N. 11 Narratori itali eh Neil'"Indice" di settembre Bruno Pischedda ha recensito un saggio di Silvio Perrella sulla scrittura nomade di Parise, e, per diverse vie, hanno scritto attorno al viaggio, forma primaria del raccontare, Paolo Nori discorrendo dell'amico Benati e Giorgio Bertone recensendo Tabucchi. Ora s'aggiunge Marosia Castaldi, che ricomprende Pischedda e Perrella, Nori e Bertone, in un testo significativo della sua scrittura e del suo speciale saggismo autobiografico D viaggio dentro e fuori della stanza di Marosia Castaldi è chi sta fermo in una stanza e apre universi interi. C'è chi, per farlo, ha bisogno di viaggiare, come il Parise di Perrella in Fino a Salgarèda, in cui, come dice Bruno Pischedda, tema centrale "è l'Autore, non il Testo", "il viaggio (e lo sradicamento e l'orfanità ...)" e "il corpo in perlustrazione". Il libro si apre sul Ragazzo morto e le comète, individuando nella morte del ragazzo il senso "a priori" della vita e della scrittura di Parise tutta protesa verso il "Porto degli Addii". Poi procede navigando tra scogli antichi sempre vivi: il rapporto tra realtà e finzione, tra romanzo e vita, su cui si getta il travaglio dell'autore, i suoi gangli, i suoi nervi la sua gioia e solitudine. Tutto converge, a Salgarèda, verso il disordine che non conosce stile. Anche i Sillabari, pur nella ricerca di una scrittura elementare che aderisca alla cosa, sono in realtà il frutto di una coscienza letteraria che si fa più vicina al biologico, al poetico, all'organico, all'erotico e, in quanto tale, non inventa niente: è k vita con tutto il suo disordine. E "letteratura in vita" come diceva Fenoglio. Immersa nel caos di tutto ciò che vive, lai scrittura non è sublimazione. È un gesto della mano, un gesto biologico. Qual era 0 peso della mano di quel Leopardi poco più che ventenne che vedeva l'infinito schermato dal paesaggio solo di una siepe? Guardate, se vi capita, alcune pagine autografe di Flaubert, di Dickens, di Machiavelli e tanti altri. Alcune sono fluide e ordinate, altre aggrovigliate, contorte, piene di cancellature. Su quei fogli pesa l'impurità della vita con le sue scorie che concede attimi di tregua e travolge in momenti di terrore. Chi scrive è di per sé un meticciato di identità, di ruoli, di persone, di puro, di impuro, di letterario ed extraletterario. Questa trasmigrazione è organica. È materia in movimento. Sono popoli in spostamento. Sono ruoli e barriere che si polverizzano. Vedo due Madri. La prima è La madre di Maksim Gor'kij (1906), la seconda è L'artista e sua madre di Arshile Gorky (da- tato 1926-29). Maksim riesce a portare a termine un ritratto finito: quello di una madre che si identifica a tal punto con gli ideali rivoluzionari del figlio Pa-vel, da dare un senso totale alla sua stessa vita. Sul disordine prevale un ordine possibile, un'utopia rivoluzionaria, un fine. La rivoluzione fallisce. La generazione successiva di artisti e intellettuali è costretta al viaggio dell'emigrazione. Così succede ad Arshile, che dalla nativa Armenia va in America. Lì, malgrado l'evoluzione dei suoi quadri verso l'astrattismo, continuò a lavorare per dodici anni, senza riuscire a portarlo a termine; al ritratto di se stesso bambino con la madre. Le mani, i vestiti, le braccia sono abbozzi, la madre e il figlio due immobilizzati burattini con gli occhi scavati dalla notte. E la sua identità che è in crisi. Quel ritratto era un tormento senza fine. Lo mise da parte. Aveva creato un incompiuto, un ritratto infinito. Forse ci saranno ancora epoche di utopie. Epoche in cui un miraggio, un sogno di salvezza creeranno le coordinate che portano verso il fuoco centrale, verso quel punto su cui converge il reale con la sua finzione, come voleva la prospettiva artifi- ciale, come ha preteso ogni rivoluzione. Ma ora, con tanta storia sulle spalle, forse vediamo che siamo già nell'utopia, che niente si dà fuori della realtà. Questa realtà disordinata irrazionale ùel tratto di paesaggio che appena sveglia -tra la parete e le cortine in ampia crepa, fedele veneziana -ritrovo con lo sguardo -non è che l'apice di un melo piegato contro il cielo - la forma di un camino -la fronte dei miei monti - a volte, o un indice di banderuola -ma poche volte - Trasformano il mio quadro le stagioni sul