N. 11 VILLAGGIO GLOBALE da LONDRA Pierpaolo Antonello Inserita nella classifica dei venti migliori giovani scrittori inglesi stilata dalla prestigiosa rivista "Granta" lo scorso aprile ancor prima di aver pubblicato alcunché, e fra i sei finalisti del Man Booker Price 2003 con il suo primo romanzo Brick Lane (Londra, Doubleday, 2003, pp. 413), Monica Ali, trentacinquenne inglese di origine bengalese, è uno dei volti nuovi della narrativa britannica contemporanea. A quattro mesi dalla sua pubblicazione, il battage pubblicitario approntato attorno a questo libro ha dato i suoi frutti con un buon successo di pubblico (è rimasto nella classifica dei best seller inglesi per tutta l'estate), superando con una certa eleganza le forche caudine della critica meno accondiscendente con i fenomeni costruiti a tavolino (anche se qualcuno ha parlato di un Rushdie "riscaldato"). La speranza malcelata dell'editore era ovviamente quella di farne una nuova versione di White Teeth di Zadie Smith, uno degli esordi di maggior successo commerciale della storia recente dell'editoria britannica. Già dal titolo appare chiara l'intenzione di sfruttare l'onda lunga di quegli autori che incarnano la nuova immagine di una Londra multi-etnica e culturalmente eteroclita - dalla Smith, a Hanif Kureishi, a Hari Kunzru. L'originale Se-ven Seas and Thirteen Rivers - la mitica distanza che separa il Bangladesh da Londra - è diventato infatti Brick Lane, un ghetto etnico per secoli che sta ora diventando una delle zone più up-coming dell'East End londinese. Rispetto all'esordio della Smith, Brick Lane manca però di quella verve un po' sopra le righe che caratterizzava la prosa di White Teeth, ed è certamente meno ambizioso tanto in termini di plot quanto di ricerca linguistica. Buona caratterizzazione dei personaggi, cura descrittiva estrema, ma registro uniforme e quasi monotono. da MADRID Franco Mimmi Quando, un anno fa, gli editori iberici tornarono dalla Fiera di Francoforte, assicurarono che così non si poteva andare avanti: nel '91 erano stati pubblicati in Spagna oltre 67 mila titoli, e quella cifra esorbitante doveva indubbiamente essere all'origine della crisi del settore. Ovvia soluzione: ridurre il numero dei titoli. Ma un anno dopo quegli stessi editori hanno annunciato che nel 2002 sono stati pubblicati in Spagna ben 69.893 libri, di cui 30.000 circa novità assolute, e che non si può parlare di saturazione ma solo di pluralità. Insomma: tutto va bene o almeno non va male, con un fatturato complessivo di 2,6 miliardi di euro sebbene la crisi finanziaria dell'America latina abbia causato l'anno scorso un calo delle esportazioni: da 600 a 500 milioni di euro. Purtroppo questi numeri, che in Europa cedono il passo solo a tedeschi e francesi, non corrispondono agli indici di lettura, visto che solo il 53% della popolazione iberica ha letto, nel corso dell'anno, almeno un libro (con le donne nettamente davanti agli uomini: 56,9% contro 50,1%). E c'è un altro elemento assai negativo: i distributori spagnoli hanno dichiarato di avere restituito agli editori, nel corso del 2002, la bellezza di 54 milioni di copie, il che significa oltre il 30% del totale messo in vendita e il 5% in più rispetto al 2001. In pratica, una percentuale che ormai si avvicina a quella delle riviste, il che dimostra che si sta seguendo una politica di rinnovo a velocità vertiginosa delle presenza in libreria. da NEW YORK Andrea Visconti Ci sono molte diverse chiavi di lettura per The Namesake, il primo romanzo della scrittrice di origine indiana Jhumpa Lahiri. E una storia di immigrazione o una fotografia degli indiani fuori dall'India. È una vicenda di conflitti culturali o uno spaccato familiare. Oppure è la storia