Narratori italiani idoli sociali - potrei dire: il "drago dell'irrealtà" - che la letteratura ci aiuta a smascherare. Quando mi capita di rimproverare "moralisticamente" l'attitudine di molta narrativa attuale al travestimento autonobilitante, alla maschera ludica ed elusiva, non parlo solo di questioni letterarie. Quella perversa attitudine è esattamente la stessa che ritrovo nella società, nelle persone che frequento, nella scuola di mio figlio, sul posto di lavoro, nella lettura dei giornali e ovviamente dentro di me. Ma solo le pagine nude dei nostri scrittori migliori, la loro verità abbagliante, servono a fornirmi una bussola, e anzi mi danno un'appartenenza, una qualche "patria" - e si tratta, vorrei sottolinearlo a Silvio, di una patria conflittuale. Proprio Alfonso Berar-dinelli (forse più un comune amico e un fratello maggiore che un "maestro") ha scritto che la moderna critica militante nasce nel Settecento con Schiller e II saggio sulla poesia ingenua e sentimentale-. ricerca da parte dello scrittore di un'integrità minacciata, ricongiungimento di estetica ed etica, adesione ai principi di ragione e di libertà... Insomma, il critico militante ha il vizio originario di prendersi a cuore cose come l'alienazione sociale (e le sue mutevoli figure nella storia), il valore dell'esperienza, la menzogna pervasiva alimentata dal potere, il deperimento dell'intellettuale e della stessa funzione critica; e financo la crisi morale dell'Europa o una idea di modernità per cui valga la pena battersi (come del resto faceva Giacomo Debenedetti, pur così lontano da tentazioni ideologiche). Anche l'amato Parise non nascondeva peraltro il suo furore morale e la sua indomabile passione militante nel cuore di quello che definiva "il paese della politica". Rispondendo a un lettore sul "Corriere della sera" nel 1974, giusto negli anni del primo Sillabario, a proposito di una trasmissione televisiva con Mario Soldati, dichiara di aver provato "scoramento, irritazione e indignazione e, alla fine, vergogna" poiché quella trasmissione screditava secondo lui la letteratura presso il grande pubblico attraverso citazioni pseudoraffinate e quasi sempre pedanti: "E anche vero che molti editori gettano discredito sulla letteratura pubblicando libri che con la letteratura non hanno nulla a che vedere; ma è vero soprattutto che nel nostro paese, colpito dal flagello di un'atmosfera da basso regime (...) il discredito della letteratura fa parte di un gioco di società politica perfino inconsapevole (tanto basso è il regime) che tende al discredito di tutta la cultura attraverso uno spregio di fondo e un'attenzione di superficie". Sul persistere o meno di quell'atmosfera da basso regime vorrei discutere con Perrella la prossima volta che lo incontro. Ma devo ricordargli come il furore morale contro il discredito della letteratura e della cultura nasce dalla stessa identica radice dell'amore di Parise per i libri e per la vita, per la felicità e per la bellezza. Anzi ne è parte integrante. ■ Torbido e malinconico di Gianni Turchetta • Alessandro Barbero POETA AL COMANDO pp.184, €16, Mondadori, Milano 2003 Ci vuole indubbiamente una buona dose di coraggio per raccontare in un romanzo un personaggio come Gabriele D'Annunzio. E vale subito la pena di sottolineare che Alessandro Barbero ha messo in atto questa sua non facile sfida adoperando al tempo stesso fermezza e delicatezza, decisione nell'orientare la selezione dei dati e equilibrio nel non calcare la mano verso le direzioni, o le tentazioni verso cui la colossale tradizione critica e storiografica sull'ultimo poeta Vate ha troppe volte inclinato. Bisognerebbe, per essere un po' meno approssimativi, ricordare, con la storia di D'Annunzio, anche quella dei discorsi su di lui: e non sarebbe solo un puntiglio di precisazione accademica, ma un'operazione per molti aspetti necessaria, perché l'importanza storica di D'Annunzio risiede in non piccola misura nella sua programmatica costruzione del- la propria immagine, nella manipolazione intenzionale, e