N. 7/8 7 Narratori italiani Ex sessantottini torinesi nel limbo della banalità Forse la festa non è mai cominciata di Marco Belpoliti Lidia Ravera LA FESTA È FINITA pp. 277, €15,80, Mondadori, Milano 2002 Dell'ultimo libro di Lidia Ravera, La festa è finita, non so bene cosa pensare. Dal punto di vista letterario non è un gran libro, per quanto non sia scritto male e contenga anche pagine più che discrete. Ma è il senso di questo romanzo, l'idea di scri- vere e pubblicare oggi, nel 2002, un romanzo del genere che lascia perplessi. Il libro rac- conta la storia di un gruppo di cinquantenni torinesi ex mili- tanti politici nel Sessantotto. Tre figure chiave con un con- torno di comparse: Carlo, lea- der del gruppo e ora direttore d'orchestra, che vive negli Stati Uniti e toma a Torino per un concerto; Alexandra, sua fidan- zata di un tempo, donna sola, ex insegnante, dedita al volon- tariato e all'assistenza degli an- ziani; Angelo, ex operaio Fiat, cacciato durante le lotte sinda- cali, uno spostato che vive alla giornata, incapace di ritrovare un vero baricentro. In effetti, salvo uno di loro che fa il poli- tico di professione, tutti gli ex ragazzi del Sessantotto sono, a diverso titolo, degli spostati. Vivono nel passato, incapaci di evolvere verso il futuro. In una sorta di eterno presente-passa- to. Per farcelo capire meglio - come se non bastasse il resto - Lidia Ravera, mette in scena la figlia di imo degli ex sessantot- tini, che di mestiere fa la poli- ziotta. Di certo anche l'autrice, che come sappiamo proviene da quelle esperienze politiche, è fissa in "quel tempo", su cui ri- toma da almeno vent'anni con libri e racconti di varia caratura letteraria e intellettuale. La festa è finita è un libro melanconico, ma non di una malinconia strug- gente e implacabile. E melanco- nico a metà, come se chi l'ha scritto aderisse e non aderisse a quel medesimo presente-passato che sta raccontando. Il romanzo è ben congegnato, funziona co- me la sceneggiatura di un possi- bile film, con cambi di scena, piccole digressioni, la presenza di un tema centrale - il rapimen- to di Carlo ad opera di Angelo -, che funge da asse portante. Fun- ziona come un telefilm, magari a puntate, oppure un lungome- traggio (basta non affidarlo a Bellocchio o a Moretti, forse a Salvatores sì). Ha ritmo narrati- vo, e produce moderate attese. Ma è la lingua che non funzio- na. Una lingua media, come in realtà sono medi i personaggi del racconto, capaci di pensieri e sentimenti medi. Tra loro e l'eccezionale passa- to (così almeno sembrerebbe), cui si rivolgono di continuo con pensieri e omissioni, non c'è al- cuna continuità: le intenzioni del passato sono molto meglio, non solo di quelle del presente, ma anche di loro stessi. È Lidia Ravera che li ha voluti così. For- se si rispecchia in loro, nella lo- ro medietà; di certo non li ama, ma non li detesta neppure. So- no in una via di mezzo, vivono in una sorta di limbo. Né buoni né cattivi; personaggi banali, cui è capitato qualcosa di trop- po grande. Ma poi è davvero così? Cosa è stato il Sessantotto? Un "gran- de" momento? Boh. E libro non contiene nessun vero giudizio sul Sessantotto. O meglio: picco- li giudizi, poco più che battute. Così che il lettore non riesce a formarsi un'immagine di quel periodo, se non attraverso le ti- rate degli ex compagni di lotta, le loro piccole verità. Solo Ange- lo sfugge, almeno in parte, a questo. Ma perché - appunto - "angelo", alieno, diverso, e che per questo finisce ma- le, ed è sepolto ac- compagnato da un melenso e falsissimo discorso di Carlo, che è solo l'ulteriore stig- ma della loro differen- za di classe: Angelo è e sempre resterà, anche dopo la morte, un proletario; peggio: u- no sfigato. Tutti gli al- tri sono dei buoni borghesi. Lidia Ravera non li odia, non li può odiare, perché probabilmente in parte si rico- nosce in loro. E tuttavia avrebbe potuto benissimo odiarli, ma non ci riesce; non è spietata e, solo a tratti, autocritica. Li com- piange e si compiange. Ha scrit- to un libro che di certo non ama, ma neppure