Storia
Dalla scuola di Bielefeld
L'immeritata fama del nazionalismo
di Stuart Woolf
Hans-Ulrich Wehler
NAZIONALISMO
Storia, forme, conseguenze
ed. orig. 2001, trad. dal tedesco di Manca Tolomelli e Vito Francesco Gironda, pp. 179, € 16, Bollati Boringhieri, Torino 2002
La cosiddetta "scuola di Bielefeld", che si è affermata negli anni settanta e ottanta, e quindi un decennio dopo la Ecole des Hautes Etu-des en Sciences Sociales di Fernand Braudel, costituisce una delle imprese più riuscite del panorama accademico europeo del secondo dopoguerra. Gli storici di Bielefeld — della scuola Wehler è uno dei padri fondatori insieme a Reinhart Koselleck, Jiirgen Kocka, Hans-Jiirgen Puhle e ora Heinz-Gerhard Haupt - si sono infatti imposti con un flusso continuo di programmi di ricerca, una produzione prodigiosa di monografie e manuali, un seminario molto aperto a questioni concettuali e metodologiche, una partecipazione indefessa ai congressi internazionali. Siamo insomma dinanzi a una vera fucina di un a "nuova" storia sociale. A differenza tuttavia della scuola braudeliana di Parigi, che portava l'impronta dello strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss, caratteristica della scuola di Bielefeld è sempre sta-
La saggezza del cavallo ci insegna la non violenza, il rispetto, la fiducia e la collaborazione.
Maria Lucia Galli
Il cavallo e l'uomo
Psicologia, simbolo e mito ISBN 88-88266-07-0; pp. 176; a 18,07
La millenaria alleanza tra uomo e cavallo, i simboli, i miti, le leggende e le tradizioni che hanno unito nei secoli le nostre due specie.
Pedagogia - Didattica:
Cavalgiocare
l'arte ili educare al fascino del calmilo eoa il gioco e il movimento ISBN 88-88266-15-1; pp. 96; n 19,90
Un nuovo sistema pedagogico, che rivoluziona il metodo di insegnamento nel mondo del cavallo.
Narrativa:
Annalina Molteni Il palio del labirinto
ISBN 88-88266-20-8; pp. 192; B 15,95
Un gioco di specchi che fa intravedere ai protagonisti una via d'usata ma poi li rigetta al centro di un labirinto, rinnovando, così, il percorso iniziatico comune ad ogni uomo.
to un forte interesse per la teoria e per l'applicazione della scienza sociale americana all'analisi storica.
Wehler è uno storico prolifico, autore di importanti monografie sulla storia politica del periodo dell'impero tedesco (da Bismarck e l'imperialismo alla socialdemocrazia), di una monumentale storia sociale della Germania, oltre a sintesi sulla storia americana. Ha sempre mostrato una spiccata simpatia nei confronti delle potenzialità delle scienze sociali per l'interpretazione storica. Ha così scritto libri sui rapporti tra la storia e svariate discipline o temi, come la psicologia, la sociologia, le strutture sociali, le classi, la modernizzazione, perfino l'economia, per quanto le sue preferenze vadano in direzione della sociologia e della scienza politica. Ora, professore emerito alla fine di una lunga e stimata carriera, ha pubblicato questo contributo sul tema di nuovo centrale del nazionalismo. Contributo che è stato preceduto da uno studio su nazionalità e politica in Jugoslavia del 1980. Il libro è composto da una lunga prima parte teorico-analitica sul fenomeno storico del nazionalismo, seguita da due esempi illustrativi della formazione e dell'evoluzione del concetto e della realtà della nazione negli Stati Uniti e in Germania, e da una riflessione su ciò che Wehler definisce il Transfertnationali-smus, cioè sulla diffusione del nazionalismo nel mondo. Nel suo insieme il libro, tradotto ottimamente, risulta assai poco equilibrato per lettori non tedeschi, il che giustifica l'ampia introduzione di uno dei traduttori, Vito Francesco Gironda, che si è incaricato di collocare l'interpretazione di Wehler nel contesto della letteratura degli ultimi due decenni.
