Storie di adolescenti di Rossella Bo Paola Mastrocola UNA BARCA NEL BOSCO pp.257, €14,50, Guanda, Parma 2004 Simona Vinci BROTHER AND SISTER pp. Ili, €8,50, Einaudi, Torino 2004 Storie di adolescenti. Isolati dal mondo perché gli adulti li abbandonano o li schiacciano con le loro aspettative, con le loro paure. Storie diversissime, per stile e contenuti, accomunate dal tentativo di dare voce alle angosce dei giovani protagonisti, di salvare qualcosa delle loro speranze. Gaspare Torrente, io narrante del terzo romanzo di Mastrocola, la solitudine ce l'ha nel sangue, nelle sue radici isolane: quattordicenne, si trasferisce con la madre a Torino, per frequentare il liceo, complice il suo eccellente rendimento scolastico, che gli impedisce una naturale carriera di pescatore. Purtroppo (I Malavoglia insegnano) l'allontanamento dalle sponde natie non è foriero di successo: l'inserimento nel nuovo ambiente è impervio, i compagni di scuola sono snob superficiali devoti a un credo modaiolo, i professori si rivelano insensibili lavativi; la madre, per arrotondare le entrate, mette su una gastronomia e non fa che confezionare polpette. Un disastro, se non fosse per zia Elsa, che si sforza di capire i turbamenti di un adolescente frustrato e inadeguato, proprio come una barca in un bosco. Il giovanotto però non demorde, vuole farsi degli amici, e per questo corregge il look, impara il gergo metropolitano, rinnega le sue origini: ma alla fine, il solo amico che trova è un escluso come lui, "l'avulso Furio". Gli anni passano, l'università porta altre delusioni, e Gaspare, ormai orfano di entrambi i genitori, decide di aprire un bar. E per fortuna che nel frattempo si è invaghito delle piante e della loro lenta, terapeutica crescita, tanto che ha coltivato un inverosimile bosco nel suo appartamento: un pioppo, una quercia, muri di edera, carrubi... E la Natura dialetticamente opposta alla Cultura, un Bosco-Mondo metafora di un'esistenza che rifiuta gli schemi cannibalici del Logos, che trasforma Gaspare in maieuta, in barista-filosofo: finalmente pacificato con il futuro, può riconciliarsi anche con il passato. Un bosco inquietante è invece lo sfondo di Brother and sister, romanzo breve di una scrittrice celebrata dal pubblico giovanile. Simona Vinci, dopo la notorietà di Come prima delle madri (2003), continua a parlare di bambini, ispirandosi a un dramma familiare realmente accaduto, cui mescola la sottile crudeltà delle fiabe. Cate, Mat e Billo, rimasti soli dopo la morte del padre e il suicidio della madre, trascorrono insieme un'ultima notte prima che i servizi sociali li affidino a un istituto. E una notte di luna piena, chiarissima e terribile, in cui sonno e veglia si alternano, così come la paura del mondo esterno cede davanti al profumo della libertà. Ma in questo contesto surreale, il nemico chi è? È l'Altro-da-sé, persecutorio - la Regina cattiva, i cacciatori, l'assistente sociale - o piuttosto l'Altro-che-è-in-noi, che soffoca ogni felicità interiore, come è accaduto alla madre dei protagonisti? La via di fuga, come la letteratura da sempre insegna, può trovarsi nell'ingenuità (quella di Billo, ancora immerso nell'infanzia), nella primitività della follia (quella di Umpa, il piccolo down incontrato durante una sortita nel bosco) o in una leopardiana solidarietà, quella che Cate e Mat, fa-tellino e sorellina, condividono nelle ultime ore trascorse insieme. Leggendo questi romanzi viene facile riflettere sulla rappresentazione dell'adolescenza che la narrativa contemporanea ci restituisce. Gli indimenticabili protagonisti di ieri, da Telemaco fino a Holden, erano ribelli, sofferenti, tesi al raggiungimento di un obiettivo o alla sua negazione. Anche gli adolescenti (letterari e non) di oggi soffrono, cercano, si ribellano, ma non godono del beneficio di un contrasto con il mondo adulto. Già, dove sono finiti gli adulti? Nei romanzi di Vinci e Mastrocola, nella migliore delle ipotesi, si sono sottratti, per fatalità o per scelta, al proprio compito educativo; quelli che non sono morti sono degli imbelli: insegnanti che non insegnano, assistenti sociali che non assistono, genitori che trascurano i figli. Certo, anche Renzo Tramaglino, Huck Finn e Frédéric Moreau erano orfani, ma lo erano all'interno di un contesto meno complesso, che offriva codici di comportamento solidi, esperimentati: oggi gli adolescenti possono al massimo scimmiottare una società fragile e nevrotica, il cui principale interesse è evitare il conflitto a ogni costo L'evanescenza di noi adulti, per giunta, non ha come unica conseguenza il fatto