In primo piano Il libro di Pausa sulle violenze e sulle vendette che nel '45 hanno accompagnato, e seguito, la Liberazione è diventato uno dei casi letterari dell'ultima stagione. Il dibattito che si è subito aperto - aspro, coinvolgente - è andato ben oltre l'esame critico di un racconto a metà tra cronaca e fantasia, e ha toccato, com'era ampiamente prevedibile, i temi più controversi dell'attuale confronto politico. Abbiamo scelto perciò di analizzare il volume di Pausa in questa sezione di "Primo piano", proponendolo in due attente letture. Una semplicistica revisione di Vittorio Coletti Giampaolo Pansa IL SANGUE DEI VINTI Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile pp. X-380, € 17, Sperling & Kupfer, Milano 2003 Una volta constatato che ero stato facile profeta a prevedere che, dopo i primi, Giampaolo Pansa avrebbe potuto scrivere molti altri roman-zi-saggio con la stessa formula collaudata, avevo smesso di recensire i libri in cui il celebre giornalista racconta in forma romanzata la storia italiana del Novecento. Gli ingredienti e la miscela sono sempre gli stessi: una impalcatura fantastico-narrativa (giovani innamorati, ricerca nel passato dei propri familiari ecc.) e una vasta struttura storico-sag-gistica (la cronaca dei momenti cruciali della nostra storia recente). Il sangue dei vinti però ripresenta la stessa composizione con un tale alleggerimento e una tale vanificazione della finzione letteraria da apparire subito un libro diverso dai precedenti. Lo schema narrativo è ridottissimo: a parte la solita ben portante donna che piace a Pansa, indipendente e carnosa, e il solito uomo colto e piacente -stavolta direttamente Giampaolo Pansa, civettuolo con lei, sno-bisticamente amante dei begli alberghi e dei buoni ristoranti (col gusto di darne nome e indirizzo), efficiente e appassionato - non c'è niente. Il romanzesco è del tutto assente. Quello che conta è dunque (e solo) la massa saggistica, l'agglomerato dei dati storici: gli uccisi dai partigiani o dai loro seguaci dell'ultima ora nei primi mesi del dopoguerra. L'insieme è impressionante, e il sapere che in Spagna o in Francia c'è stato molto di peggio non consola. Per altro, nessuna novità: le esecuzioni, le vendette, le punizioni a danno dei fascisti o presunti tali erano cosa nota e che esse siano da mettere a carico quasi esclusivo dei membri delle bande rosse era ben risaputo. Bene ha fatto peraltro Pansa a raccontare di nuovo e tutte insieme aueste storie, a dare una misura (la forza dei numeri) alle lacrime e al sangue che hanno ingiustamente prolungato la guerra civile. Nessuno scandalo dunque, neppure da parte di chi, come lo scrivente, in tempi di capi del governo che assolvono il fascismo e usano il fantasma del comunismo per spaventare gli idioti vorrebbe sul tema molta cautela e chiare prese di posizione. Anche a questo riguardo va detto, per onestà intellettuale: Pansa non è accusabile di partigianeria filofascista o di faziosità anticomunista. La scelta stessa di annullare quasi del tutto la componente letteraria gli ha impedito di solidarizzare troppo con le vittime, come accade volentieri con i protagonisti di un romanzo (gli era successo di peggio, al riguardo, in libri precedenti). Il fatto poi che i commenti suoi e della bella Livia siano più di orrore per il sangue dei vinti che per quello dei vincitori può essere interpretato persino positivamente, perché la violenza dei "buoni" (per noi) è giustamente ancor più scandalosa di quella dei "cattivi". Meno convincente è forse certa lode della coerenza ("dignità e coraggio") e del sacrificio patriottico (come quello di un cecchino che uccise "solo" un partigiano) sopportato da alcune vittime delle rappresaglie partigiane. Ma, insomma, il revisionismo di Pansa, per quello che dice, non è equivoco. Quello che invece lascia perplessi è quello che lui non dice e che pure ci voleva poco a dire: una chiara distinzione tra