morte della Repubblica (è il titolo che Crainz dà a questo episodio). A cavallo dei due decenni l'esplosione improvvisa e dirompente delle lotte offusca temporaneamente gli elementi di continuità (che solo la meticolosità dello storico riesce a evidenziare in tutta la loro rilevanza) di questo periodo; quegli elementi che lo ricollegano saldamente sia al prima che al dopo di questa stagione della storia d'Italia. Ma essa contribuisce anche a ottundere la percezione di quello che è il vero cambiamento intervenuto nel corso di questi due decenni: cioè quella mutazione antropologica della popolazione italiana che solo lo sguardo acuto di Pier-Paolo Pasolini (il cui ritratto Crainz ha voluto riprodotto sulla copertina del suo libro) era riuscito a scorgere nel suo concreto farsi. Quella mutazione Pasolini l'aveva segnalata interpretando a modo suo uno degli esempi apparentemente più chiari dei progressi compiuti dallo spirito pubblico: la vittoria dei no al referendum per l'abrogazione del divorzio (1974). "La mia opinione - scriveva Pasolini - è che il 59 per cento dei no non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progressismo, della democrazia [... bensì] che i 'ceti medi' sono radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi non sono più quelli sanfedisti e clericali ma sono i valori (...) dell'ideologia edonistica del consumo (...) L'Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c'è più, e al suo posto c'è un vuoto che attende di essere colmato da una completa borghesizzazione. del tipo • che ho accennato (modernizzazione, falsamente tollerante, americaneggiante) ". In effetti i due decenni studiati da Crainz ereditano un paese ancora dominato da solidarietà preconsumiste, in parte preindustriali, sicuramente pre-"terziario avanzato": solidarietà contrapposte, ma entrambe e-gemonizzate da quelle che Crainz chiama "le due Chiese" (la cultura cattolica, interclassista al punto da conciliare senza soluzioni di continuità progressismo e reazione, e quella classista, di matrice socialista e comunista). E ci riconsegnano un paese ormai popolato in misura maggioritaria da quello che la storia successiva si incaricherà di configurare come l'"uomo berlusconiano": un "populismo del benestante", intriso di presunzione, arroganza, indifferenza verso il prossimo, ma anche di paure e di una congenita idiosincrasia per ogni forma di approfondimento. Ma al di là di questa mutazione antropologica - che costituisce il problema dell'oggi, e su cui speriamo che si concentrino le future fatiche di Guido Crainz, che potrebbe così completare 0 suo trittico della seconda metà del secolo scorso - è stata la meticolosità dello storico (di fondamentale importanza il lavoro svolto nell'Archivio centrale dello stato sui rapporti prefettizi sull'ordine pubblico) a permettere a Crainz di mettere in luce e documentare quello che è un tratto saliente delle continuità che hanno attraversato questi due decenni: l'estremismo reazionario di fonte istituzionale. Siamo stati abituati dalla polemica politica, dalla cultura operaista, dalla giusta sopravvalutazione delle ragioni di chi lotta per cambiare il mondo, a vedere nelle scelte e nel comportamento delle classi dirigenti nient'altro che una risposta alle iniziative dal basso: per fare un esempio, persino in quello che a tutti gli effetti costituisce uno dei tornanti fondamentali della storia di questo decennio, la strage di piazza Fontana, a cui giustamente Crainz attribuisce un peso dirimente, abbiamo sempre visto nient'altro che una reazione - oculata e rabbiosa al tempo stesso - alle insorgenze del Sessantotto e dell'autunno caldo. Ma così non è. c rainz documenta in modo incontrovertibile la continuità di una lotta di classe promossa dagli apparati statali tanto centrali che periferici (prefetti e questure), dalla Confin-dustria, dagli uomini di governo, dalla magistratura, diretta a mantenere il "popolo" e le classi lavoratrici in uno stato di soggezione permanente, di inferiorità antropologica, di disprezzo e sottovalutazione istituzionalizzata. Una lotta di classe sferrata sotto le bandiere dell'anticomunismo, ma in realtà diretta a costituire, più ancora che a salvaguardare, un ordine sociale fondato sul privilegio. Questa dinamica istituzionale, che richiama da vicino le aggressioni verbali, fisiche e legislative oggi scatenate contro gli immigrati, è sicuramente uno dei grandi motori delle trasformazioni degli anni sessanta e settanta. E ci appare oggi tanto più pervasiva quanto più minuti e marginali sono gli episodi che ne documentano la presenza ubiqua nello Zeitgeist, nel "sentire comune" (comune a chi aveva diritto di parola) dell'epoca. Un sentire comune che oggi non è difficile ritrovare sulle pagine del "Giornale", di "Libero" o della "Padania". "Moriva il genitore di un impiegato: tre giorni di permesso; di un operaio: mezza giornata", ricorda Mario Mosca. Oppure: "La scuola media è diventata scuola di