incredibilmente precoce, del proprio mito personale. Il paradosso fondante della figura di D'Annunzio deriva dalla sua geniale messa in opera di una modernissima strategia pubblicitaria, ima delle prime della storia: ma questa massiccia campagna autopromozionale era tutta al servizio della feticizzazione dell'immagine tradizionale del Poeta, per grazia divina sacerdote della Poesia, intesa come verità suprema, ultimo rifugio del sacro in un universo drasticamente secolarizzato. Raccontare D'Annunzio è oggi ancora più rischioso dal momento che, dopo un paio di decenni di rifiuto pregiudiziale, quando non di rimozione senz'altro, nell'immediato secondo dopoguerra, e dopo un periodo di deciso riia più problematico rilancio, nel corso degli anni ottanta e novanta abbiamo assistito a un'impressionante e non sempre adeguatamente meditata ripresa di studi dannunziani, che ne ha fatto addirittura l'autore italiano più studiato nel mondo dopo Dante Alighieri: con il rischio, abbastanza evidente, di mode e culti di ritorno non proprio rassicuranti. Ma forse anche la D'Annunzio Renaissance va inserita in un'inevitabile, quasi naturale alternanza di mitizzazione e demitizzazione, di, più banalmente, eccesso d'amore e eccesso di odio, o almeno di critica: quali un personaggio così non può mancare di suscitare. Barbero ha dovuto così confrontarsi con, da un lato, l'obbligo (morale) di evitare ogni indulgenza verso i miti che D'Annunzio stesso ha costruito, e che i suoi fan hanno rilanciato all'infinito, e, dall'altro lato, di non cadere nel rischio opposto e complementare di una demistificazione tutto sommato scontata. Proprio la scelta dell'impresa di Fiume poteva rendere le cose persino più difficili: infatti proprio in quell'occasione D'Annunzio cerca, in un'operazione tanto folle quanto esemplare sia sul piano storico che sul piano simbolico, di far coincidere senza residui il Mito e la Politica, il Sogno narcisistico del Poeta con la dura Realtà della storia. Il fallimento, del tutto prevedibile, dell'impresa fa sì che D'Annunzio rappresentato in quel contesto rischi di essere un D'Annunzio fin troppo facile da smontare, un uomo duramente chiamato dai fatti, e oramai senza appello, a prendere coscienza dell'inadeguatezza delle proprie parole e anche delle proprie azioni. È probabile che Barbero abbia scelto deliberatamente di rappresentare il Vate in quel drammatico contesto; ha però anche subito trovato una soluzione narrativa felice, che gli ha consentito di evitare gli opposti rischi di cui discorrevo prima, di rispettare cioè la verità storica, demistificando, come è giusto, tutto quello che c'è da demistificare, senza tuttavia eccedere: rispettando cioè anche D'Annunzio, concedendogli sia la pietas verso l'uomo, sia il riconoscimento, non meno necessario, dell'eccezionalità della sua figura, anche nei momenti del più amaro fallimento. Barbero ha infatti scelto di rappresentare le vicende dall'interno, adottando la voce e il punto di vista di Tom Antongini, che di D'Annunzio era il segretario: in questa maniera ha potuto raccontare da vicino, e dunque guardando le cose da una prospettiva tutta concreta, quotidiana e familiarizzante, evidentemente allergica a ogni sacralizzazione. D'altra parte, proprio lo sguardo di un narratore molto vicino a D'Annunzio - ma perché ha deciso di seguirlo per amore - restituisce al poeta, per quanto stanco, precocemente invecchiato, sfiduciato e malaticcio, una dignità umana e storica opportunamente irriducibile all'ottica da "buco della serratura", tipica dei camerieri e dei segretari: un'ottica che non a caso ritroviamo proprio nei volumi scritti davvero da Antongini. In questa maniera, Poeta al comando riprende un modello romanzesco antico, quello dove il protagonista è un grand'uomo, raccontato dalla voce di un narratore suo sodale, certo meno intelligente, ma incline a conservare intatta la propria ammirazione senza tuttavia perdere di vista la più comune quotidianità: in altre parole, l'Antongini di Barbero funziona nei confronti di D'Annunzio un