Narratori italiani Il Polo Nord è un pan di 2ucchero di Carlo Lauro Emilio Salgari AVVENTURE AL POLO Al Polo Australe in velocipede Al Polo Nord Una sfida al Polo a cura di Vittorio Sarti, introd. di Silvino Gonzato, pp. 210+335+271, € 16, Mondadori, Milano 2002 La curiosità dei romanzieri per il mistero dei poli è antica. Già agli inizi del Settecento un anonimo testo - legato al filone dei Voyages Ima-ginaires - descriveva un inverosimile passaggio al centro della terra che collegava l'Artide all'Antartide. Un vero e proprio genere "polare" si consolida però molto più tardi e la data fatidica potrebbe essere il 1866, quando Jules Verne pubblica il grandioso Viaggi e avventure del capitano Hatteras. L'attrazione di Verne (e poi di Salgari, e di tanti altri) verso i poli era quella per un luogo geografico mai raggiunto, il luogo dei ghiacci eterni, delle aurore boreali e australi, ma anche il posto in vista del quale l'ago magnetico comincia a impazzire e le forze degli uomini tendono a cedere. In quasi tutti questi romanzi si fa il punto di tutte le esplorazioni precedentemente fallite; gli esploratori rinvengono puntualmente rottami di navi stritolate dai ghiacci, ruderi di attendamenti, resti umani; e nonostante questi brutti segnali cercano di guadagnare qualche grado sui loro predecessori, verso quel punto - come dicono certi personaggi di Salgari - "in cui dovrebbero incrociarsi tutti i meridiani del globo". Si veda lo scambio di battute in Una sfida al Polo (1909): '"E che cosa credete di trovare lassù?' chiese il canadese, ridendo. 'Che ne so io? Almeno uno dei due cardini del mondo al quale noi daremo un po' d'olio'". E in quei cardini del mondo ci sono cose inattese. In tal senso avevano fatto scuola, tanti anni prima, le memorabili ultime pagine della Relazione di A. Gordon Pym di Poe (1838), quando, dopo mille traversie, il naufrago Pym si trova a direzionare la sua piroga proprio nell'Oceano Antartico: più si accosta al polo, più le acque si fanno inaspettatamente calde e lattiginose e piove una strana cenere bianca; infine si staglia all'orizzonte un'immensa figura umana e lì, ai limiti della vertigine, s'interrompe la narrazione. Sulla risoluzione di questi enigmi e incompiutezze, Verne, devoto lettore di Poe, impernierà con grandi am- bizioni un altro inquietante romanzo polare, La sfinge dei ghiacci (1897). Ma l'idea paradossale del calore al polo era già presente nel romanzo di Verne su Hatteras: il punto matematico del Polo nord coincide con un immenso vulcano in eruzione, e l'intraprendente capitano, dopo un'ascesa tra lave che incendiano il biancore delle nevi, tenta follemente di sprofondarsi nel cratere incandescente: viene salvato dai compagni, ma il senno è perso per sempre. Anche nei tre romanzi di Salgari il polo è una cima possente che si staglia sulle acque: quella di Al Polo Nord (1898) viene paragonata a "un enorme pane di zucchero e - spiega il romanzo - l'illusione era perfetta, poiché era coperta d'un candido manto dalla base alla cima ed i suoi fianchi apparivano perfettamente lisci e inaccessibili". Anche Salgari ipotizza la natura vulcanica dei luoghi e non rinuncia alla descrizione di rocce rossastre, di effetti sanguigni prodotti dal sole o dalle aurore boreali sui ghiacci del picco. In Una sfida al Polo c'è in prossimità del punto d'arrivo la "improvvisa mitezza del clima" e cioè l'anomalo rialzo barometrico. C'è anche - ma in Al Polo Australe in velocipede (1895) - il bacillo della follia: tra i ghiacci antartici, l'impeccabile, britannico capitano Linderman, persa la conquista del Polo Sud, si aggi- Una tempra inadeguata di Antonio Castronuovo Tommaso Landolfi GOGOL' A ROMA pp. 438, €26, Adelphi, Milano 2002 Dotato di un lessico mordace ma sontuoso, terso ma arcaicizzante, una prosa irrequieta ma contenuta