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Id umorismo politico di Michael Moore contro la cultura della paura
American Beauty
di Tiziana Magone e Giuliana Olivero
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Diventato famoso per aver gridato due volte "Vergogna" a George W. Bush dal palco del-l'Academy di Hollywood dopo aver vinto l'Oscar per Bowling for Colombine (già l'anno scorso premiato dalla giuria a Cannes), Moore ha quaranta-nove anni, vive a New York ma è originario di Flint, Michigan, rampollo di una stirpe di operai della General Motors (anch'essa originaria di Flint), "...ma la catena di montaggio non faceva per me". L'alternativa è stata il giornalismo: prima sulla "Michigan Voice" e poi con i programmi televisivi a tema sociale TV Nation e The Awful Truth, trasmessi su reti pubbliche a bassissima audience.
Nel 2001, un anno prima che uscisse il film della notorietà (girato dopo alcuni corti e Roger & me, l'altro suo documentario del 1989), Moore ha pubblicato Stupid white men (trad. dall'inglese di Edoardo Brugnatelli e Matteo Colombo, pp. 305, € 14, Mondadori, Milano 2003). In Italia il libro compare in aprile, nel pieno della guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq - guerra che l'autore avversa con tutto se stesso: "a war for ficritious reasons", l'ha definita ricevendo l'Oscar -, con l'aggiunta di una postfazione intitolata Le tristi e sordide vicende di Bin Cheney e di Bin Bush. (Non a caso, ha annunciato che il suo prossimo film - ancora un documentario: "I like nonfiction, yet we live in fictitious times" - sarà incentrato sui legami tra la famiglia Bush e i Bin Laden e racconterà cosa è successo dopo ITI settembre e come l'amministrazione Bush ha piegato un evento tragico ai propri scopi).
Gli "stupidi uomini bianchi" sono ovviamente Bush jr. e il suo entourage, attaccati con estrema durezza da Moore in primis per la truffa elettorale - definita senza mezzi termini "un colpo di Stato molto, molto americano" - di cui segue tutto il percorso, dalle contraffazioni delle liste elettorali fino al "Who s who del golpe", cioè la fitta rete di interessi finanziari che lega fra loro i membri del governo, "un regime intento a riempirsi le tasche", il cui scopo "è quello di sommare il suo potere economico e il suo potere politico (...) per governare il paese e per aiutare i suoi amici a diventare ancora più ricchi strada facendo". Questi sono i toni. Ma non una sola parola è detta a caso, ogni conclusione si basa su notizie accertate, il libro è costruito su una documentazione minuziosa e quasi maniacale, con sedici pagine di "note e fonti".
In realtà sono più libri in uno, con una densità che rende impossibile un resoconto esaustivo. Le tematiche vanno dalla mancata difesa dell'ambiente, al senso di superiorità degli americani, le esasperate misure sulla sicurezza, il baratro che separa sempre più i ricchi dai poveri, il razzismo e la mancanza di pari opportunità per le minoranze. Inoltre, mentre "il nostro Idiota-in-Capo non fa nulla per nascondere la propria ignoranza - addirittura se ne vanta", la situazione del sistema scolastico americano e dell'istruzione in generale è disperata. (Il regista ha recentemente donato 25.000 dollari all'American Library Association per l'acquisto di libri: "nel suo primo bilancio Bush ha proposto di tagliare i finanziamenti federali alle biblioteche (...) del 19 per cento", in una situazione già molto carente, in cui, da quando Nixon nel 1974 decretò che i fondi federali per l'educazione potessero essere spesi dagli stati come volevano, "furono pochi gli stati che scelsero di spendere i soldi in biblioteche e cominciò la valanga").
