Narratori italiani Né fretta ne rumore di Antonella Cilento Carlo Montella DOV'È BEETHOVEN? pp. 162, € 12, Pironti, Napoli 2002 Franco Arminio VIAGGIO NEL CRATERE pp. 184, €12,50, Sironi, Milano 2003 1 raro che un luogo si offra /alla riflessione in maniera così precisa e vasta e, soprattutto, che se ne possa cogliere il passaggio del tempo come in questi mesi accade per l'Irpi-nia: l'occasione è duplice, l'uscita a breve distanza di Dov'è Beethoven? di Carlo Montella e di Viaggio nel cratere di Franco Arminio. E un piccolo evento, in realtà, percepibile nella misura ridotta in cui le geografie italiane si offrono in narrativa: se la lezione di Dionisotti a qualcosa è servita, i narratori e i poeti sembrano esserne stati i recettori più diretti e prolifici. In effetti, i due autori sono quanto di più diverso e lontano si possa immaginare per esperienze ed età, e i libri ne sono diretta testimonianza. Montella, classe 1922, è stato un Premio Viareggio nel 1954 con I parenti del Sud (Einaudi, oggi anche Avagliano) e ha al suo attivo una prolifica produzione romanzesca che attraversa almeno tre decenni della nostra letteratura. Arminio è poeta, giornalista e, come lui si definisce, "paesologo", appartiene alla generazione del 1960, ha al suo attivo pubblicazioni sul "manifesto", "Diario", "Il Semplice", una frequentazione amichevole e continua con Gianni Celati, e anche un'idea di scrittura celatiana ma personalissima. Tanto Montella quanto Arminio sono irpini, e dell'Irpinia, in forme differenti, i loro libri trattano. Dov'è Beethoven? parla di un'Avellino capoluogo della provincia irpina, e di un territorio lontano nel tempo: la ruralità degli anni trenta del Novecento ricostruita con dettaglio, ma anche l'Avellino ottocentesca, quella napoleonica, che ospitò la famiglia Hugo, di cui resta ancora traccia in una casa della cultura che era, in realtà, la villa di Victor Hugo. Arminio esplora invece l'Irpi-nia di oggi, quella dei paesi, quella post-terremoto, un'Irpinia a-sciutta, di lacrime e di gente, fatta di centri minuscoli e ricostruiti, di storie minime, di luoghi, di nomi, di persone. Un'Irpinia così concreta da diventare un sentimento del tempo e della morte. Montella racconta da lontano la sua terra d'origine, e non solo perché il tempo è passato, ma perché tutta la sua vita, dal 1937, si è svolta in un altrove, a Pisa. Arminio sceglie di restare nella sua terra, come se non potesse né scrivere né vivere se non lì. Del libro di Montella, che articola un'invenzione narrativa su due livelli, la storia dell'ingegner Emme rievocata dalla voce del narratore e gli ultimi giorni di vita dell'ingegnere narrati in presa diretta, colpisce soprattutto la consapevolezza storica, tutta racchiusa, come in una sintesi o in un bilancio, nelle prime pagine, dove quest'autore, considerato in una certa stagione della sua produzione un "neorealista comico" - un Brancati, per così dire -sfiora il saggio: "Don Matteo - anche don Pazzeo, come a volte lo chiamava l'ingegner Emme, con uno dei suoi giochi di parole - era il nostro padron di casa ad Avellino. Morì più che nonagenario, nel secondo lustro degli anni venti, il che vuol dire che doveva essere nato nella prima metà del secolo scorso. E dopo aver scritto 'secolo scorso' mi fermo quasi attonito, e cerco di far mente locale. Vedo l'Europa della Santa Alleanza, l'Italia dei Borboni, del Papa, dei Lorena, dei Savoia, e Mazzini e Garibaldi che cominciavano appena ad agitarsi; vedo i primi navigli a vapore con le grandi ruote a pale, e i primi treni temuti e scomunicati come invenzioni demoniache... Più avanti il narratore dirà ancora di essere, come Lévi Strauss, un uomo dell'Ottocento, perché, in fondo, i secoli slittano e non si può dire che l'Ottocento finisca se non nei primi trent'anni del secolo seguente. Questo senso del tempo, di appartenenza a secoli differenti, a stili e interpretazioni della vita così lontani e che, tuttavia, convivono in un presente che si è intimamente trasformato, è forse il vero tema di questo piccolo romanzo di Montella. Un senso forte, che rimanda al grande romanzo ottocentesco, per esempio nella descrizione dello