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bssiern. 11 Non riportiamo indietro l'orologio della storia
di Pietro Petraroia
Il merito maggiore del libro di Salvatore Settis Italia S.p.a., giustamente apprezzato da molti recensori, è quello di vagliare con acribia tutti i luoghi comuni diffusi negli ultimi venticinque anni in fatto di gestione di beni culturali, dimostrandone la concreta perniciosità per le politiche pubbliche. Il limite più visibile è forse quello di non prendere in esame adeguatamente le cause remote e le modalità prossime dell'inefficienza dell'azione di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale: vedendo che il ministero titolare dei beni culturali è presentato come l'unico apparato pubblico cui si possa fare appello anche nel futuro per la salvaguardia del patrimonio culturale, mi chiedo se ne siano conosciuti bene le insufficienze e i problemi strutturali; e mi chiedo anche perché non si guardi al nuovo quadro istituzionale che va maturando nel nostro paese come a un'opportunità, nonostante talune pecche del testo costituzionale.
A me, che dall'apparato statale provengo, avendone a-vuta qualche responsabilità in anni non lontani, molte affermazioni dell'autore non possono che procurare gratificazione, riconoscendo in esse valori per i quali ho lottato e che spesso ho avvertito incompresi da parte dei decisori politici. Eppure quella di Settis mi sembra una visione delle politiche culturali non sufficientemente interessata alla necessità di coniugare una metodologia nazionale di approccio alla valorizzazione dei beni culturali con gli aspetti territoriali del governo degli interessi generali a essi collegati.
Per spiegare che cosa intendo dire, provo a fare (seguendo il suo metodo espositivo) un passo indietro nel tempo.
Nei decenni successivi all'unificazione nazionale si è affermata l'esigenza di creare un organismo nazionale per il censimento e la salvaguardia dei monumenti e delle opere d'arte, che sostituisse la pluralità di strumenti, organismi, norme propri degli stati preunitari. La forte spinta alla creazione di un'organizzazione centrale fu sostenuta da vasto consenso, non soltanto nell'emergente e ristretto gruppo dei "conoscitori" d'arte, ma anche in più vasti ambiti sociali: il ceto medio (nel quale trovava i suoi soci più entusiasti il nascente Touring club italiano) vedeva nella possibilità di accedere alle testimonianze archeologiche, monumentali, artistiche, senza più confini di stato da superare - fisicamente, ma anche in modo mediato dall'editoria e dalle
nuove discipline storico-criti-che - quasi un segno di riscatto e di libertà sociale.
L'idea che la salvaguardia del patrimonio artistico e storico venisse affidata a una "burocrazia tecnica" - in fondo recuperando l'organizzazione e la normativa dello Stato pontificio - diffondendola sul territorio nazionale mediante appositi uffici "periferici", dislocati presso i complessi museali e monumentali che erano stati il vanto degli stati preunitari, prese corpo lentamente ma in modo sempre più esplicito, sino alla creazione delle soprintendenze.
Una complessa e lunga sequenza di passaggi normativi, istituzionali, organizzativi, di certo non scevri da contraddizioni, insieme all'affermazione di una forma statuale autoritaria e cen-
statali strictu sensu. Mentre per le infrastrutture non culturali si lanciò un'imponente azione di investimenti (da un lato con il rilancio dell'Iri, dall'altro con le nazionalizzazioni), al patrimonio storico si dedicò piuttosto l'attenzione di pochi intellettuali, che lamentavano il rischio che lo sviluppo industriale ed edilizio generasse la distruzione del patrimonio monumentale e paesaggistico.
La marginalità e la specialità dell'approccio delle politiche pubbliche per il patrimonio culturale ebbe esito - a conclusione dei lavori delle commissioni parlamentari Franceschini e Papal-do - nella creazione di un Ministero per i Beni culturali e ambientali (1974-75), immaginato e fortemente voluto da Giovanni Spadolini, salutato da tutte le
tralizzata come quella fascista, crearono le condizioni di contesto adatte per l'emanazione, fra il 1938 ed il 1941, di un insieme di norme statali relative al patrimonio storico e alla pianificazione degli usi del territorio, che pose gli organi dello stato, ed essi soltanto, al centro di ogni e qualsiasi processo afferente al patrimonio culturale del paese.
Si consolidò in tal modo - con poche eccezioni - il depauperamento delle professionalità tecnico-scientifiche presso le realtà locali e, per contro, si ebbe una loro progressiva concentrazione nell'ambito strettamente statale.
Questa situazione squilibrata fra poteri/competenze statali e poteri/competenze locali si accentuò dopo la seconda guerra mondiale, nella fase della ricostruzione, allorché la priorità (per certi versi ovvia) data alle infrastrutture non culturali da parte dei partiti politici alla guida del paese declassò ad ambito tecnico non prioritario l'intervento di recupero del patrimonio edilizio e culturale storico, che, peraltro, permaneva ormai saldamente nelle competenze
forze culturali e politiche come la soluzione degna per i timori degli intellettuali impegnati nella denuncia del saccheggio del patrimonio storico e del paesaggio italiani: proprio quest'atto istituzionale, infatti, fu la sanzione della marginalità dei beni culturali e ambientali nelle politiche di sviluppo del paese, come Settis perfettamente riconosce, separate da allora in poi dal mondo della ricerca e della docenza universitaria. Nonostante si provvedesse subito dopo a riclassificare gli interventi di restauro statali come investimenti (1976-77) e nonostante l'Istituto centrale del restauro diretto da Giovanni Urbani lanciasse nello stesso momento (1976) il suo "Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria", le politiche ministeriali esaltarono sempre di più i grandi restauri episodici e lasciarono pochissimi mezzi (come ben sanno in particolare gli archeologi) alle opere di manutenzione ordinaria.