Il discorso di Moore entra poi dettagliatamente nel merito di insegnamento, comportamenti e aspettative nella scuola, e il ritratto è a dir poco sconsolante. In un paese in cui 44 milioni di persone (su 280) non sono capaci di leggere e scrivere a livello di quarta elementare, e solo ITI per cento legge un quotidiano, forse non è un caso che un quarto delle scuole pubbliche abbia dichiarato inadeguati i propri edifici, che in una scuola su quattro si studi su libri di testo anteriori al 1980 o più vecchi, che gli insegnanti siano sottopagati e carenti per numero e formazione. In compenso, poiché i teenager da soli hanno speso nel 2000 più di 150 miliardi di dollari, le sponsorizzazioni di programmi e attività scolasti-
che sono aumentate del 248 per cento negli ultimi dieci anni. Libri di testo con i marchi Calvin Klein e Nike; un buono per una Pizza Hut agli studenti che raggiungono un certo obiettivo di letture; computer donati da Campbell's Soup alle scuole che spingono i genitori a comprare i loro prodotti ("Etichette per l'Educazione"); corsi di economia fomiti dalla General Motors; lezioni preparate dalla ExxonMobil sulla "fiorente natura" di Prince William Sound, teatro del disastro ecologico causato dalla perdita di petrolio di una centrale Exxon; 8 milioni di studenti che in aula guardano quotidianamente 12 minuti di Channel One Television, programma scolastico di notizie (20 per cento) e pubblicità (80 per cento); ricerche di mercato svolte durante le ore di lezione; e
-	dilaganti - accordi esclusivi tra scuole e produttori di bibite. Ad esempio: a Colorado Springs il distretto scolastico riceverà 8,4 milioni di dollari in dieci anni se riuscirà a vendere almeno 70.000 casse di prodotti Coca-Cola all'anno, ragion per cui è stato "consigliato" ai presidi di dare agli studenti accesso illimitato alle macchine distributrici e lasciarli bere Coca-Cola durante le lezioni. In Georgia, uno studente che in occasione del Coca-Cola Day della sua scuola ha indossato una maglietta della Pepsi è stato sospeso per un giorno "per 'comportamento distruttivo che mirava a dare un'immagine negativa della scuola'".
Proprio gli aspetti repressivi giocano un ruolo non da poco in un sistema scolastico che per Moore ha finalità ben precise. "Recentemente ho visitato una scuola (...) Nessuno si azzarda a vestirsi di nero o in modo originale o 'selvaggio'. Il farlo equivarrebbe a un immediato viaggetto nell'ufficio del preside - dove lo psicologo scolastico ti aspetta per accertarsi se quella T-shirt 'strana' che indossi significa che hai ^intenzione di far fuori a fucilate la classe (...). Grazie a questo bel sistema i ragazzi imparano a soffocare ogni forma di espressione personale. Imparano che è meglio volare bassi per non avere grane. (...) E tanti auguri di una bella vita produttiva a voi, membri ben inquadrati e attivi nella nostra fiorente democrazia! ".
Questa critica radicale a un sistema paranoide che non educa ma genera "potenziali sparatori scolastici" è anche il nucleo attorno a cui si dipana Bowling for Colombine. Dall'episodio in cui
-	davvero - un paio di adolescenti hanno "fatto fuori a fucilate" compagni e insegnanti, ciò che il film ritrae - passando per i nastri delle telecamere della Columbine High School, il fanatismo sul "diritto alle armi" di Charlton Heston, attore premiato con l'Oscar e presidente della National Rifle Association, i pensieri di un giovane che si fabbrica il napalm in casa con le istruzioni di un manuale comprato per corrispondenza, l'assassinio di una bimba di sei anni per mano di un altro bimbo di sei anni - è "l'anima violenta dell'America".
L'approccio apparentemente ingenuo di Moore ha in realtà alle spalle un'architettura che agisce come un serrato ragionamento. Dal singolo caso l'obiettivo si allarga. Negli Stai Uniti ogni anno avvengono più di 11.000 omicidi mentre negli altri paesi occidentali appena alcune centinaia. Perché? Le ipotesi più comuni vengono via via empiricamente verificate e poi scartate. Dunque, dopo un'ora di ragionamento filmico si è capito che i film violenti, i cartoni animati violenti, i videogiochi violenti, Marilyn Man-son... sono diffusi ovunque e non hanno alcun nesso causale con la violenza praticata. La grande presenza di armi è solo una condizione necessaria ma non sufficiente, se nel vicino Canada ce ne sono altrettante, ma sparano solo durante la stagione della caccia. L'elemento decisivo sta nella "cultura della paura". La paura, continuamente tenuta viva dai mezzi di comunicazione, assume le più diverse forme. Può essere paura di perdere il lavoro o la casa, ma anche delle api assassine e dei neri, del terrorismo e dell'antrace.