E il nazionalismo, per Wehler, in sintonia appunto con la letteratura critica degli ultimi due decenni, si presenta come un fenomeno della modernità e, più specificamente, come una risposta alle tensioni prodotte dalla modernizzazione. L'autore si concentra sulle condizioni di lunga durata e sull'innesto su di esse delle esperienze "storico-reali" di breve periodo, come una guerra o una rivoluzione. Non sarebbe improprio paragonare la sua interpretazione a una teoria ambientale. Il nazionalismo, nato e cresciuto bene nei "compiuti Stati nazionali" dell'Europa occidentale (e nello stesso clima dell'America del Nord), ha infatti sopportato male la sua adozione o "trasferta" in altri ambienti a causa dell'innaturalità del suo impianto. La qual cosa l'ha fatto diventare aggressivo o artificia-
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le. Il nazionalismo, insomma, è una espressione dell'unicità dell'Occidente perché solo in questa parte del mondo si sono consolidati nei secoli stati nazionali in cui erano già presenti forti sentimenti di identità collettiva, ossia (e Wehler a-dotta qui il linguaggio di Anthony Smith sulle origini etniche della nazione) "etnie dotate di ricchissimi repertori di tradizioni": condizione necessaria, questa, in quanto ha offerto il materiale grezzo che il nazionalismo politico, reinterpretando i molteplici passati delle etnie presenti sul territorio, è riuscito a trasformare e plasmare in un uniforme passato nazionale.
Quindi le differenze tra il nazionalismo, per così dire, "originario", e le diverse caratteristiche che esso ha assunto altrove, nell'Europa centro-orientale, e poi come prodotto di esportazione fuori d'Europa, sono spiegabili, in termini strutturali, a seconda del grado di distanza dalle condizioni degli stati occidentali. Ne deriva che la forza del nazionalismo è sorprendente rispetto ad altre ideologie, e ciò si spiega, oltre che con la sua "polivalenza" politica (che io chiamerei spregiudicatezza) nel XX secolo, con la sua identificazione con lo stato nazionale, la cui "immeritata fama" lo ha fatto diventare l'aspirazione di ogni popolo o "etnia".
Il libro riflette del resto sia i pregi sia i pregiudizi di Wehler come storico. Da una parte, al di là delle osservazioni critiche, spesso molto acute, Wehler dimostra una forte capacità analitica, soprattutto nella descrizione degli elementi caratterizzanti di ogni nazionalismo: notevole il capitolo sull'appropriazione di temi e concetti del Vecchio e del Nuovo Testamento. Dall'altra, insiste in modo dogmatico sui principi "veri" che stanno alla base della corretta analisi storica, con l'emanazione di fatwa contro i trasgressori, condannati con giudizi alquanto perentori (e-sempi: "approcci di ricerca destinati al fallimento già in partenza", il "presunto studio comparativo" di Liah Greenfield, "l'assurda tesi" di Goldhagen). Chi legge solo questo libro potrebbe concludere che, per Wehler, esista un solo metodo di analisi storica valido, il cui nume è Max Weber, con aggiornamenti della sociologia e della scienza politica americana. Come resistere dal citare gli infortuni in cui può cadere anche chi non ha dubbi? Dato che il mondo degli stati nazionali resta per sua stessa natura un sistema intrinsecamente conflittuale, "una modesta consolazione è offerta dal fatto empiricamente provato che le democrazie di per sé non sono scatenatrici di guerre". È proprio così?	■
Stuart.woolf@iue.it
S. Woolf insegna storia contemporanea all'Università di Venezia
Dopo l'8 settembre
Tutti a casa?
di Gaetano Quagliariello
Elena Aga Rossi
UNA NAZIONE ALLO SBANDO
L'armistizio italiano del settembre 1943
e le sue conseguenze
pp 336, €20, il Mulino, Bologna 2003
Gaetano Salvemini, nella prefazione all'edizione italiana di Mussolini diplomatico, enuncia una teoria sulla responsabilità storica di matrice spiccatamente individualista. Scrive 0 grande storico: "Termini collettivi come 'Gran Bretagna', 'Francia', 'Italia' sono banditi da questo libro. Le responsabilità, gli errori ed i crimini che esso descrive ricadono sugli uomini politici e sui diplomatici che presero le decisioni, o, al massimo, sui 'governi'". Per e-semplificare poi la sua intenzione di revisionare, alla luce di questi precetti, molti luoghi comuni tanto imprecisi quanto radicati, afferma che concetti collettivi quali popoli, governi, partiti al potere, agenti al servizio dei partiti al potere abbiano generato in molte menti una confusione inestricabile con il risultato, appunto, di rendere non più intelligibile l'individuazione delle responsabilità.