le ideologie che hanno la violenza come metodo (e siano pure inaccettabili e ripugnanti in esso) e quelle che ce l'hanno anche come fine, quelle che inducono l'uomo a dare il peggio di sé (come è stato il nazifascismo) e quelle che gli additano un bene, sia pure utopico e disameno (per raggiungere il quale possono colpevolmente ammettere anche la violenza), come è stato il comunismo. Da questo punto di vista, ben altro senso avrebbe potuto avere, nel libro, l'intervento di Togliatti teso a porre termine allo spargimento di sangue, che Pansa vede solo come una lucida opzione del capopartito che realisticamente rimanda la rivoluzione a tempi migliori e non come il ripudio della violenza e della sopraffazione che è stato nelle radici della maggioranza degli intellettuali comunisti e che ha permesso al comunismo italiano, allora, di arginare rapidamente le vendette del dopoguerra e, più tardi, di fare e vincere la guerra contro le Brigate rosse. Se Pansa avesse letto le considerazioni di Primo Levi sui gulag e i lager in appendice all'edizione 1976 di Se questo è un uomo a-vrebbe avuto, in poche righe fulminanti, la misura, nella comune condanna, della necessaria distinzione tra i due mostri del secolo dei campi di concentramento e sterminio. Doveva essere su questo punto meno protervo e semplicista. In momenti in cui c'è chi gioca di nuovo la carta di un comunismo violento e intollerante per favorire una specie di neofascismo peggiore del vecchio (almeno nel senso che l'arma del denaro e del monopolio commerciale è più sporca e volgare di quella del manganello e delle leggi speciali sulla stampa), Pansa avrebbe fatto meglio a non offrire sponde di questo genere ai picchiatori del berlusco-nismo. Anche perché se è vero che il comunismo ha attratto (ma appunto presto irreggimentato e canalizzato in senso costruttivo) alcuni violenti, è allora vero che i residuati di quel comunismo intollerante, di un'ideologia che usa la violenza per" imporsi sono oggi tra le fila del partito di maggioranza e tra i suoi supporter giornalistici alla Bel-pietro o alla Ferrara. Non aver fatto il minimo necessario per evitare questo rischio di manipolazione della sua operazione è un grave limite del lavoro di Pansa, che non perde però, per questo, di validità, di legittimità, vorrei dire persino di nobiltà. La sinistra non deve avere, non ha paura del suo passato, perché ha ripudiato subito e non ha mai davvero avuto tra i suoi idoli la violenza e la prevaricazione: sono semmai quelli che usano oggi contro i valori della Resistenza il libro di Pansa a nascondere in bui armadi di menzogna il proprio passato ideologico, sia esso stato tra i non perdonabili alleati dei nazisti o tra i violenti vendicatori rossi dell'ultima ora. ■ Vittorio.colettiSlettere.uniga.it V. Coletti insegna storia della lingua italiana all'Università di Genova Giochi di numeri di Mirco Dondi Idlndice puntato Prossimo appuntamento Ma che cos'è questa giustizia? di Mario Garavelli Fnac via Roma 56 - Torino Mercoledì 28 gennaio 2004, ore 18 Quello che accadde dopo la liberazione è stato oggetto di indagine storiografica culminata, negli anni novanta, con l'uscita di otto interessanti libri. Anche Gianni Oliva, come Pansa, aveva proposto il tema in un'opera {La resa dei conti, Mondadori, 1999) di ampia divulgazione, e pertanto l'autore non è il primo "a spalancare una porta rimasta sbarrata". Semmai Pansa è il primo autore antifascista a recepire, in buona misura, le ragioni dei vinti, presentandole in modo in parte analogo a come i vinti le hanno proposte. Eppure, le ragioni dell'ondata di violenza post-liberazione a Pansa sono chiare. Basti osservare due sue precedenti e importanti ricostruzioni storiche, Guerra partigiana tra Genova e il Po (Laterza, 1998) o Il Gladio e l'alloro (Mondadori, 1991), per rendersene conto. E forse alla luce di quanto già affermato dall'autore in altre opere che questo libro tende a