Le accuse di Moore sono dissacranti. Lui però, non urla, non alza neppure la voce, non aggredisce, non si circonda di popolo protestatario. Non è un capo e neppure un tribuno. E una persona educata e intelligente, che agisce politicamente facendo documentari. (L'uscita del nuovo film sarà a ridosso delle elezioni presidenziali dell'autunno 2004: "C'è chi programma le sue uscite pensando agli Oscar, io invece programmo i miei film per le elezioni"). Malgrado le sue critiche feroci all'attuale presidente e ai Repubblicani suoi predecessori, Moore non si riconosce affatto nel Partito democratico. Nelle elezioni del 2000 ha sostenuto Ralph Nader, il terzo candidato a cui "i Baby-Boomers danno tutta la colpa della sconfitta elettorale di Gore". Anche in merito alla crisi dell'industria e del lavoro, che ha affrontato in Roger & me, Moore è stato chiarissimo. "Sono certo che i Democratici non rappresentino affatto la salvezza dei lavoratori americani. Anzi, penso che siano loro il problema. Creano l'illusione della speranza. Quello che io voglio mostrare alla gente è che abbiamo un sistema mono-partitico a due teste".
Roger & me raccontava passo passo come la General Motors ha trasformato Flint in una città fantasma, licenziando in una decina d'anni, gli ottanta, circa 50.000 persone, vale a dire la metà delle maestranze GM della città: un evento di proporzioni senza precedenti nella storia americana. Nel film Moore cerca in tutti i modi di incontrare l'amministratore delegato Roger Smith per invitarlo - con il suo tipico candido sarcasmo - a bersi un paio di birre a Flint e fare due chiacchiere con lui. Nella sua vana ricerca, incontra il dramma dei disoccupati, che presto diventano anche senzatetto, e si imbatte nei personaggi più inverosimili che avviano strampalate iniziative volte a salvare Flint dal disastro. Ma lo scenario è e resta disperato.
Pur nella condivisibile, obiettiva, durezza con cui presenta la realtà, il pensiero di Moore si ispira a un buon senso un po' naif, la sua critica è rivolta alle storture e alla mancanza di etica del sistema americano, non al sistema in se. In un'intervista ha sostenuto che, al posto di Roger Smith, lui avrebbe tenuto le fabbriche aperte. "L'anno scorso alla GM hanno avuto 5 milioni di dollari di profitti! E questi sono profitti, ma loro vogliono di più! Sono avidi! Non diranno mai la parola 'basta'".
Eppure non è nemmeno una critica qualunquista, quella di Moore, affatto. E una critica fondata sull'idea di una presenza politica nella vita di tutti i giorni, nelle scelte che si fanno. È la critica a un sistema che, facendo leva sulla paura, riduce gli individui a perdere razionalità e autonomia di pensiero, in una sorta di regressione collettiva. Ma ha anche molta fiducia nel fatto che esiste ancora un'America reattiva. Che non è soltanto quella degli intellettuali e artisti che gli ha fatto vincere l'Oscar, bensì quella che ha reagito precipitandosi in massa l'indomani a vedere i suoi film o comprare il suo libro o visitare il suo sito (www.michaelmoore/com).
Certo, anche questo fa parte del gioco mediatico che si autoalimenta, fino a renderlo ciò che giornalisticamente si definisce "fenomeno". Però è altrettanto vero che Moore, con la sua stazza da orso e il suo incedere da Pluto, veicola una sostanza densa e non vacua. Il suo umorismo esilarante dimostra che si può parlare di argomenti ad alto contenuto politico in modo semplice ma non semplifi-catorio; che per farlo non è necessario essere seriosi né noiosi; che il documentario impegnato e militante - di lunga e nobile tradizione - può ibridarsi col ritmo del linguaggio televisivo ed essere distribuito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo con un grande successo di pubblico. Insomma, se 0 crogiolo di popoli è ancora lontano a venire, il meticciaggio dei mezzi comunicativi ha trovato in lui un felice punto di approdo. ■