ramo di smeraldo -mi sveglio e non ritrovo più smeraldi bensì diamanti, che la neve mi porta da polari casseforti -Solo il camino e il monte e il dito della torre non cambiano orizzonte - Questa è la domanda di Lidia De Federicis a domanda di Marosia Castaldi, "esperire o stare nella stanza?", riguarda la scrittura e l'autore. È anzitutto una domanda, o un'inchiesta, sulla vita di chi scrive, soggetto empirico, nome certificato all'anagrafe. Poi tocca anche le tecniche della scrittura, la retorica della narrativa. Da entrambi i lati pone un quesito cruciale. Quale rapporto fra il letterario e l'extralettera-rio, o semplicemente come raccontare cose, vere o supposte, senza ispirarsi alle poetiche del realismo; o, ancora, come raccontare l'io, il romanzo dell'io, senza cedere a una transcodificazione immediata dei sintomi in simboli. La mia domanda invece è questa, e l'ho sollevata già a proposito di Edoardo Sanguineti, un vincitore del Campiello che ha disordinato la premiazione. Tocca dunque al poeta immettere la realtà nell'apparenza? E come, dove? Nelle sue visioni del mondo? Nell'economia sovraccarica di senso del suo speciale linguaggio? Ma non è indifferente quel che nelle visioni si mette, la scelta extraletteraria, la personale compromissione. Torno alla domand di Marosia, che segna infatti un passaggio testuale: dalle considerazioni rivolte più all'esterno verso le frasi conclusive in cui nudamente affiora la presenza interiore, la conturbante confessione. Qui Marosia imbroglia un po' il lettore (così fanno appunto i poeti) con la forza della scrittura, con l'intenzionale ambiguità della polivalenza: il sogno, l'utopia (che è non-luogo e buon-luogo), il mare, il non paesaggio. Quale utopia concreta già vive nella realtà? Quale sogno contiene? E cos'è, o può essere, la stanza, lo spazio murato e simbolico, luogo e non luogo, che la tradizione del Novecento ci ha consegnato? Cos'è la stanza di Marosia lo dicono bene i suoi libri. Ma lei ci provoca anche all'oggi, al mutamento. Mi piace perciò citare una scena incompiuta, da un racconto che rientra nella tipologia del non finito, di un esordiente d'oggi nei linguaggi multimediali, un qualsiasi Stefano Grasso, nato nel 1981."Avrei dovuto essere più rapido del mio nemico, correre velocissimo su per le scale, evitare il terzo scalino, buttarmi nella stanza, chiudere a chiave, ...arrivai in fondo senza che dovessi ricorrere a tutto questo. Ormai ero convinto di essere solo, a nessuno di quegli uomini importava granché di me. Mi trovai di fronte la stanza di cui ora vedevo i confini. Era decisamente più grande di quella del piano superiore, e molto più luminosa. Le scale mi avevano impedito di vedere in un angolo un camino, spento. Faceva molto freddo, e io non avevo ancora mangiato. Accanto al camino faceva angolo una porta chiusa che dava probabilmente su un'altra stanza. Cercai con gli occhi la porta di uscita, era subito a destra della rampa delle scale, era di certo quella la porta principale. Accanto una finestra dai vetri appannati. Mi avvicinai e guardai fuori. Aveva smesso di nevicare, intravedevo la sagoma degli alberi e distinguevo chiaramente il portichetto del casolare. Volevo uscire al più presto da lì, ma stavo svenendo per la debolezza, dovevo mangiare qualcosa, forse la porta vicino al camino dà su una cucina, o su una sala da pranzo. Era rischioso, se dentro ci fosse stata una persona sarebbe stato impossibile fuggire. Avevo troppa fame, toccai la maniglia, cedette sotto la pressione della mia mano, la porta era aperta, la spalancai trattenendo il fiato. Vidi tutto e niente, con un occhio solo compresi la stanza intera. Era vuota, respirai. Dei vestiti, primo segno di presenze, erano abbandonati su una poltrona. Un tappeto ricopriva il pavimento, negli angoli dominava la polvere. Non dava su altre stanze, perché non c'erano porte, solo una finestra sul retro, dalla stessa parte della camera di sopra. Vidi l'olmo". Il titolo del racconto è Claustro. (Emily Dickinson, buongiorno Notte, trad. di Nicola Gardini, Crocetti, 2001) contiene già il suo sogno. Allora la scrittura non sublima, la scrittura vive. Il romanzo è organismo chiuso in una mano che si fa, si disfa, si dilata. Le mani possono diventare enormi o piccolissime, e così la testa e le gambe