In primo piano Nella crisi d'identità che in questi anni, attraverso le intense trasformazioni politiche e sociali, segna larga parte dei percorsi della storia contemporanea, la religione si fa un ancoraggio privilegiato, talvolta prezioso, talvolta strumentale, più spesso inquietante e deviante. Dedichiamo questa pagina (e il dibattito che se ne apre) a uno dei testi più interessanti sul rapporto fra religione e violenza politica. Quel Dio assassino di Giovanni Filoramo Mark Juergensmeyer TERRORISTI IN NOME DI DIO La violenza religiosa nel mondo ed. orig. 2000, trad. dall'inglese dì Fabio Galimberti, pp. XI-340, € 18, Laterza, Roma-Bari 2003 La tragica spirale di atti terroristici, che sembra accompagnare come un'ombra la crescita dei processi di globalizzazione, ha moltiplicato gli studi del fenomeno. Se molto si è riflettuto sulle ipotetiche cause economiche, politiche, sociali e psicologiche (quando non psichiatriche, almeno a livello individuale) del fenomeno, cercandone antecedenti storici e impostando analisi comparative alla ricerca delle logiche comuni soggiacenti, meno si è riflettuto sulla dimensione religiosa, che pure costituisce una componente non trascurabile, se si pensa ai numerosi gruppi terroristici che, dall'Irlanda alla Palestina, dagli Stati Uniti all'India ai Giappone (l'Europa continentale sembra, da questo punto di vista, costituire un'isola, si fa per dire, relativamente felice: ma per quanto?), uccidono "in nome di Dio". Il libro di Juergensmeyer, direttore del Dipartimento di studi globali e internazionali dell'Università della California, ha l'indubbio merito di affrontare di petto una questione così delicata. "Terrorismo", come tutti gli -ismi, è un prodotto della modernità, più precisamente del Terrore rivoluzionario. Una volta ammesso che lo scopo precipuo - banalità non così scontata - è quello di creare (il) terrore, quale è la parte recitata, in questo drammatico psicodramma collettivo, dalla religione? L'autore affronta questo argomento "esplosivo" non solo con grande competenza e lucidità intellettuale, ma anche con profonda passione umana, come dimostra la sua "osservazione partecipante, fondata su di una serie di interviste illuminanti con protagonisti a vario titolo dei cinque gruppi esaminati nella prima parte del libro (gruppi cristiani americani antiabortisti; destra radicale ebraica; terroristi islamici; sikh; buddhisti del gruppo giapponese Aura Shinrikyo), nello sforzo ammirevole di recare il suo mat-toncino a quell'edificio utopico che è la costruzione della kantiana "pace universale". Che cosa differenzia il terrorismo religioso dalle tante forme del terrorismo non religioso? "La particolarità del terrorismo religioso sta nel fatto che è quasi esclusivamente simbolico, messo in atto con metodi altamente drammatici. Inoltre, queste inquietanti esibizioni di violenza sono accompagnate da forti rivendicazioni di giustificazione morale e da un tenace assolutismo, caratterizzato dall'intensità dell'impegno degli attivisti religiosi e dalla portata ultrastorica dei loro obbiettivi". Di questa tesi merita rilevare due elementi: la dimensione simbolica e l'assolutismo della risposta. Uno degli intervistati, presunto responsabile dell'attentato del 1993 al World Center, ribatte a un certo punto al suo intervistatore: "L'anima della religione, ecco cosa vi manca". Juergensmeyer, a ragione, si sofferma sulle motivazioni ideologiche, di matrice religiosa, soggiacenti all'azione terroristica, da lui riassunte nella ripresa di un tema mitico-simbo-lico: quello della guerra universale, ma sottolinea ugualmente, sulla scia soprattutto di Bourdieu, le ragioni "pratiche" di questa scelta. Per riprendere, anche in questo caso, le affermazioni di un terrorista: che cos'è una bella macchina senza benzina? In altri termini: la dimensione religiosa del terrorismo consiste nella sua capacità di versare un carburante particolare, in grado di "accendere" il motore dell'azione. Per procurarsi questo carburante il terrorismo religioso fa ricorso, secondo Juergersmeyer, alla nozione mitico-religiosa di guerra universale, che fornisce il co- pione destinato a essere recitato nelle performance violente dei vari "guerrieri di Dio", rendendo possibile l'attivazione di scenari come il martirio, il sacrificio, la battaglia finale tra le forze del Bene e quelle del Male, in cui la violenza religiosa -non necessariamente legata a una fede di tipo monoteistico, come dimostra il caso dei sikh e quello del buddhismo - trova alimento, ma anche un luogo mitico-simbolico tradizionale per attivarsi attraverso la costruzione e la satanizzazione del nemico. Su questo sfondo si comprendono meglio anche le funzioni psicosociali che l'autore esamina negli ultimi due capitoli. In genere, i gruppi di terrorismo religioso presi in esame escludono o marginalizzano le donne, configurandosi come gruppi iniziatici di giovani militanti che stabiliscono tra di loro, secondo modelli arcaici di patriarcali-smo radicale, vincoli particolari di affetto e solidarietà: "Questi movimenti di monaci cowboy hanno in comune il fatto di essere composti da giovani maschi antiistituzionali, nazional-religiosi, razzisti e sessisti (...) La loro esperienza