sterminio dei topi che vagano nella soffitta della dimora avellinese del protagonista, che piovono uccisi dal veleno fra i bambini e le madri in abito lungo, e poi si ripopolano, invincibili. Viaggio nel cratere di Franco Arminio sceglie invece una forma anti-narrativa o meglio anti-romanzesca: è un reportage poetico (la lettera di Celati che apre il libro dichiara: "di cosiddetti scrittori sono pieni i marciapiedi, tutti con la loro piccola finzione romanzesca dove mettono in scena il loro io. Non se ne può più!") che rivendica una precisa esperienza. Il paesologo è un esperto di paesi, e per la precisione, di paesi irpini: "I libri scritti sui paesi sono rarissimi, perché gli scrittori vivono in città e quelli che vivono nei paesi pensano ancora che la vita stia in città". Arminio racconta i mutamenti vicini, talvolta li racconta così da vicino da farceli tocca- re, esercita un'anatomopatolo-gia, com'egli stesso ammette, dei paesi, di chi resta, di cosa resta. Dice, ad esempio, che per capire i paesi non si può andare in visita turistica: che da Napoli vengono tanti visitatori - l'Irpi-nia è vicina, nella geografia piana, non in quella del tempo o in quella del sentimento - che chiedono dove sono le castagne o decidono di farci la casa per la villeggiatura (i napoletani, che vengono da una città, Arminio cita Freud, che di giorno rumoreggia come un canile o una gabbia di scimmie), e rischiano di contribuire a trasformare la regione in un villaggio turistico, in un residence, perché l'Irpinia somiglia già più "alla Svizzera che alla Calabria". Così, Arminio entra nei paesi sfogliando storie e visitando tombe, le moltissime tombe, una alla volta. Con pazienza, senza fretta. Perché né la fretta né il rumore appartengono a questo libro. E questo forse è il vero punto in comune, oltre alla collocazione dei luoghi, di Montella e Arminio: non ci sono né fretta né rumore in Irpinia, né in quella lontana né in quella vicina, perché dal tempo contratto entrambe ci sembrano remotissime, eppure entrambe parlano di un presente assoluto dell'anima. E se Arminio sceglie di farlo attraverso le beghe politiche del post-terremoto, l'elenco dei finanziamenti e gli orrori edilizi, che pure accoglie e osserva, perché nello sguardo sembra in fondo esserci un perdono, una pena profonda, non per chi fa ma per ciò che esiste, Montella sogna lucidamente l'Irpinia fascista, con il pettino che simulava la camicia nera e in cui è meglio soffiarsi il naso. Quest'Irpinia dei poveri e dei ricchi, dei morti vicini e lontani, sembra insomma un ritratto fedele dell'Italia, di un paese cresciuto in fretta, che, in una vertigine compresa fra due libri, ascolta Beethoven e Chopin, cammina nella neve e in quelle stesse strade ascolta la voce di Maria De Filippi e edifica food markets. Scrive Arminio: "Il mio paese in un sabato d'aprile del 1850 era più o meno lo stesso che si poteva vedere un secolo dopo o un secolo prima. I rapporti tra uomini e donne, tra cafoni e galantuomini erano simili. Il dato comune era una specie di post-medioevo che si è cominciato a sfilacciare solo alla fine degli anni cinquanta. Questo sfilac-ciamento è diventato dopo il terremoto dell'ottanta una vera e propria faglia che ha portato il mio e gli altri paesi irpini dalla civiltà contadina all'attuale situazione che si può definire di modernità incivile. Ci fu un soffio geotermico. Poi la lunga stagione degli architetti, dei geometri, degli ingegneri. (...) Dall'anima fredda delle loro matite si è materializzata l'Irpinia che vediamo adesso". O forse, viene spontaneo chiosare, tutta la nostra nazione? ■ cilentoantonellaSlibero.it A. Cilento è scrittrice e insegna scrittura creativa La vita è una maratona di Sergio Pent Mauro Covacich A PERDIFIATO pp. 318, € 16,80, Mondadori, Milano 2003 Gli antichi confini mitteleuropei si sono allargati in una veicolazione di geografie continentali perennemente in transito. La Trieste dell'ultima fetta d'anguria di Saba, delle rose rosse di Quarantotti Gambini, della schiavitù nicotinica e poco coscienziosa di Zeno, è diventata una moderna zona di confine, il passaggio necessario alla conoscenza, al futuro. La