sotto il tavolo. Siamo quello che scriviamo e tuttavia il gesto corporeo della mano che scrive va controllato per diventare "scrittura". In primo luogo perché scrivere è sempre un tentativo di rendere dicibile il caos, fino alla sua forma più dura ed evidente: la morte, che a Dickinson appariva come un gentiluomo che le faceva posto sulla sua carrozza. Forse per incontrarlo in questo modo si chiudeva nella stanza di Amherst. Parise invece aveva bisogno di viaggiare come se lo scrivere fosse del viaggio una conseguenza necessaria. Allora bisogna, per scrivere, viaggiare, esperire o stare nella stanza? Questa è la domanda. Per una rivista intorno al "Romanzo dell'io" ho scritto: "Tutto è io. Il vento è io, l'acqua che mi bagna è io, il vento che mi squassa è io. Tutto quello che mi tocca la pelle, il corpo, i sensi è Io. Ed è l'Altro. Il vento non è io, la brezza non è io, l'acqua non è io". È la smisurata grandezza dell'Altro, come la Materia, di cui Platone diceva: "E l'Altro". Lo stesso avviene per la scrittura. E la tua vita e non è la tua vita. E l'Io ed è l'Altro. Questa terribile vicinanza-distanza fa della scrittura stessa un'ulteriore viaggio nell'ignoto di sé e dell'Altro. Che si viaggi nel mondo o si viaggi nella stanza. Dickinson, chiusa nella casa di Amherst, trasformava un pino in un mare su uno stelo: "Presso la mia finestra ho per scena / Un mare su uno stelo - / Se all'uccello e al villano sembra un Pino, / Quanto a me, non ho nulla da ridire - / Porti non ha né na- vi - le ghiandaie / si fendono la strada verso il cielo - / lo scoiattolo giunge per di là / Alla vertiginosa sua penisola..." Sapeva viaggiare in mezzo agli infiniti mondi dentro la sua mente. Pes-soa, chiuso nel suo ufficio da impiegato, vedeva universi spalancarsi solo guardando il colletto di una donna seduta davanti a lui in un tram e ha concepito senza solcare il mare, quell'ode immensa al viaggio che è l'Ode marittima. Tanti invece hanno bisogno di viaggiare, da Stevenson, a Handke, a Chatwin, a Moravia, a Parise, a mille altri. Melville, incatenato al viaggio, dal fondo di un'inquietudine suprema, ha concepito un libro immenso, oceanico, come Moby Dick: "Considerate l'astuzia del mare (...) Considerate anche lo splendore e la bellezza di tante delle sue tribù più feroci (...) Considerate ancora il cannibalismo universale del mare, in cui tutte le creature si predano a vicenda conducendo un'eterna guerra fin dall'inizio del mondo. Considerate tutto questo e poi volgetevi a questa terra verde, gentile, docile. Considerateli tutti e due, il mare e la terra, e non scoprite una strana analogia in voi stessi? Perché come quest'oceano spaventoso circonda la terra verdeggiante così nell'anima dell'uomo c'è un'insulare Tahiti piena di pace e di gioia, ma circondata da tutti gli orrori di questa semisconosciuta vita. Vi protegga Iddio! Non vi spingete al largo da quest'isola: potreste non tornare più". Un'eterna guerra e un'eterna Tahiti sono il travaglio di tutto ciò che vive andando verso il porto degli Addii, le frontiere di Ava-lon, da cui non si fa più ritorno. Non esiste alcuna regola su come lo scrittore o lo spazzino, l'impiegato, la casalinga, il ricco, il povero affamato gestiscono l'inquietudine, il disordine, l'ignoto, l'abisso della vita. Di me so che sono un viaggiatore all'interno della stanza. Nello stesso tempo mi piacerebbe moltissimo viaggiare, "scrivere non nel chiuso di una stanza", ma l'ho fatto poco: l'abisso fuori e quello dentro sono duri da portare insieme e nello stesso tempo. Eppure, quando ho viaggiato, ho sempre travasato i luoghi, gli oggetti, le persone, le esperienze su una pagina. Li avevo amati, li avevo incorporati. Ho bisogno di vedere di toccare per poi raccontare, ma mi basta anche, come cieca, immaginare il paesaggio. Anche il paesaggio è vero e non è vero: esiste contemporaneamente fuori di me e dentro la mia mente. È Io ed è l'Altro. Le albe sull'oceano descritte da Melville mi mettono sopra la sua nave. Ma anche Melville era come cieco. Per scrivere, anche dopo aver visto ed esperito, bisogna comunque farsi ciechi nella stanza per navigare dentro il grande viaggio che tutti facciamo verso il Porto da cui non c'è ritomo: Ora devi fare da solo. marosiacasta@tiscalinet.it M. Castaldi è scrittrice