N. 11 In primo piano v Presentiamo insieme la raccolta di poesie di Philip Larkin e il romanzo autobiografico di Martin Amis come due casi di analogo rapporto tra memoria individuale e contesto storico, dall'Inghilterra degli anni sessanta a quella di oggi. Tra riferimenti falsi e autentici, due vite si raccontano. Poesia sincopata a ritmo di jazz Viaggio di ritorno di Gilberto Sacerdoti Philip Larkin FINESTRE ALTE ed. orig. 1974, a cura di Enrico Testa, PP- 73, € 10, Einaudi, Torino 2002 Se a un inglese di media cul- tura si chiedesse chi sia sta- to il maggior poeta del dopo- guerra, è più che probabile che la risposta sarebbe: Philip Larkin. Nato a Coventry nel 1922, Larkin studiò in una Oxford bellica in cui "la mancanza di douceur", com'ebbe a osservare in seguito, "era compensata dalla mancanza di bè- tises". Scartato dal servi- zio militare per miopia, quando negli ultimi anni di guerra il Ministero del lavoro si informò su cosa stesse facendo per la na- zione, il giovane laureato, per prevenire lavori più indesidera- bili, si impiegò come biblioteca- rio nello Shropshire. E lo stesso mestiere esercitò fino alla morte, avvenuta nel 1985 a Hull, dove dirigeva la biblioteca dell'uni- versità. A distanza di grosso modo dieci anni gli uni dagli altri, Larkin pubblicò, finché era in vita, quattro esigui libretti di poesie: The North Ship, The Less Deceived, The Whitsun Wed- dings, High Windows. Di conse- guenza, chi provi piacere nella loro frequentazione giunge pre- sto, come Derek Walcott, a sen- tirle familiari "come un mazzo di chiavi", e di ciascuna di quelle poesie si potrebbe dire ciò che Larkin dice della poesie di Tho- mas Hardy: "In ognuna c'è un piccolo midollo spinale di pen- siero, e ciascuna ha la sua picco- la melodia propria". Così basta mettere la mano in tasca per sen- tire immediatamente dalla se- ghettatura quale è la chiave, e quale la melodia. ella sua vita Larkin non tenne una sola lettura pub- blica (perché "odio l'idea di an- dare in giro a far finta di essere me stesso"); non "insegnò" mai come si fa a scrivere poesia (per- ché "è come andare in giro a spiegare come si va a letto con la propria moglie"); e non parlò mai della sua poetica in ambito accademico (perché "le univer- sità sono ormai da tempo il luo- go deputato all'accettazione sovvenzionata dell'arte, più che alla sua autentica acquisizione"). Ciononostante, secondo Donald Davie, Larkin giunse a essere comunemente riconosciuto co- me l'effettivo, anche se non uffi- ciale, poeta laureato dell'Inghil- terra postbellica. Quando morì, il necrologio del "Times" lo de- finiva "il poeta più letto e ap- prezzato della sua generazione", e quando nel 1988 vennero pub- •j.. —. » . i. ... -W .... «>>««(». 1 p. M ,"»'■». i. .. t. f-.-wf^m^nì,t blicati i suoi Collected Poems, il libro vendette (nella non econo- mica edizione in hardcover) trentacinquemila copie in due mesi. Né questi risultati "da concerto rock" stanno a indica- re un successo meramente po- polare e low-hrow. Per Derek Walcott, ad esempio, che lo ha celebrato in The Master of the Ordinary, la sua poesia costitui- sce un'insidiosissima pietra di paragone, perché di fronte al suo suono "molta 'grande' poe- sia moderna suona improvvisa- mente come 'rumore'. Questa modestia è santa...". Per la cura di Enrico Testa è ora uscita, presso Einaudi, la prima merito- ria traduzione completa di una delle quattro rac- colte di Larkin - l'ultima: High Windows, pubbli- cata nel 1974. Una buona scèlta, perché Finestre al- te è forse la più adatta a fornire un'immagine perspicua, oltre che della poesia di Larkin, anche del suo autore. Ce la forni- sce infatti direttamente "Jake Ba- lokowsky, il mio biografo", che in Posterità appare intento a mi- crofilmare Posterità stessa. Que- sto giovane studioso americano ha un problema: non vede l'ora di prendersi un semestre di con- gedo per continuare il suo pro- getto di ricerca sul "Teatro di Protesta". Ma siccome è sposato, ha due bambini, e i suoceri insi- stono che vada rapidamente in cattedra, è costretto a occupar- si, invece, di que- sto "vecchio sco- reggione" - un ri- dicolo poetastro minore inglese "vecchio stampo e naturale". L'esasperato disgusto del futu- ro professor Ba- lokowsky per la patetica "natura- lità" del poeta af- fibbiatogli è lun- gi dall'essere in- fondato. Balo- kowsky non può non ricordare quella poesia in cui Larkin sente uscire dal clari- netto di Sydney Bechet il "suono naturale del bene", e tanto meno può ignorare l'introduzione a Ali What Jazz. Il libro - che se- condo Robert Craft (0 pupillo di Stravinsky) appartiene alla "cri- tica musicale meglio scritta del suo tempo" - è una raccolta del- le "recensioni" di Larkin alle sconvolgenti novità jazzistiche del dopoguerra, e la sua introdu- zione può essere considerata un vero e proprio manifesto della sua poetica, giacché Larkin non vi espone soltanto i suoi gusti musicali, ma anche le sue opi- nioni sull'arte moderna in gene- rale, e la poesia in particolare. In due parole, il suo jazz non è quello "cromatico" posteriore a Parker, ma quello "diatonico" che l'aveva preceduto. E "la sca- la diatonica è ciò che si usa se si vuol scrivere un inno nazionale, o una canzone d'amore, o una fi- lastrocca. La scala cromatica è ciò che si usa per comunicare l'effetto che si prova bevendo un martini al chinino, mentre con- temporaneamente si subisce l'applicazione di un clistere". E poiché ciò che vale per Parker, vale, secondo Larkin, anche per Pound e per Picasso (una sorta di trinità satanica della "P"), ec- co che analoghe considerazioni oltraggiosamente filistee, retro- grade e provinciali valgono, se- condo lui, anche per l'intera arte moderna. Il modernismo "non aiuta né a godere né a sopportare". "La poesia è una faccenda di salute, di veder le cose come sono". "Non ho alcuna fede nella 'tra- dizione', o in un comune salva- danaio di miti, o in allusioni ca- suali, nelle poesie, ad altre poe- sie o poeti". "I poeti che mi han- no interessato sono Hardy prima di tutto, Wilfred Owen, Auden (...) nel complesso gente per cui la tecnica sembra importare me- no del contenuto, e che accetta- no le forme ereditate ma le usa- no per esprimere un contenuto proprio". Il disgusto del fittizio biografo di Larkin inventato da Larkin stesso non è, come si ve- de, del tutto immotivato. Sta di fatto, in ogni caso, che le sue poesie sono effettiva- mente inni, canzoni e filastroc- che "diatoniche", e a volte, leg- gendole, il piede scappa e co- mincia a battere il tempo; ma è un tempo così travagliato dagli "strappi, sincopati, legature e distorsioni" che lo avevano affa- scinato nel primo jazz, che ciò che si sente è lo sbocciare di una forma che se non rompe nulla, non per questo è meno nuova. E se in queste poesie si accettano le forme ereditate, esse vengono anche usate con non poco suc- cesso per esprimere contenuti molto propri. Da Finestre alte emerge vivi- damente un'Inghilterra degli anni sessanta che da un lato è ancora pervasa dal "grande so- spiro del secolo scorso", ma che dall'altro si avvia a una cementi- ficazione totale da cui si salvano solo alcuni "luoghi turistici" trasformati^ in "primi slums di Europa". È un'Inghilterra po- stimperiale in cui "l'anno pros- simo dovremo riportare i solda- ti a casa / per mancanza di de- naro", e in cui "il denaro" è di conseguenza tutto ciò che i figli erediteranno dai padri. Ed è so- prattutto l'Inghilterra di un re- pentino mutamento dei costumi sessuali. Nell'esilarante Annus mirabilis, incastonato tra la fine del bando di Lady Chatterley per oscenità e il primo lp dei Beades, si passa all'improvviso dall'umiliante situazione di un sesso subordinato al mercanteg- giamento dell'anello matrimo- niale ("una vergogna che inizia- ta a sedicianni / si diffuse su ogni cosa") alla pacchia di un gioco in cui non si perde mai e il banco viene sbancato ogni volta. Tutto succede "in nine- teen sixty-three", che, purtrop- po, "was rather late for me". E l'autoritratto del poeta co- me "fico sfatto" comica- mente invidioso della gioventù liberata si ripete, sia pure con coloriture meno comiche e più metafisiche, in Finestre alte, che dà il titolo alla raccolta. Le fine- stre son quelle che vengono in mente all'attempato "io" della poesia quando vede "una coppia di ragazzi" e pensa "che lui se la scopa e che lei / prende la pillo- la o si mette il diaframma". Cioè non altro che "il paradiso / che ogni vecchio ha sognato per tut- ta la vita - / legami e gesti messi da parte / come una