di un nome proprio, e di come questo nome racchiuda in sé conflitti interiori, allusioni, riferimenti culturali. E ancora: questo nome rappresenta i contrasti fra diverse società, angosce personali ed emozioni profonde. Non è un caso dunque che la trentacinquenne Lahiri - che al suo attivo ha un premio Pulit-zer per la sua raccolta Interprete di Malanni nel 2000 - abbia intitolato il suo primo romanzo The Namesake che letteralmente significa "l'omonimo". L'omonimia di cui scrive Lahiri è quella fra il grande romanziere russo Nikolaj Gogol e un bambino nato negli Stati Uniti da genitori di Calcutta. Anche lui si chiama Gogol. Perché mai un piccolo indiano cresciuto a Boston porta il nome di uno dei più celebrati autori russi? Lo spiega con grande abilità narrativa la scrittice, che per 285 pagine segue Gogol dalla nascita ai trent'anni. Nel romanzo la cultura indiana si scontra con quella americana che cozza a sua volta con quella russa: sono le tre culture che influenzano in prima persona Lahiri, lei stessa figlia di indiani, cresciuta negli States e amante della letteratura russa. Il piccolo Gogol si sente americano ma in casa la madre veste sari di seta, cucina piatti al curry e celebra ricorrenze indiane. Il dilemma di Gogol è quello di qualsiasi immigrato che voglia sentirsi assimilato anche a costo di rinunciare al bagaglio culturale che si porta dentro. I personaggi di Lahiri sono originari del Bengali, ma questo romanzo tocca i pensieri e le emozioni di qualsiasi persona abbia mai lasciato il suo paese per scelta o per necessità. I protagonisti potrebbero essere italoamericani, francoalgerini o anglopakistani: persone che, quando trovano un equilibrio fra la cultura d'origine e quella acquisita, ne escono arricchiti. da SANTIAGO DEL CILE Jaime Riera Rehren Protagonista della Fiera del libro di Santiago, dello scorso ottobre è stata l'Italia nelle vesti di rappresentante culturale dell'Unione Europea. Il filosofo Gianni Vattimo è intervenuto su "Filosofia e scrittura: Heidegger e le nuove generazioni". Queste attività includono un dibattito su letteratura cilena e italiana, con la partecipazione di scrittori intervenuti nel numero di maggio della rivista "L'immaginazione", dedicato alla narrativa cilena e presentato a Roma la scorsa primavera da Jorge Edwards e Danilo Manera. Come si può facilmente immaginare, gli italiani più letti dai cileni sono scrittori come Antonio Tabucchi o Alessandro Baricco; queste iniziative mirano quindi ad ampliare il panorama dell'offerta letteraria italiana nel paese. Ma l'evento centrale della Fiera è stato senz'altro il tardivo omaggio allo scrittore cileno Roberto Bolano, scomparso questa estate a Barcellona. Poco amato dalla maggioranza degli scrittori e dal sistema culturale locale fino al giorno della sua morte, oggi vuole essere recuperato in funzione dell'importanza che la sua opera ha acquisito in Europa e particolarmente in Spagna. Recente l'uscita in libreria (Ed. Anagrama) del primo dei libri postumi di questo imprescindibile scrittore, El gaucho insufrihle, raccolta di racconti che precede la pubblicazione nei prossimi mesi della- sua opera-fiume 2666, divisa in cinque volumi. Il Nobel che fa bene al Sudafrica Il premio Nobel per la letteratura assegnato allo scrittore John Maxwell Coet-zee fa bene al nuovo Sudafrica, concordano gli intellettuali sudafricani, pur riconoscendo che mai il premio era andato a un autore tanto distaccato da qualsiasi causa, tanto pessimista verso ogni possibilità di redenzione, tanto scettico sul progresso dell'umanità e sulla sua capacità di compiere azioni etiche. Ma Coet-zee è un grande scrittore e il premio non necessita di giustificazioni. La sua scrittura è sinonimo di resistenza