nei limiti di un vocabolario tradizionale, Landolfi sembrava nato apposta per suscitare il caso letterario dello scrittore che investe nella sua lingua gli opposti registri del pudore e del sogghigno, dell'eloquenza e della bizzarria. Ma il caso Landolfi diventa addirittura singolare quando questi suoi ingredienti di stile sono riversati nell'attività critica. Esercitata lungo un arco di tempo non marginale, essa si concretizzò, già in vita, in due volumi di Vallecchi: cinquanta elzeviri apparsi sul "Corriere della Sera" confluirono nel 1968 in Un paniere di Chiocciole, gli articoli critici apparsi dal 1953 al 1958 sul "Mondo" di Pannunzio composero nel 1971 il volume Gogol' a Roma, ora ristampato da Adelphi nell'ampio progetto di riedizione dell'intera opera dell'autore. E volume è prodigo di sollecitazioni. Landolfi ha una vasta gamma di interessi, è curioso di tutto quel che succede attorno a lui e perciò lettore errabondo. La principale attrazione (lo si coglie dagli articoli su Pusldn, Cechov, Solov ev, Tolstoj) è quella esercitata dalla letteratura russa. Ma a parte i russi, è ampio il ventaglio di autori esaminati: Camus, Proust, Rimbaud, Ner-val, Gide, Mallarmé, Beckett, Poe, d'Annunzio, Papini e tanti altri. Quel che emerge è il risoluto antiprovincialismo di Landolfi, l'entusiasmo per quella vastità della letteratura europea che aveva scoperto negli anni di accostamento all'ermetismo. Della vita e dei libri di questi auto- ri Landolfi tratta con quell'ironica distanza che, nel momento stesso in cui si esprime, sembra dire che sono tante le interpretazioni possibili. E su tutto domina la miscela, misurata e sapiente, tra deferenza e beffardo dissenso. Un buon esempio è nell'articolo II sedentario Giulio Verne. L'incipit è la superba chimera del critico che intende immedesimarsi nella materia, nel momento stesso in cui coglie l'impossibilità di farlo. Egli vorrebbe disporre - per pagare il debito di riconoscenza verso questo "consolatore della nostra tetra infanzia" - di una penna "tenera e fantastica, patetica, libera e frizzante come la sua", tale da poter degnamente segnalare il posto che Veme occupa nella letteratura francese. Ma poiché Landolfi sente di non avere tempra adeguata, ci si dovrà accontentare della biografia su Veme che egli sta recensendo, per accorgersi subito che nemmeno il biografo esaminato è una gran penna. Una diversa tecnica critica ricorre nel pezzo sul Sottosuolo di Léautaud. Dopo aver snocciolato le qualità che il letterato dovrebbe possedere, Landolfi approda sull'autore dello sconfinato Journal littéraire, per qualificarlo come sofferente di una certa avarizia di spirito. L'impressione è quella di uno che più conosce gente, più va in giro per Parigi, e più sembra chiuso dentro un buco, "più fa professione d'intelligenza, e più le idee gli si costringono e restringono". Se ogni pagina del volume è buon esempio dell'elegante ironia di Landolfi, tutto alla fine converge sulla sensazione che a scrivere sia un abilissimo prosatore capace di vergare saggi d'intenso splendore verbale e stilistico. Se benvenute sono le interpretazioni non corrotte dalle consuetudine e dalla cautela, quando si decide di leggere un libro di critica si desidera anche la seduzione della pagina. E Landolfi, grande scrittore, non delude, e dona vertigine. ra livido, scheletrito, con un'ascia tra le mani incancrenite, né, come Hatteras, sarà mai recuperabile dopo il rimpatrio. Sono stati un po' dimenticati questi romanzi polari, come avverte la quarta di copertina? Probabilmente dopo le storiche scoperte dei due poli (nel 1909 l'Artico ad opera di Peary, nel 1911 l'Antartico da Amund-sen), i sommergibili, i biciclet-ti e gli automobili di Salgari saranno parsi momentaneamente invecchiati rispetto a jungle e filibuste. Non si dimentichi che