respinge. Un ro- manzo del limbo. Alla fine il lettore non può che restare perplesso di fronte a un romanzo inconclu- so, che lascia tutto sospeso. Co- me se la festa non fosse neppu- re incominciata. Ma quale fe- sta? Il Sessantotto come festa? O la vita come festa? Da nessu- na parte nel libro c'è qualcosa che faccia supporre l'esistenza passata di una festa, un mondo rovesciato trasgressivo, ribalta- mento delle logiche consuete. Quali siano queste logiche, Li- dia Ravera non lo dice, per quanto ci vada vicino, là dove è più cieca come narratrice, come dimostra uno dei microepisodi del libro, l'incontro tra Angelo e una signora della buona bor- ghesia, la quale è disposta a fare l'amore con quello sconosciuto che si ritrova all'improvviso in casa. A pensarci bene, tutto il li- bro è dominato dalla logica del- l'impulso: cieco, im- provviso e sovrana- mente casuale. Non c'è alcun disegno, o come si diceva un tempo, nessuna teleo- logia. Quasi ogni elemen- to nel ricordo dei pro- tagonisti è segnato dal pungiglione della no- stalgia. Ogni cosa pri- ma che si compia è già rimpianta. Ma non si sa bene - da qui la perplessità - cosa sia quella "cosa". Così è anche il confronto con la città in cui si svolge la storia, Torino. Una città descritta seguendo la falsa- riga di una collezione di istanta- nee sfuocate e parziali, cartoline che la raffigurano attraverso i suoi luoghi più noti. Un roman- ziere, di solito, la città ce la fa ve- dere mediante dettagli, partico- lari, descrizioni laterali, oppure la prende di petto, ne fa un per- sonaggio. Lidia Ravera a tratti ci prova, però senza convinzione. Segno che l'ossessione che la muove non è vera e profonda, oppure che la materia - il passa- to - la trattiene ancora al di qua di quella soglia dopo la quale co- mincia davvero un racconto dei fatti veritiero, spietato, cinico e pienamente sentimentale. Pecca- to, perché, nonostante tutto, una sua verità da raccontare Lidia Ravera l'avrebbe. ■ mabelpo@tin.it Ravera e il Sessantotto Lidia Ravera (1951) è nata a Torino e se n'è staccata dopo l'esa- me di maturità, a diciannove anni. È vissuta a Milano, a Venezia, infine a Roma, dove risiede. A Torino è tornata per scrivere, prima del romanzo La festa è finita, il saggio che lo anticipava, Né giovani né vecchi (Mondadori, 2000): per andar in caccia dei coetanei, scovati con "la grazia attenta e la malinconia" che vi ha riconosciu- to Enzo Siciliano. (Eppure la caccia incomincia così: "Del santo sessantotto, il giubileo del giovanilismo laico, che mi vide giova- notta emergente e ancora oggi mi deposita addosso tutto un liqua- me di proiezioni e immaginazioni di chi non c'era, non ricordo al- l'incirca un accidente"). Lidia Ravera ha scritto parecchi libri, di narrativa e altra prosa, sulla deriva del sessantotto e il divario delle generazioni (Ammazzare il tempo, 1978; Per funghi, 1987; Voi grandi, 1990; Nessuno al suo posto, 1996), ma quel che l'ha segnata è l'esordio del 1976, assieme Marco Lombardo Radice, sotto gli pseudonimi di Rocco e Antonia, con il romanzo breve Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, accompagnato da un dialogo-intervento di Giaime Pintor e Annalisa Usai nella collana "Il pane e le rose" di Savelli, editore piccolo e militante. Del grup- petto d'autori la Ravera è l'unica che ha voluto la carriera lettera- ria, diventando scrittrice, sceneggiatrice, giornalista (Lombardo Radice, di professione psicoterapeuta dell'infanzia, è morto nel 1989, nel 1997 è morto Giaime Pintor, figlio di Luigi). Scrittrice di professione, Lidia Ravera usa spesso la maschera dell'ironia: "Un'antesignana del genere" ha scritto di sé quando si è profilata la moda dell'erotismo femminile (in "l'Espresso", 3 giugno 1990). E anche:" La mia carriera letteraria ha avuto inizio con un finale, Porci con leali, gran successo di pubblico, grande enfasi sociologi- ca" (in "Tuttestorie", n. 1, dicembre 1990, nell'autopresentazione del racconto Categorie morali e zucchine lesse). Oggi collabora co- me opinionista al "Corriere della Sera" e a "l'Unità".