N. 2 Tracce di Austria nella letteratura Dalla tragedia allo stereotipo di Luigi Forte B Luisa Ricaldone E TU AUSTRIA Rappresentazioni di un paese nel novecento letterario italiano pp. 219, s.i.p., Milella, lecce 2003 asta guardare il popolo dei turisti a Vienna come a Salisburgo per capire che anche il mito absburgico è entrato da tempo nell'era della globalizzazione. Oltre ai soliti giapponesi, orientali di ogni sorta e cinesi, molti cinesi. Che siano venuti per studiare ascesa e declino di una civiltà multietnica? Più che naturale, visto che anche il loro immenso paese ingloba lingue e tradizioni diverse. E magari se ne torneranno a casa pensando a Francesco Giuseppe come al più grande e longevo segretario generale del variopinto partito della Mit-teleuropa. Del resto ogni paese vede gli altri a suo modo e la storia della ricezione è un contenitore di infinite idiosincrasie. Anche gli italiani non sono sempre andati in Austria con la disinvolta curiosità di un Faldella, declinata ancora in termini di anticapitalismo romantico. Lo stesso Slataper, che scorgeva in Vienna un luogo di iniziazione culturale, definisce poi il paese "Barbaria". Per non parlare dei futuristi di "Lacer-ba", da Soffici a Papini, che intonano canti di guerra, e di D'Annunzio, che ritiene gli austriaci privi di anima e dominati dal bisogno di rapina. Erano altri tempi, ritmati dal rombo dei cannoni, dove l'icona dell'austriaco nemico forgiata dalla letteratura romantica (con Berchet e Giusti in prima fila) trova un naturale e drammatico sbocco. Quando gli alpini cantavano: "E tu Austria che sei la più forte / fatti avanti se hai del coraggio / se la buffa (fanteria) ti lascia il passaggio / noi alpini fermarti saprem". Di qui è partita Luisa Ricaldone per seguire con attenzione e intelligenza nel volume E tu Austria, che raccoglie saggi editi e inediti, le tracce del paese di Mozart e Freud nella letteratura italiana del Novecento con non pochi richiami anche al passato. Quell'incipit che ricorda una spaventosa tragedia, è qui piuttosto l'apostrofe affettuosa e appassionata di una studiosa che ha trascorso molti anni presso l'Istituto italiano di cultura di Vienna e che dalla città quasi si congeda attraverso le immagini proiettate dagli autori italiani. E una passeggiata in un "luogo mentale", una discesa fra stereotipi, un gioco di fantasie che proiettano spesso la vecchia capitale dell'impero su uno sfondo diafano e un po' irreale. Una cosa emerge con chiarezza dal libro: la ricezione dell'Austria da parte della nostra letteratura è stata episodica e marginale, e non di rado affidata ad autori di secondo piano. In questo quadro svetta la figura di Pirandello con il testo tardoespressionistico Come tu mi vuoi, dove però - lo ricorda l'autrice stessa - Vienna "compare lontana, quasi come una minaccia incombente". Uno spazio urbano della follia, "una città più psichiatrica che psicoanalitica". Con questi temi Pirandello ci andava a nozze, ma certo Vienna non era da meno, offrendo, da Freud allo Steinhof, materiali più che stimolanti per ogni delirio letterario. E come scena del disagio psichico la città entra con prepotenza nei romanzi di Giuseppe O. Longo, e in modo meno marcato in autori come Alessandro Defilippi ed Emilio Jona. Come sottrarsi ai fantasmi freudiani? Non c'è, pare, via d'uscita, come non si sfugge a una lunga litania di luoghi comuni che collegano la città al labirinto, alla musica e alla socievolezza da caffè, all'identità minacciata, a una topografia onirica e allo spazio del- Saggistica letteraria l'oblio. Temi classici, da Mitte-leuropa: ma se si vanno a pescare in Roth, o in figure minori come Perutz o Lernet-Holenia, ecco che i nostri autori ci fanno una magra figura. Certo, quegli altri erano di casa e certe tragedie le hanno vissute sulla loro pelle. Ma resta l'impressione che non basta andare nella Berg-gasse o alla Hofburg perché la fantasia si accenda in modo esemplare. Vienna, per molti degli autori qui citati, è un opaco stereotipo dietro il quale si nascondono temi casalinghi. Più