che, come afferma il divo Crepet, "non siamo capaci di ascoltarli", ma trascina con sé una più grave deficienza nel qualificarci come interlocutori autentici, responsabili e responsabilizzanti, sopraffatti come siamo dal desiderio di vivere - magari al posto loro - un'adolescenza infinita, profondamente narcisistica. Il ritorno allo stato di natura, al tempo sospeso che Mastrocola sembra vagheggiare, può costituire un rimedio per questa latitanza? O la cura andrebbe cercata piuttosto in una cultura che con saggezza ripristini il significato dei riti di passaggio, ovvero l'affermazione chiara di un limite al di là del quale l'adolescenza deve considerarsi conclusa? Tempus fugit, avrebbe detto il latinista Gaspare, non ha senso cristallizzarlo in una forma, per quanto seducente come quella di un'adolescenza interminabile. ■ rossella_bo@yahoo.it R. Bo è dottore in scienze letteraria Narratori italiani Ree buffone di Alberto Casadei Franco Cordelli IL DUCA DI MANTOVA pp. 213, € 15, Rizzoli, Milano 2004 IL CORDELLI IMMAGINARIO a cura di Luca Archibugi e Andrea Cortellessa pp. 356, €20, Le Lettere, Firenze 2003 Nei testi di Cordelli domina una sorta di vitale principio di contraddizione: o-gni assunto narrativo o saggistico può essere rimesso in forse e addirittura ribaltato dopo che ne sono state esplorate le implicazioni, non in maniera scientifico-sistematica bensì intui-tivo-umorale, con un a volte ironico ma più spesso sofferto rinvio alle tracce di un'esperienza personale. Questa fuga dai punti fermi si è di frequente risolta, nei romanzi, in una disgregazione non solo della trama e delle strutture tradizionali, ma anche della possibilità stessa di una chiusura coerente, essendo soprattutto le teorizzazioni sui fatti (o, meglio, sui non-fatti) a costituire il fondamento di un racconto, che non voleva essere tale per non rivelarsi eminentemente falso (e dunque, in genere, si poteva adeguatamente parlare di anti-romanzi, o di ro-manzi-non-romanzi). Con II Duca di Mantova si arriva a una nuova tappa di questo zigzagante percorso: Cordelli si espone direttamente come personaggio, che sfida nella scrittura un altro personaggio, un tempo chiamato solo Silvio Berlusconi, poi il Cavaliere (Nero), e adesso rivelato a tutti come il secondo (ossia falso) Duca di Mantova. Che il rapporto re/buffone, così come si configura in Le roi s'a-muse più ancora che nel Rigoletto, sia essenziale per la genesi stessa del testo lo testimonia il ritorno costante di riflessioni che riguardano questo nodo: ma ancora una volta l'assunto di partenza viene rielaborato. Se infatti le prime pagine pongono in termini drastici l'opposizione tra chi è scrittore per vocazione e per passione e chi si è inventato come editore-premier allo scopo di rendere romanzesco l'intero campo della politica (nel senso etimologico) in Italia, progressivamente il Cordelli-personaggio verifica non solo che una componente buffonesca è ben presente nel re, ma anche che è necessario chiedersi quanto di Duca di Mantova stia nei cromosomi di tutti gli italiani (in questo proseguendo sottilmente un'analisi iniziata nel bellissimo Un inchino a terra, 1999, a proposito di fascismo e socialismo). Quanto rimaneva implicito e al limite arrovellato nei testi precedenti diventa qui esplicito: la contraddizione dello scrittore che voleva/do- veva essere diverso da come è diventato è il tema di fondo, proprio in contrasto con come si voleva che diventasse la realtà italiana, almeno da una prospettiva di sinistra. Per questo vengono qui riprese in considerazione alcune ipotesi letterarie su com'è stata la nostra storia, da quella pseudo-psicanalitica del Gadda censore del fascismo in Eros e Priapo a quelle di Sciascia dal Consiglio d'Egitto all'Affaire Mòro: sono gli scrittori dalla vocazione all'esame dei costumi eti-co-politici a costituire gli interlocutori privilegiati del Cordelli-personaggio, che deve capire se il Duca è il risultato della modernità nella forma italiana o se è una figura da melodramma che ha usurpato tutto il potere, togliendo ogni margine di innocenza a chi sognava, nel Sessantotto e oltre, che la poesia avrebbe cambiato il mondo. Di fatto, quel che emerge dai confronti, dai dialoghi e dalle domande che il testo propone è la necessità di riportare il fenomeno del "romanzo berlusconiano" a una concezione più alta, in qualche misura astratta, del vivere e dell'essere politico: non perché non occorra un impegno nel reale (ma quale e come? Ecco la domanda, soprattutto per la sinistra), ma perché — ma è solo sul piano delle idee ■ che si può tentare di spie-Li gare