a più livelli. Lo è prima di tutto sul piano linguistico. Di discendenza afrikaner, o boera, Coetzee, nato a Cape Town nel 1940, scrive in inglese, scelta non scontata neppure in Sudafrica dove attualmente l'inglese è la quinta lingua nazionale per numero di parlanti. Nelle pagine del suo primo volume autobiografico, Infanzia (Einaudi, 2001), trapela la sua sviscerata anglofilia e il timore di finire nelle classi di afrikaans a causa del cognome. Con i figli dei boeri non condivide né modi né ideologie, e nel romanzo Età di ferro (Donzelli, 1995) non li risparmia, definendoli "i prepotenti delle ultime file dei banchi di scuola, ragazzi ossuti e stupidi, cresciuti ora, e promossi a governare il paese". Il linguaggio utilizzato da Coetzee tanto nei romanzi quanto nei saggi non è sperimentale, è però estremamente raffinato e ricercato, intagliato e tagliente, incisivo come un bisturi. Matematico e linguista di formazione, informatico per necessità negli anni giovanili, Coetzee è un letterato per vocazione, quasi maniacale -Rian Malan, scrittore sudafricano anch'egli, dice "monacale". Ama la musica di Johann Sebastian Bach, la cui arte compositoria è fondata sulle simmetrie e sul controllo strutturale, e le potenzialità combinatorie del linguaggio: i giochi di parole, gli anagrammi, i silenzi. La sua filosofia consiste nella ricerca di una lingua nuova, capace di vera inter-mediazione, che sia dialogica e forse "innocente". Dai suoi primi romanzi ai più recenti, da Deserto (Donzelli, 1993) a Vergogna (Einaudi, 2000), la ricerca di una lingua che anela a divenire medium, latrice di un messaggio che esuli dal monolitismo e dallo psicologismo occidentali, per amara ironia è destinata a rimanere imprigionata nel soliloquio o nel monologo, talvolta vicino al delirio, di uomini e donne prigionieri del linguaggio coloniale/patriarcale. Coetzee, più volte accreditato per il Nobel e vincitore di numerosi altri premi letterari in patria come all'estero, unico ad aver vinto due volte il Booker Prize, è anche un fine saggista. Dal suo primo e ancora fondamentale volume White Writing. On the Culture ofLetters in South Africa (1988), sul romanzo pastorale sudafricano, a Doubling the Point (1992), in cui rende omaggio ad alcuni tra i suoi maestri (Kafka, Dostoevski, D.H. Lawrence, Beckett, Nabokov), agli scritti su Pornografia e censura (Donzelli, 1996) a La vita degli animali (Adelphi, 2000) Coetzee è un abile fustigatore delle ipocrisie dell'occidente, I sistemi carcerari e manicomiali ne La vita e il tempo di Michael K (Einaudi, 2000), i campi di prigionia dei torturati dal regime in Aspettando i Barbari (Einaudi, 2000), il mattatoio industriale di pollame in Età di ferro (Donzelli, 1995) e il crematorio per cani in Vergogna trovano maggiore eco e vigore nelle sue prose saggistiche, lucide e attuali. E, ancora, traduttore dall'afrikaans prima, più recentemente curatore e traduttore di poeti olandesi degli anni '30, Landscape ivith Rowers: Poe-try from the Netherland, Coetzee difende - sempre araldo di una cultura "minoritaria" - una letteratura ingiustamente trascurata in Europa, ma guarda da outsider, dall'Australia dove ora risiede, anche al Sudafrica dove i dipartimenti di afrikaans e di olandese perdono costantemente studenti, proprio come il corso sui poeti romantici inglesi tenuto da David Lurie in Vergogna. Già nel 1994 la rivista "The South Atlantic Quarterly" dedicava un numero speciale all'opera di Coetzee; alle molte monografie e agli innumerevoli saggi e articoli sui suoi scritti in campo internazionale si aggiunge ora l'ultimo numero della prestigiosa rivista inglese "Journal of Commonwealth Literature" a lui dedicato prima che vincesse il premio. Carmen Concilio