mietitrebbia arrugginita, / e ogni giovane che va giù per lo scivolo / di una fe- licità senza fine". Ma ecco che, all'improvviso, al vecchio viene in mente "il pensiero di finestre alte: / il vetro che assorbe il so- le, / e, al di là , l'aria azzurra e profonda, che non mostra / nul- la, che non è da nessuna parte, che non ha fine" - uno sviluppo che, volendo, può anche ricor- dare quella "unica catena aurea" musicale che, se- condo gli apolo- geti del jazz mo- derno, lega la ri- gidità formale degli inizi alla "forma di musica sempre più Ube- ra" cui si giunge infine dopo la gloriosa rivolu- zione delle tre "P". Ma a parte la specificità di cer- ti sviluppi sto- rici, letterari e sociologici, è la vita in generale che in Finestre alte appare peri- gliosamente acquattata all'om- bra dell'"alpe dell'estinzione". Mari tumultuosi assediano not- tetempo esigui villaggi appol- laiati su remote scogliere ingle- si, ma la disparità di forze strap- pa grida di partecipe ammira- zione. "Creature, vi amo", pro- rompe un commerciante di mangimi sull'orlo della banca- rotta del 1929, di fronte allo spettacolo di cozze e patelle che "esercitano la loro tenacia / nel gelido viscidume" di un mare notturno che, settanta piedi sot- to la sua stanza singola d'alber- go, "esplode verso l'alto / e poi ricade sbavando via". E la vita umana in particolare continua a essere, come nel so- netto fiammingo dei Giocatori di carte, una maleodorante "caver- na illuminata", dove Jan van Hogspeuw ("vomito di maiale") e Dirk Dogstoerd ("stronzo di cane") giocano, bevono, fuma- no, scoreggiano e cantano, men- tre fuori, nella tempesta, "fradici alberi secolari / strepitano nel buio senza stelle" - ma il pittore è lungi dall'essere schifato da questa "bestiale, segreta pace". Orrendo è il degrado fisico nel- l'ospizio di Vecchi scemi, e terri- ficante è l'ospedale dell 'Edificio, dove gli uomini si risvegliano, ciascuno per proprio conto, dall'"irreale, / commovente so- gno" in cui si erano "cullati dol- cemente insieme" nella vita che continua fuori. Ma intensamente reale, dolce e commovente è an- che lo spreco di "deboli fiori propiziatori" con cui chi è fuori cerca ogni sera di opporsi alla "tenebra incombente" che mi- naccia chi è dentro. Non di rado grava sul libro una nordica "luce di pel- tro", ma tanto più potenti scop- piano certi "immensamenti" in cui la luce nuda fa irruzione - sia essa quella "color pietra" proiet- tata da una luna che squarcia le nubi e resta in cielo, "alta, assur- da e distaccata", sopra un mon- do trasformato in "medaglione d'arte", sia essa quella del sole che, "unico fiore senza stelo", al centro di "un cielo disadorno" "esiste apertamente". Ma in ge- nere queste assolute perfezioni atmosferico-naturali risultano inatttingibili e inimitabili per gli umani, tant'è che "il peggio / del tempo perfetto è che non riu- sciamo raggiungerlo". Fante de mieux, è dunque possibile che "0 meglio" resti ciò che "ogni anno" fa per mera "abitudine" ("mcà rito, metà piacere annua- le") la folla estiva dei bagnanti di Al mare - uomini e donne "gof- famente svestiti" che si immer- gono nell'acqua fredda "con de- boli trilli di protesta", "pagliac- ci" che su una spiaggia affollata di radioline e ingombra di latti- ne arrugginite continuano "a portar su e giù per mano gentil- mente / i bimbi dal passo incer- to", e ad aiutare i vecchi rigidi in carrozzella "com'è loro dovere". Nel primo testo di Seeing things, Seamus Heaney fornisce una traduzione di quel passo dell'Eneide in cui Enea, per in- contrare l'ombra di Anchise, deve penetrare nell'Ade attra- verso "paludi oscure" e "oltre- passare il limite" - ma "la via che scende", lo ammonisce la Sibilla, "è facile"; invece "è tor- nare indietro, / è risalire all'aria, la vera grande impresa". Il se- condo testo è la prima poesia di Heaney stesso. Si intitola II viag- gio di ritorno, e vi vediamo com- parire "l'ombra di Larkin" che torna a casa in autobus dopo un giorno di lavoro. Dopo aver ci- tato Dante ("Lo giorno se n'an- dava e l'aere bruno"), e prima di bersi "un goccio", l'ombra di Larkin dichiara: "Avrei potuto essere un re mago / che parte sotto luci di Natale - / non fos- se che sembrava più il ritorno / preavvisato nel cuore del nor- male".