cosa stia dietro il ro-H manzo che siamo costretti _JJ a chiamare realtà. Per questo, delle tante autodefinizioni che II Duca di Mantova suggerisce, la più perspicua è quella di "summa teologi co-politica", scritta da un catecumeno di incerta ma ribadita fede, da un monaco che crede, sebbene in negativo. A ripercorrere le tappe che hanno portato a questo notevolissimo esito contribuisce ora la raccolta ottimamente curata (con indici e bibliografie) da Luca Archibugi e Andrea Cortellessa dal titolo Il Cordelli immaginario. Oltre a una lunga e densa intervista all'autore, il volume presenta scritti critici già editi (dalla recensione di Walter Pedullà a Procida del 1973, all'intervento di Alfonso Berardinelli sui volumi cordelliani La religione del romanzo e Lontano dal romanzo del 2002), ma anche saggi inediti, incentrati su un tema o uno spunto di lettura (da Antologista a Witold), e finalmente adeguati per una ricostruzione d'insieme. Si colgono così le molteplici focalizzazioni con cui è stata e viene letta l'opera di Cordelli, che ne evidenziano il "narcisismo" (Cortellessa, con la specificazione di "infelice", dovuta a Massimo Raffaeli), il ruolo del "rimosso" (Marco Belpoliti) o della lotta con la "forma del romanzo" (Eraldo Affinati), nonché l'importanza della "congettura" (Enzo Golino), della "supposizione" (Giulio Ferroni), del "mischiare le carte" (Angelo Guglielmi). Insomma, un quadro frastagliato, da cui emerge ancora una volta la prismaticità di Cordelli: come recita l'ultimo dei Reperti (testi sparsi) qui riproposti: "Devo essere solo per operare / Devo essere due per essere tre". ■ Alberto.Casadei@i tal.unipi.it A. Casadei insegna letteratura italiana all'Università di Pisa Archivio di Lidia De Federicis Passato il novecento, s'archivia il postmoderno. Mutano infatti le discussioni, vengono ignare generazioni. Si scrivono sempre romanzi. Anzi, dopo la lezione delle forme semplici, di impianto narrativo semplice, si sente ora in giro l'orgoglio del romanzo. Ma su che cosa si può far romanzo da smaliziati (da letterati)? Una formula che aggancia 0 lettore culto e simpatetico postulandone la complicità anzitutto di mestiere (dunque senza innocenza); un romanzo che accetta tuttavia la sfida del presente è il falso romanzo, molto autoreferenziale. Parla della società letteraria, meglio se con i nomi veri e l'autore fra gli altri. Questa è la via maestra oggi per tematizzare l'oggi. Questo è il segnale, se riteniamo che il modo in cui l'universo letterario si racconta sia interessante per capire quel che avviene lì e altrove. Orengo, poeta e narratore, oggi ci manda, con L'intagliatore di noccioli di pesca, il comico romanzo del nostro chiacchiericcio, dunque un libro serio sugli stereotipi culturali. Continua intanto il romanzo storico, che può essere un ottimo sistema per parlare dei propri tempi e di sé (secondo il Calvino del 1959). Cosa avviene oggi nel romanzo storico? Spesso la fuga dalla storia. La forma dell'invenzione s'articola riccamente in sottogeneri. La simbologia è densa. Passa per microstorie di potere e di penuria, di amori, di pittori, e ha un ramo speciale su anni vicini. Ma se il tema nasce altrove, in una disperazione che non ha rimedio, questo sarà l'astorico filo conduttore. E a proposito di quelle altre forme, frastagliate e soggettive, spero che non ne perderemo tanto presto 1' apporto di idee, il valore attribuito all'invenzione della voce narrativa, quella che sola fa lo scrittore che dà forma alla realtà. Così si corregge un'idea solo esistenziale di letteratura. Consideriamo la scrittura di Laura Pugno. Anche lei entra nel testo con voce esplicita, da autore che ne sa più dei suoi personaggi e gioca d'anticipazione con il lettore: vedi Davide, che "saprà quello che desidera sapere" fra dieci anni. In Laura Pugno il romanzo è alle porte ma ancora resta fuori. Qui, in Sirene, conta infatti il non detto. Nel contenuto riconosciamo temi psicologici divulgati. L'antinomia di natura e cultura e l'antinomico rapporto fra gli adulti e i loro piccoli, come in Mastrocola, in Vinci. Ma l'arte specifica di Pugno è invece formale e simbolica. È nel racconto ellittico, nell'economia del linguaggio. La sua pagina concentrata richiede attenzione a spostamenti minimi. Eppure qualcosa di grave succede. Voce narrativa. "Tirature '94", Che fine ha fatto il postmoderno?, a cura di Vittorio Spinazzola (Il Saggiatore/ Fondazione Mondadori, Milano 2004); "Visitare i letterati", Che fine ha fatto la poesia, pieghevole di critica saltuaria redatto da Nicola Merola (Rubbettino, Catanzaro, 3, 2003-2004).