di marginalità nel mondo moderno è vissuta come una specie di disperazione sessuale che li porta ad atti violenti di potenziamento simbolico". I gruppi permettono così a questi giovani, spesso socialmente emarginati, di ricuperare forme di potere e di autogiustificazione religiosamente fondate, contribuendo a fare della religione un fattore di onore e legittimazione e, nel contempo, ad accrescere l'im- portanza della religione in quanto ideologia di ordine che sostiene la vita pubblica. Quest'ultimo punto costituisce, a ben vedere, la tesi principale del libro. Sulla scia di un numero crescente di studi, anche l'autore contribuisce a sottolineare l'importanza che la religione torna ad avere, sullo sfondo dei destrutturanti pro- cessi di globalizzazione che hanno messo in crisi le forme di autorità e potere statale moderne, sulla scena pubblica. I terro- risti religiosi sono infatti accomunati, in negativo, dal rifiuto dei valori progressisti e delle istituzioni politiche laiche tipiche della modernità, in positivo, dall'aspirazione a ricuperare forme più impegnative e stimolanti di vita religiosa, che essi immaginano facciano parte dei primordi della loro religione, restituendole uno spazio centrale, anzi decisivo, nella vita pubblica. Anche se in forme aberranti, il criptomessaggio che questi gruppi lanciano, secondo Jurgenmeyer, costituisce per l'Occidente una sfida profonda che contiene una critica sostanziale alla politica e alla cultura laica e postilluminista mondiale. Le conclusioni del libro prospettano una tesi che merita di essere discussa e approfondita. La violenza religiosa ha tratto alimento dalle tensioni sociali di questo momento storico, ma anche dalla violenza pubblica che sempre più scorre nel sangue delle società occidentali. Come fare a recidere il cordone ombelicale tra violen-za e religione? Ritornando a riconoscere il ruolo pubblico che la religione può svolgere, non nelle forme anestetizzate della rousseauiana religione civile, ma in quelle più robuste di una religione che, temperata dalla razionalità e dal rispetto delle regole e dei valori moderni, contribuisca a ridare vitalità ed energia alla vita pubblica e, nel contempo, a costruire un ordine etico in grado di affrontare i tempi, privi ormai di un solido ancoraggio morale, in cui viviamo. ■ gf ilorairioStin. it G. Filoramo insegna storia del cristianesimo all'Università di Torino Risposta al (Togliov Per i picchiatori della parola Potrei replicare all'articolo di Dino Cofran-cesco ("Il Foglio", 7 gennaio 2004) sulla mia recensione a Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti ("L'Indice", 2003, n. 12), con una veloce battuta, tipo quella che Pierluigi Battista mi dedica sulla "Stampa" del 22 dicembre, e cavarmela dicendo: visto che avevo ragione e che da quelle parti (di Berlusconi e suoi giornali o giornalisti) c'è pieno di picchiatori della parola? Ma non voglio concorrere al titolo di chi è peggio. E osservo. 1) Cofrancesco non fa neppure un cenno agli apprezzamenti che io rivolgo al libro di Pansa: "Bene ha fatto Pansa a raccontare di nuovo e tutte insieme queste storie, a dare una misura (...) alle lacrime e al sangue che hanno ingiustamente prolungato la guerra civile. Nessuno scandalo dunque (...)"; "va detto, per onestà intellettuale: Pansa non è accusabile di partigianeria filofascista o di faziosità anticomunista (...)"; il suo "lavoro (...) non perde (...) di validità, di legittimità, vorrei dire persino di nobiltà". Non nota che io critico il libro non per quello che dice, ma per quello che non dice (una chiara differenza tra ricostruzione storica e rovesciamento dei valori) e che pure ci sarebbe voluto poco a dire, non foss'altro per evitare di finire così male da dover essere dife- so con ragioni e modi come quelli che adopera il Cofrancesco medesimo. 2) Cofrancesco fa vedere come si usa dalle sue parti. Insulta, non potendo "fracassare", sembra con un certo rammarico, la testa dell'avversario. E soprattutto non sa, non vuole distinguere, attività primaria dell'intelligenza umana; per cui fa tutt'uno, come del nazifascismo e del comunismo, così dell'insulto e dell'accusa. Io avevo rivolto una critica a Pansa, perché l'assenza di minimi riguardi (in una premessa, in qualche passaggio) permettevano quello che è successo: la strumentalizzazione del Sangue dei vinti da parte del berlusconismo di battaglia; e motivavo questa critica con un'accusa all'ambiente giornalistico e politico che aveva accolto entusiasticamente il libro di essere, per la sua ruvidità, per la sua aggressività, il vero erede dei violenti di ogni colore che hanno macchiato, da una parte e dall'altra, la storia d'Italia. Cofrancesco, non so se perché in difficoltà a dimostrarne l'infondatezza, alle accuse replica con gli insulti, secondo una tecnica forse appresa da chi, per difendersi dall'accusa di qualche reato di una certa gravità, ha insultato i magistrati che intendevano processarlo. Vittorio Coletti LIndice puntato Prossimo appuntamento Quel Dio assassino Terroristi in nome di Dio con Khaled Fouad Allam, Giovanni Filoramo, Massimo Introvigne, coordina Mimmo Candito Fnac via Roma 56 - Torino mercoledì 25 febbraio 2004, ore 18 ufficiostampa@lindice. 191 .it