Trieste di Mauro Covacich è maturata - di libro in libro -in consapevolezza di un'appartenenza ancor più epocale, il luogo elettivo dove la memoria combatte talvolta con la sgradevole efficienza danarosa contemporanea, in cui sono di casa alienazione e follia, paure e confronti con guerre civili vicine e sempre aperte. Il romanziere Covacich è nato forte e coinvolgente, ha mantenuto fede a una sua visione aperta - niente affatto provinciale - del tempo che viviamo, mandando talvolta in onda flash memoriali commossi e luminosi, in cui Trieste emerge come una cartolina antica dalle paturnie sconnesse dei personaggi nevrotici o sbandati che la attraversano. Con questo nuovo romanzo il narratore triestino ha raggiunto, crediamo, una misura assai prossima alla perfezione, creando una storia bella e moderna e trasportando la nostra narrativa nel mare aperto dell'Europa, là dove gli scrittori nazionali vanno in genere a rappresentare le vicissitudini della propria riserva di caccia. A perdifiato è, in assoluto, uno dei più bei libri della nostra recente narrativa, compreso com'è in uno stile folto e naturale, istintivamente letterario e tuttavia in grado di coniugare senza fronzoli o forzature il piacere della lettura e il valore aggiunto del passo antologico. Il Cd-Rom L'Indice 1984-2000 22.000 recensioni di 22.000 libri è in offerta speciale € 20,00 (€ 15,00 per gli abbonati) La vicenda è nuova e originale, legata solo in apparenza a una letteratura sportiva mai troppo praticata in Italia: qui si affronta - anche visivamente, nella ferocia esplicativa dell'autore - la maratona, disciplina eletta delle Olimpiadi, gioco al massacro in cui il corpo umano corre oltre se stesso, annullandosi in una distruzione sistematica di forze, peso, coscienza e volontà pur di raggiungere il traguardo, la vittoria dell'ultimo passo, anche senza il conforto di una medaglia. La scommessa del triestino Dario Rensich è di quelle esclusive: sesto alla maratona di New York, si ritrova adesso - in chiusura di carriera - "premiato" dalla sua federazione e mandato in Ungheria ad allenare sette diciottenni mezzofondiste preparandole a un futuro da maratonete. Lascia a Trieste la moglie Maura - granitica ex promessa non mantenuta dello sci -e l'attesa di una figlia adottiva in arrivo da Haiti. Si ritrova in un mondo vicino ma distante alla ricchezza dell'Europa più elitaria, in una località - Szeged, nella pianura magiara - dove uno scarico di cianuro ha distrutto la fauna del fiume, seminando morte lungo le sponde sulle quali le ragazze si allenano. Dario scommette sulla sua missione, ma si trova subito invischiato in una passione sfrenata per una giovane atleta del gruppo, Agota, bella e sfacciata coi suoi "occhi da scippatrice". La ragazza rimane incinta, nonostante Dario risulti da sempre sterile. Gli allenamenti - seguiti con una precisione incalzante e crescente da Covacich - si intensificano così come la vicenda privata del protagonista, ormai diviso tra un ideale futuro ungherese con Agota e un figlio suo, e un presente in cui Maura - figura eccezionale nella storia - vive un suo singolare peccato a distanza con l'amico comune Alberto, residente in California. Diremo solo che la tensione - narrativa e agonistica - cresce con una naturalezza da thriller letterario, regalandoci pagine stupende - il doloroso viaggio a Haiti per prelevare la piccola adottata, la maratona di Trieste, le rivelazioni finali di Agota - in cui Covacich costruisce un romanzo attuale e profondamente psicologico. Il lavoro sotterraneo - anche sporco, legato al doping - per ottenere un risultato è descritto con mestiere e precisione documentale, e al contempo la vicenda privata emerge ricca e commossa dalle pieghe dell'insicurezza di un personaggio inquieto e smarrito, dimostrando come la vita sia, a tutti gli effetti, una maratona massacrante dove, a ogni istante, è possibile spezzarsi senza più ripartire. Una prova esemplare, in cui anche il finale pseudoconsolatorio trova una sua ragion d'essere nella caccia alle certezze che sta sempre più minando la nostra frenetica quotidianità. ■ s.pent@libero.it S. Pent è insegnante e critico