parallelamente alle avventure polari di Verne, Boussenard, Yam-bo, Danrit (in dirigibile), Motta ecc. (ben lunga sarebbe una bibliografia), circolavano in Europa i reportage dei veri esploratori polari, in primis quello divulgatissimo del norvegese Nansen (Salgari stesso nel 1900 raccontò senza balzi fantastici la spedizione del duca degli Abruzzi nei mari artici). Ma in questa annosa competizione tra realtà dei fatti e dominio della fantasia, è sempre la seconda a spuntarla. Per quanto interessanti, le prolissità documentarie di Nansen (o di Amundsen, di Mikkelsen, dello stesso duca degli Abruzzi) non potrebbero mai sostituire gli estrosi assedi degli orsi bianchi, il claustrofobico attraversamento dell'iceberg in sottomarino, o l'incontro con l'ultimo esemplare di mammouth. Quanto al ritmo, al vitalismo fantastico, questi tre testi non temono confronti con la migliore produzione salgariana, pur esprimendo registri differenti (non è un caso che, in quegli armi, tutti e tre fossero lussuosamente pubblicati in Francia da Delagrave entro una scelta salgariana di soli quattordici titoli). Si ripensa a Al Polo Nord come al più asciutto e scientista (ma anche catastrofista) fra i tre, con inevitabili rimembranze di Ventimila leghe sotto i mari per le visioni subacquee, memorabile comunque per le fosche descrizioni di un polo artico vendicativo contro i suoi violatori. Dissimili tra loro anche Al Polo Australe in velocipede e Una sfida al Polo, pur accomunati dalla "scommessa". Nel primo, l'inglese Linderman, che tenta il percorso via mare, e l'americano Wilkye, che usa curiosi velocipedi a petrolio, si contendono la conquista australe, e il tono generale è esilarato dalla presenza di un personaggio come Mr. Bi-sby che al polo si reca con l'intento di ingrassare e ottenere un primato di obesità nel suo circolo di "uomini grassi" a Baltimora (insomma è il "buffo" che spesso usavano anche Verne e Paul d'Ivoi per alleggerire tensioni). Nel più tardo La sfida al Polo c'è invece la vena più amara dell'ultimo Salgari: dietro la disfida polare in automobile tra l'americano Torpon e il signor di Montcalm, canadese, c'è in effetti la contesa per i "begli occhi" di Miss Ellen Per-kins, una cinica maliarda che promette la propria mano al vincitore. Ma la corruzione più nera intacca la competizione poiché Torpon assolda segretamente lo chaffeur di Montcalm, un truce ex baleniere, affinché tenti tutti i sabotaggi possibili per ostacolare il percorso dell'altro. La corsa vera però, più che tra Montcalm e Torpon, era ancora una volta tra realtà e immaginazione, perché in quel 1909, mentre il romanzo era in gestazione, il Polo Nord era scoperto dalla spedizione di Peary: avvenimento che Salgari si limitò semplicemente a ignorare. Ma potrebbe qualunque scoperta della scienza togliere al lettore il piacere di avvistare il primo iceberg cartaceo? Di costruire un hummock di riparo, di conteggiare le riserve di pemmican, di paventare il terribile scorbuto? Di immaginare l'arrivo nel luogo immacolato e acronico - mare libero, deserto di ghiaccio, vulcano...? Questa trilogia "Oscar Mondadori" si raccomanda davvero per la cura di salgariani esperti (Vittorio Sarti è autore dell'indispensabile Nuova bibliografia salgariana) e per il bel ripristino dell'iconografia originale. Particolarmente meritevole la doppia versione di Al Polo Nord. Òggi che Salgari è sempre più recuperato da un'editoria per lui tendenzialmente insolita (Einaudi, Mondadori, Garzanti, Bompiani, Sellerio e tanti minori), la concorrenza sprona al rialzo qualitativo. Potrà far piacere che, in Francia, in una collana monumentale come i "Bouquins Laffont" (tra Hugo, Proust o i Goncourt) sia da poco uscito Le Corsari nari et autres romans exotiques. ■ claur@li.bero. it C. Lauro è dottore di ricerca in letterature comparate