affascinante ed evocativo lo splendido zibaldone di riflessioni, storia e affabulazione del Danubio di Claudio Magris. Dietro c'è il narratore che in questa materia si muove con grande agio culturale e sa ricomporre in un quadro organico i molti tasselli di una grande storia. Un quadro che il libro di Ricaldone fa forse un po' fatica a organizzare, molto più stimolante, com'è, nell'analisi dei testi che nella loro complessiva e organica ricostruzione. Ma le tante voci del libro paiono una sorta di evocazione del mosaico dell'impero. E alla fine ci si accorge che anche gli stereotipi racchiudono una buona dose d'amore: è la sostanza di questo congedo, la sua melodia di fondo. ■ luigi.forteSunito.it Poeta con artigli di Alfonso Lentini Paolo Maccari SPALLE AL MURO La poesia di Bartolo Cattafi pp. 252, € 14, Società Editrice fiorentina, Firenze 2003 L. Forte insegna letteratura tedesca all'Università di Torino Ci sono poeti che ci piace studiare, altri che ci piace semplicemente ascoltare, lasciando scorrere i loro versi sulla nostra pelle. Poeti così li leggiamo preferibilmente a letto, in treno, in bagno, insomma nei posti privi di appoggio, nei luoghi di transito precario dove l'istintualità la fa da padrona. Irrompono nel lato molle della percettività. Cattafi è uno di questi. I suoi versi sono una continua sfida all'intelletto, non importa se in forma di raffinati congegni retorici, trappole enigmistiche o inviti alla penetrazione profonda del testo; e hanno artigli. Giocano col mistero, ma con la leggerezza e l'astuzia di un ragazzo che insegue un pallone. Chi è capace di comporre versi di questa natura, radicalmente "materici", che intessono discorsi con ogni fibra della meti- li senso nelle crepe di Paolo Zublena Marinella Pregliasco IN FORMA DI FUGA Modi e mondi dell'Antico nel Moderno pp. 142, € 13, Edizioni dell'Orso, Alessandria 2003 Se talvolta le raccolte di saggi lasciano la frammentaria sensazione di un rapporto molto meno che sostanziale tra oggetti e metodi che si succedono al vaglio dell'indagine, il libro di Marinella Pregliasco è senza dubbio dotato di un percepibile centro non solo metodologico (il che può apparire più ovvio), ma anche tematico. L'oggetto per propria natura sfuggente dei lavori in esso contenuti è riconducibile a un luogo tra spaziale e mentale che sembra inoltrarsi nel territorio dell'aporia: in cui la contraddizione fra dentro e fuori, prima e dopo non si compone pacificamente, ma resta pa-lesamente irrisolta o - almeno - permette di riconoscere indizialmente significative crepe. L'ambito è quasi interamente novecentesco (se si escludono i due saggi sulle fonti popolari del gozziano Augellino belverde e sulla figurazione dello spazio nella letteratura odeporica oltremarina di età tardomedievale), ma la contemporaneità è scandagliata alla ricerca di modelli mitici e archetipici che provengono dalle profondità di codici di lunga durata, tra l'antichità classica e quella scritturale. L'intertestualità - come le fitte e fini osservazioni di storia della lingua letteraria - non è lasciata a se stessa, ma ricondotta alle site radici di campo di tensione in cui si scoprono (o si coprono) i punti caldi delle poetiche: è, insomma, uno strumento di interpretazione, più che il traguardo finale dell'analisi. Prendiamo il saggio su Caproni (fin qui inedito). Partendo da uno spazio tematico (lo spaesa- mento) e linguistico (la disidentificazione referenziale dei deittici, la negatività del lessico) si risale alle indubitabili tracce bibliche e a quelle - fortissime - agostiniane (la dis-trazione dall'e-sistere della poesia caproniana risale - anche -alla regio egestatis delle Confessioni), e a meno prevedibili tessere classiche. La dis-trazione, la manque dell'ultimo Caproni finisce però per risultare di natura immedicabilmente ossimorica - aporetica, appunto - e per questo sideralmen-te distante dai suoi modelli che realizzano pur sempre un movimento dialettico. Il rapporto con la tradizione può essere anche meno tensivo (o di una tensione più sottile e