presentarsi, senza alcun preambolo, come una lunga striscia di violenza cieca. Manca una sufficiente scansione sui differenti autori della violenza (partigiani, partigiani dell'ultima ora, civili), ma anche sulle loro storie. Il ritratto delle vittime poteva essere affiancato, in alcuni casi, anche da quello degli esecutori, che spesso avevano conosciuto sulla loro pelle i metodi dei corpi della Rsi. E comunque certo innegabile che nei giorni successivi alla liberazione sia esplosa una violenza incontrollabile che ha portato anche all'uccisione di numerosi innocenti. Ma altrettanto forti sono stati gli sforzi dell'antifascismo politico, per quietare gli animi, sui numerosi giornali locali stampati dal Cln nelle varie città. Pansa cita il famoso articolo di Giorgio Amendola, apparso sull'"Unità" nei giorni della liberazione, intitolato Pietà l'è morta, dove si invitava a vendicare i caduti. Con i nostri occhi di contemporanei lo giudicheremmo un articolo irresponsabile, ma forse si poteva anche dire che Amendola aveva conosciuto il carcere e il confino. E aveva avuto il padre morto a causa delle bastonate ricevute dai fascisti. E con questo carico d'odio che si arriva alla liberazione. Nel testo non è rimarcato che la responsabilità prima delle mattanze, come le definisce l'autore, ricade sugli stessi fascisti che hanno aperto la guerra civile. Anche cercare di tenere distinta la violenza dell'oppressore dalla violenza dell'oppresso era un pegno che si doveva alla verità storica. Quello che purtroppo accadde dopo la liberazione era cioè per molti versi inevitabile e, ancora prima che terminasse 0 conflitto, tutti se lo aspettavano. Si può, anzi si deve, discutere se quella violenza sia stata eccessiva, ma il punto è che le uccisioni sono quantificate sulla base di elenchi stilati dall'Istituto della Repubblica sociale (19.801 uccisi). Per esperienza, visionando quegli elenchi, ho riscontrato marchiane imprecisioni, perché vi figurano anche vittime appartenenti al fronte della Resistenza. Eppure Pansa cita a più riprese un documento del novembre 1946 del ministero dell'Interno che a tut-t'oggi rappresenta la fonte più analitica e la base di partenza per tentare di quantificare il fenomeno (9.364 morti presunti). Perché Pansa non racconta nulla di questo documento, anche riportando riflessioni già apparse in altri testi, e delle sue conclusioni? E legittimo, all'interno di una cultura democratica che vive del confronto, accettare la ragione che ha spinto Pansa a scrivere questo libro (ricordare la morte crudele a cui vanno incontro i fascisti dopo la liberazione). E invece inaccettabile lo scarso senso critico nei confronti delle fonti, nonché l'uso quasi sistematico, in alcune parti, di ricostruzioni esclusivamente filofasciste, quando invece era possibile incrociarle con altri tipi fonti. Per questa ragione alcuni paragrafi sono costruiti con troppa precipitazione, in particolare quello sulle uccisioni dei sacerdoti. E poi: da cosa desume Pansa che alcuni comunisti uccisi dopo la liberazione siano stati vittime di regolamenti interni? Ci sono, anche se pòchi, fascisti che continuano a sparare, e del tutto ignorato è il ruolo della delinquenza che si manifesta, anche con tracce ambigue, con fuoriusciti partigiani e fascisti. La stessa menzione degli omicidi di classe è parte di un fenomeno presente, ma è proposta con una schematizzazione rude e senza curarsi troppo di indagare più analiticamente quegli eventi. E inoltre carente la distinzione delle fasi periodiche della violenza perché, con il passare del tempo, mutano gli attori e i motivi. Quindi, lo sforzo dell'autore per costruire un quadro il più possibile completo dei fenomeni violenti va, purtroppo, a scapito della chiarezza di questi stessi fenomeni. ■ mircodondi@yahoo.it M. Dondi insegna storia contemporanea all'Università di Ferrara Per lettori navigati www.lindice.com ...aria nuova nel mondo dei libri