po' come Watson rispetto a Sherlock Holmes, o come Sere-nus Zeitblom rispetto a Adrian Leverkùhn. L'operazione è decisamente efficace, anche se a tratti crea al narratore l'impaccio (sintomaticamente dichiarato) di far quadrare le limitate possibilità di conoscenza di un narratore testimoniale con la necessità di raccontare anche i pensieri di D'Annunzio. Ma nel complesso la narrazione è sempre tesa e scorrevole, e guadagna via via forza proprio grazie alla sua calcolata tendenziosità, al suo procedere tutto di scorcio, a tratti quasi ellittico. Barbero usa abilmente testi e documenti, con una calcolata miscela di rigore storico e infedeltà; basti ricordare la maliziosa scelta di usare ripetutamente testi più tardi per rendere conto dei pensieri di D'Annunzio nel 1920. Ne deriva un'immagine del Vate intensamente malinconica, molto vicina a quella che ricaviamo dal Libro segreto, che è del 1935. Allo stesso modo, l'intreccio del romanzo ci sorprende, ripetutamente, laddove tende ad assumere sfumature "gialle", e a raccontare piccole e grandi violenze, rese ancora più sconvolgenti dalla sobria e antidannunziana economia espressiva con cui vengono messe in scena. La stessa stupefacente, infrenabile vitalità di D'Annunzio, e quel suo essere al tempo stesso grande e torbido, ne ricavano ulteriore problematicità, perché finiscono per sconfinare in un territorio dove la potenza del negativo appare senza possibilità di riscatto, irriducibile, stavolta certo sì, a qualsiasi mito. ■ gianturc@mailserver.unimi.it G. Turchetta insegna letteratura italiana contemporanea all'Università statale di Milano Tascabili e curatori eccellenti Giorgio Bassani, Una notte del '43, pp. 84, € 7,50, Einaudi, 2003 (la ed. 1956) e Cinque storie ferraresi, con un saggio di Cesare Segre, pp. 300, € 17, Einaudi, 2003 (T ed. 1956). Romano Bilenchi e Paolo Cesarini, È bene scrivere poco. Lettere 1932-1984, a cura di Paolo Maccari, introduzione di Renzo Martinelli, pp. 163, € 16, Cadmo, 2003. Prima edizione di un carteggio di 99 lettere (67 di Bilenchi e 32 di Cesarini) distribuito su un arco di mezzo secolo, ma concentrato negli anni prima della guerra. "Come va? A me girano i coglioni per un sacco di cose" (Bilenchi, da Firenze di notte, 9 marzo 1938). Una lunga amicizia. Raffaele La Capria, Cinquantanni di false partenze ovvero l'apprendista scrittore, introduzione di Raffaele Manica e in appendice Omaggio a La Capria di Alfonso Berardinelli pp. 162, € 7,50, minimum fax, 2002. Diciassette testi nei quali La Capria è intervenuto su se stesso, dal 1952 al 2002, compongono una specie di autobiografia dello scrittore. Carlo Lucarelli, Il lato sinistro del cuore, pp. 365, € 14, Einaudi, 2003. Lucarelli ha raccolto la sua produzione di racconti brevi, finora dispersa. Protagonista il diavolo che sta in copertina. Sono cinquantatre pezzi e hanno sempre dettagli che fanno paura, un'arte in cui si sa quanto Lucarelli sia efficace. Alberto Moravia, La disubbidienza, introduzione di Massimo Onofri, bibliografia di Tonino Tornitore, cronologia di Eileen Romano, pp. 114, € 6,50, Bompiani, 2003 (la ed 1948). Alberto Savinio, Dieci processi, a cura di Gabriele Pe-dullà, con disegni dell'autore, pp. 82, € 8, Sellerio, 2003. Raccoglie dieci processi rac contati e illustrati da Savinio per la rivista giuridica "I Ro stri" fra il 1932 e il 1935. Paradossali riletture di casi disparati e mitizzati, da Socrate a Landru. Giovanni Testori, Il dio di Roserio, introduzione di Vittorio Spinazzola, cronologia bibliografia e nota al testo di Fulvio Panzeri, pp. 161, € 6,60, Mondadori, 2002 (1 ed. 1954). Cesare Zavattini, Io sono il diavolo. Ipocrita 1943, a cura di Silvana Cirillo, pp. 148 € 8, Bompiani, 2003. Comprende Io sono il diavolo, pub blicato nel 1941 e composto di quarantadue raccontini usciti sul settimanale "Tempo". Con una prefazione di Geno Pam paloni. E Ipocrita 1943, rifles sioni, la ed. parziale 1954 Con una lettera di Giacomo Debenedetti. Tre nomi insie me dell'intelligenza novecen tesca, Zavattini Pampaloni Debenedetti.