riposta), laddove la letteratura è soprattutto difesa nevrotica, assunzione di una maschera: è il caso del terapeutico Ulisse di Saba, in cui Omero (seguito dalle infinite riscritture) è sanità da contrapporre all'angosciosa tragedia dell'esistere. E per certi versi è anche il caso òUA'Isola un-garettiana, a suo modo una vertiginosa epitome di un archetipo letterario antichissimo (sebbene rivisitato soprattutto alla luce delle sue più recenti apparizioni pascoliane e dannunziane), ma rideclinato in una chiave solipsistica pienamente modernista (se vogliamo, di un modernismo difensivamente travestito di antico). Una nota a parte meriterebbe la raffinata storia e preistoria dell'uso "ermetico" della preposizione a, davvero un maturo saggio di stilistica storica. Ma non posso non concludere con la novità dello studio sul duro e scabro linguaggio di Una questione privata, in cui il lessico preciso -esprimente una visività pre-etica, tale da confinare la sfera patemica tutta nel non detto dietro le parole - e le ossessive strutture di iterazione e antitesi testimoniano, secondo Pregliasco, che il romanzo fenogliano è dramma non dell'assurdo, ma di una geometrica e assoluta razionalità. te e del corpo, è un poeta a tutto tondo; e dunque è un grandissimo poeta. Ora, a rivendicare la grandezza di Cattafi, esce nei "Quaderni Aldo Palazzeschi" della Società Editrice Fiorentina (con un'appendice di testi inediti) questo libro di un giovane italianista, Paolo Maccari, che invita ad affondare la lama nej sottosuolo della scrittura e apre il discorso con un'affermazione netta (e coraggiosa): "L'opera di Bartolo Cattafi è una delle più grandi e sottovalutate del secondo Novecento". Il libro sviluppa un'analisi puntuale dell'opera cattafiana segnando i passaggi chiave del suo svolgersi: dagli inediti giovanili del '43, dalle prime plaquette che confluiranno nelle Mosche del meriggio, passando per le tappe fondamentali de L'osso, l'anima, attraversando le raccolte che documentano il periodo "furiosamente fertile" degli anni '12-13 e via via descrivendo (sino alla morte del poeta, avvenuta nel '79) la parabola conclusiva. Pur se strutturato secondo un arco di svolgimento cronologico, il libro si caratterizza tuttavia per un movimento in verticale. I testi vengono posti sotto la lente contafili di un'analisi lucida, accurata, rigorosa, ma per nulla scolastica. Ed è in specie da quest'ultimo versante che emerge una focalizzazione sul "senso del tragico cattafiano, così addosso alle cose, così prensile e dinamico" che determina una poetica della negazione più "radicale e potente" di quella che caratterizza lo stesso Montale; una negazione assoluta, che "dilaga su ogni aspetto del reale". Queste idee tuttavia non sono mai espresse dal poeta in forma di sistema (non esiste un pensiero cattafiano), filtrano piuttosto dall'ossatura stessa delle parole: "Non c'è cosa nella sua poesia -scrive infatti Luigi Baldacci in una pagina citata da Maccari -che non nasca dalla parola: dalla parola fatta arma impropria, oggetto contundente, non conseguenza logica. Non dirà mai [Cattafi] che 'la vita è male'; ma è quel martellamento, quell'ellisse sistematica e abituale di ogni passaggio o nesso che alla fine ce ne convince". La ristampa nel 2001 dell'antologia curata da Giovanni Ra-boni e Vincenzo Leotta, la pubblicazione di Ultime con la premessa di Luigi Baldacci, insieme allo spazio recentemente dedicato da alcune riviste alla figura del poeta siciliano, fanno pensare a qualche segnale positivo che potrebbe preludere a una più corposa ripresa di interesse. "Ci sarebbero dunque — si augura Maccari, ma con una punta di inevitabile scetticismo - i presupposti, oggi, per una comprensione finalmente scevra da ogni pregiudizio ideologico, da ogni sospetto di parte". Dedicato alla memoria di Baldacci di cui Maccari è stato allievo, il libro si conclude con una preziosa appendice contenente testi inediti giovanili e poesie escluse da L'osso, l'anima. ® alea.len.gri@libero.it A. Lentini è insegnante. Si occupa di scrittura e di arti visive