popolo, si è svilita in seguito alla riforma; ora è affollata di elementi non idonei allo studio (...) L'insegnamento è sceso al livello del popolo, si è abbassato (...) La scuola media è ridotta a quello che è, una scuola post-elementare, tra poco una scuola per netturbini", ecc. (sono le testimonianza raccolte da Marzio Barbagli e Marcello Dei in Le vestali della classe media, il Mulino, 1966). O ancora: "Il più pericoloso focolaio di infestazione biologica e morale della città è stato eliminato. Era tempo" (dall'articolo Raso al suolo dalla polizia il villaggio "beat" di Nuova Bar-bonia, "Corriere della sera", 1966). Dall'altra parte, sul fronte dell'altra "Chiesa", quella dominata dalla cultura classista di matrice socialista e comunista, l'adesione alle lotte e alle istanze con cui il mondo del lavoro e le altre vittime di questa continua aggressione cercano di scuotere il giogo che li opprime è sempre imprigionata - e in gran parte sterilizzata - da considerazioni "di ordine superiore": la subordinazione all'Ùrss, protrattasi, anche se in forme meno plateali, ben oltre le date a cui la storiografia di partito fa risalire la conquistata autonomia del Pei. Ma colpisce soprattutto perché, secondo Crainz, il primo di quel coacervo di fattori che hanno fatto dell'Italia un "paese mancato" è il trasferimento graduale di questo spirito servile, di questa abitudine alla subordinazione - indubbiamente, per il tramite di un'accettazione incondizionata dell'ordine internazionale stabilito a Yalta -, dall'Urss alla salvaguardia degli equilibri sociali e politici del paese, attraverso l'ostinato perseguimento di un velleitario incontro tra le tre "grandi componenti" della società italiana (quella cattolica, quella socialista e quella comunista). Componenti sempre più evanescenti sul piano culturale e del loro radicamento sociale, e sempre più corpose, invece, sul piano della ipertrofia di apparati partitici, di interessi corporativi e di meccanismi autoreferenziali. Un dibattito Mercoledì 26 novembre alle ore 18.00 alla libreria FNAC di Torino (via Roma 56) Guido Crainz discute, con Giangiacomo Migone e Guido Viale, del libro qui recensito. Una linea politica che prende prima il nome di nuova maggioranza, poi di compromesso storico, e che non esita ad assumere autentici connotati reazionari in episodi rivelatori, come i dibattiti in seno agli organi dirigenti del Pei che hanno preceduto i referendum su divorzio e aborto: dallo "Speriamo che Berlinguer trovi il trucco per bloccare questa cosa" (il referendum) di Luigi Longo (1969), a "il referendum è un grave pericolo per la democrazia" di Giorgio Napolitano (ovviamente, perché bloccherebbe l'incontro tra "le componenti decisive della storia e della realtà politica italiana", 1974), fino a "l'aborto è contrario all'emancipazione della donna" di Adriana Seroni, che sfocia nel voto congiunto con cui Msi, De e Pei bocceranno in parlamento un emendamento a favore dell'autoderminazione della donna (1975). Lascia interdetti, dopo aver percorso la ricostruzione minuziosa di questi anni fatta da Crainz, il vuoto di iniziativa, di proposta, ma anche di pensiero, registrato in questo periodo nei territori contesi tra i due "opposti estremismi": da un lato l'estremismo corposo e recidivo di un apparato istituzionale impegnato direttamente nella promozione, nella copertura o - nella migliore delle ipotesi - nello sfruttamento politico di quella "strategia della tensione" che La dominato le vicende degli anni settanta, fino all'innesco del suo più tragico ed equivoco contraccolpo nel terrorismo di sinistra. Dall'altro lato, l'estremismo (o presunto tale, in quanto consacrato dalla storiografia ufficiale, accademica e partitica) delle voci, delle aspettative, delle pratiche e delle organizzazioni emerse nel corso dei sommovimenti del Sessantotto italiano; quelle che, nella breve fa-. se di apertura e di "felicità pubblica" che erano riuscite a creare - prima, ovviamente, dell'isterilimento e della degenerazione a cui sarebbero stati portati sia dai loro limiti culturali e politici che dalla sordità e dall'immobilismo di chi ha lavorato alla produzione di un "paese mancato" -, non avevano fatto altro che denunciare e contrapporsi a meccanismi devastanti quanto banali, la cui gravità oggi ci dovrebbe apparire incontrovertibile: l'autoritarismo accademico, la cultura classista della scuola, il regime di fabbrica, le sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, il servilismo delle culture politiche dominanti, il terrorismo di fonte istituzionale, il disprezzo di cui erano circondati i lavoratori, i poveri, gli emarginati. Se così non è, ha ragione Giovanni De Luna che, commentando il lavoro di Crainz ("La Stampa", 18 ottobre 2003), sostiene che quel che il libro racconta è una grande parentesi, prima e dopo la quale le cose sono proseguite per lo stesso verso. ■ matviale@tin.it G. Viale è ricercatore in campo economico e ambientale