Questi stessi concetti potrebbero essere posti a epigrafe dell'ormai decennale lavoro di ricerca che Elena Aga Rossi conduce sull'armistizio del settembre 1943 e sulle sue conseguenze. Il suo libro, Una nazione allo sbando, è giunto oggi alla terza edizione. La nuova pubblicazione non si limita, però, a proporre al lettore una messa a punto di tesi precedentemente esposte. Presenta una documentazione, in gran parte inedita, che consente all'autrice di esporre tesi in un certo qual modo complementari rispetto a quelle che hanno caratterizzato le prime due edizioni del libro.
Dieci anni fa, infatti, la prima edizione della sua opera (0 Mulino, 1993) si segnalò per la denunzia delle colpe della monarchia, di Badoglio e degli alti gradi militari dell'esercito fascista, per le superficialità con le quali vennero condotte le trattative in vista dell'armistizio; per la mancata difesa di Roma; per il conseguente sbandamento della maggior parte dei nostri militari. La sostanza di queste tesi resta immortalata in un'immagine: quella del generale Badoglio che, la notte tra il 7 e l'8 settembre, si presentò in pigiama a cospetto di un allibito generale Maxwell Taylor, per confermare al suo ospite l'assoluto inadempimento, da parte italiana, dei preparativi convenuti per consentire a una divisione aviotra-
sportata di sbarcare in un aeroporto romano.
La nuova edizione, a fronte di una conferma delle responsabilità della classe politica monarchica e fascista, si concentra sulle reazioni che l'annuncio dell'armistizio provocò nelle differenti divisioni che componevano il nostro esercito. Sarebbe improprio affermare che la conclusione alla quale giunge l'autrice rappresenti una smentita dell'immagine del "tutti a casa". Né si può affermare che il sentimento dell'onore e del dovere, che in molte divisioni prevalse, ebbe conseguenze univoche. Per quanto eccezionali, non sono dimenticati i casi di quanti ritennero che proprio quei sentimenti avrebbero imposto di continuare a combattere accanto ai vecchi alleati. Si trattò, però, di una minoranza. La ricerca attesta come nei Balcani - e segnatamente in Albania, Grecia, Jugoslavia -, dove e-rano dislocate 35 divisioni e oltre seicentomila uomini, e dove da parte dei soldati la "casa" non poteva essere raggiunta, fu presente e diffuso il sentimento di resistere e di reagire contro i tedeschi nel nome della difesa della patria e per l'orgoglio della nazione.
La conoscenza degli esordi resistenziali si arricchisce così di una componente a lungo misconosciuta, e il quadro d'insieme che se ne ricava risulta a tinte decisamente mosse. Il dramma dell'esercito, infatti, è ricondotto alla sua cifra prevalente: quella umana, laddove le circostanze sembrano giocare un ruolo fondamentale nella scelta, e il fervore ideologico viene ricondotto a un ruolo decisamente secondario.
Le conseguenze interpretative di tale impostazione non sono di poco momento. E smentita, innanzi tutto, la contrapposizione tra fascismo e antifascismo come chiave interpretativa esclusiva ed esaustiva per la comprensione di quegli avvenimenti. Ed anche le tesi sulle conseguenze che l'8 settembre ha provocato sul sentimento patriottico degli italiani sono indirettamente investite. L'autrice non smentisce - né le sue fonti glielo consentirebbero - che per lungo tempo, nel senso comune dei nostri connazionali, il concetto di patria abbia subito un tracollo. Si limita a chiarire come tale effetto si sia realizzato, oltre che per il prevalere del senso di appartenenza partitica, anche per la sottovalutazione della componente nazionale del movimento resistenziale. E, in termini storici, l'acquisizione non può ritenersi di secondaria importanza.	■
g.quagliariello@senato.it
G. Quagliariello insegna storia dei movimenti e dei partiti politici all'Università Luiss di Roma