Di fatto, la logica della programmazione che ne derivò fu incapace di coordinare un approccio territoriale allo sviluppo e alla qualità dell'ambiente ita-
liano, dove natura e storia si intrecciano a ogni passo: mentre alle regioni venivano trasferiti (1972-77) poteri significativi, dalla pianificazione urbanistica alla tutela dell'ambiente, non si promuoveva alcun serio raccordo fra le politiche territoriali e quelle sui beni culturali, come se non fosse dimostrato (da Antonio Cederna allo stesso Giovanni Urbani) che la gran parte dei danni al patrimonio paesistico e culturale vengono sia dalla mancanza di manutenzione, sia da restauri errati sia, e soprattutto, da cause di natura ambientale e antropica più generali (inquinamento atmosferico, terremoti, dissesto idrogeologico, urbanizzazione speculativa ecc.).
In questo modo, l'azione di salvaguardia rimase una prerogativa pressoché esclusiva degli uffici statali del ministero, ormai titolare esclusivo dei poteri pubblici nel settore, ma con armi totalmente o quasi spuntate, se si eccettua la mera azione di "blocco" esercitata sulla base dei vincoli: importantissima e preziosa, ma in fondo di carattere quasi residuale, incapace strutturalmente di governare politiche di sviluppo armonizzate con la valorizzazione del patrimonio storico-am-bientale. Così, mentre si consolidava la totale separazione fra i soggetti pubblici titolari di poteri legislativi nell'approccio al territorio, il ministero diveniva sempre più marginale non solo nelle dotazioni finanziarie (costretto a chiedere continue leggine speciali di finanziamento con regole attuative sempre diverse), ma soprattutto nella stra-tegicità del ruolo e nella capacità di adeguamento organizzativo: se ne videro le chiare conseguenze anche nel declassamento delle retribuzioni dei dipendenti.
La riforma del ministero, attuata dai ministri Veltroni e Melandri nella passata legislatura e tuttora in corso, interviene in questo contesto (dal 1998 in poi) producendo un forte disorientamento nelle strutture, che va ben oltre una fisiologica fase di riorientamento organizzativo; soprattutto nessuno chiarisce, in questi anni, perché e in vista di che cosa ci si riorganizza.
Si tocca così una fase di gravissima crisi, nella quale siamo ancora immersi, evidenziata dal professor Settis nel suo libro, ma da lui un po' sottovalutata, forse anche per la fecalizzazione della sua analisi sulla problematica attualissima della sdemanializza-zione del patrimonio statale: problema certo di grande peso, ma che non può essere affrontato ignorando lo stato reale dell'amministrazione statale e le nuove funzioni di governo alle
quali tutti i soggetti pubblici sono chiamati dalla riforma costituzionale.
In questo contesto, a dir poco drammatico, l'esigenza di risanare la finanza pubblica senza rallentare gli investimenti (il patto di stabilità riguarda la spesa corrente) fa emergere imprevedibilmente una nuova opportunità: quella di superare la partizione rigida fra soggetti privati e pubblici e, soprattutto, fra soggetti pubblici statali, territoriali, locali in merito all'uso di risorse da destinare allo sviluppo territoriale: è del 1996-97 il rilancio, nella legge finanziaria, della cosiddetta "programmazione negoziata", mirante a coordinare risorse e obiettivi pubblici in modo unitario a livello territoriale, captando anche investimenti privati mediante progetti integrati. La Lombardia, prima fra le regioni italiane, finalizza questa modalità contrattuale agli interventi sul patrimonio culturale: a Milano il 26 maggio 1999 viene firmato il primo accordo di programma-quadro di questo genere.
Analogo spirito cooperativo emerge anche nel decreto legislativo n. 112 del 1998 ("Bas-sanini due") ove si stabilisce (art. 149) che metodologie unitarie di catalogazione e restauro vengano emanate dallo stato, ma che alla loro predisposizione cooperino le regioni. Questo approccio viene confermato dalla produzione - totalmente condivisa da ministero, regioni, Anci e Upi - degli standard (norme tecniche e linee guida) sulla gestione dei musei da trasferire agli enti locali. (Cfr. D.M. 10 maggio 2001 "Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei. Art. 150, comma 6, D. Llgs. n. 112/1998". Prodotto come e-sito di un lavoro promosso dalle regioni e condotto d'intesa con Anci e Upi, la partecipazione di Icom e Anmli, il documento, articolato in norme tecniche e linee guida, viene ormai ritenuto punto di riferimento per la gestione dei musei in Italia e, in questa prospettiva, è stato formalmente recepito, ad esempio, dalla Regione Lombardia. Cfr. la deliberazione della Giunta regionale 20 dicembre 2002,. n. 7/11643 "Criteri e linee guida per il riconoscimento dei musei e delle raccolte museali in Lombardia, nonché linee guida sui profili professionali degli operatori dei musei e delle raccolte museali in Lombardia ai sensi della legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1, commi DODI", pubblicato sul Bollettino Ufficiale della regione Lombardia il 16 gennaio 2003 (2° supplemento ordinario).
In dissonanza si pone invece oggi l'interpretazione corrente del nuovo titolo V della Costituzione, nella forma in vigore dal 2001, rimettendo in discussione il principio (dato per scontato nel 1977, con il D.P.R. 616) che le regioni debbano farsi carico di concorrere alla tutela dei beni