,« L'INDICE ' ■■□ei libri delmeseh Narratori italiani Se il velo fa da trama di Vittorio Coletti Elena Loewenthal ATTESE pp. 204, € 14, Bompiani, Milano 2004 Un velo sottile e delicato intesse storie d'amore, dedizione e sofferenza lungo i secoli. Si affaccia da una rivisitazione delle pagine bibliche di Rebecca che va sposa a Isacco e riemerge a fine Ottocento accompagnando (per quasi tutto il libro) le storie di intrepide e appassionate donne e-bree e dei loro uomini attraverso il Novecento delle grandi guerre e dei Lager, sino a oggi, quando rispunta dietro un armadio, il cui spostamento segna la fine implacabile di un amore e l'inizio misterioso di un altro. Il pretesto del velo congiunge vicende umane tenere e struggenti, seguite e perdute nei tanti fili che partono da ognuna, collegando persone ed eventi diversi e distanti. Il tessere e il disfarsi rappresentano l'immagine più adeguata e la forma stessa del racconto di Loewenthal, intenso e fragile come il velo che gli fa da trama. Una vicenda si apre dal punto di vista di un personaggio e poi lo abbandona, per adottarne un altro e ritrovare solo dopo, e non necessariamente, il filo interrotto. Il racconto si infila in scatole dentro scatole, ne esce, vi si rituffa, inanella storie tra loro annodate appena, quasi una antica e taumaturgica narrazione senza fine. La storia di Adele, cominciata il giorno del parto della sua primogenita Bianca, diventa quella della levatrice Elvira e poi quella di suo marito Ariodante e sbocca nella pagina livida dei fascisti italiani che spingono senza pietà gli ebrei rifugiati nell'ospizio di Mantova tra le braccia indifferenti e feroci dei nazisti. Gli eventi narrati si affiancano quasi gratuitamente l'uno all'altro, come nei casi della vita e nella libertà dell'arte. Madri, nonne, figlie, sorelle si inseguono e succedono e alternano nel lungo racconto centrale, chiamando di volta in volta alla ribalta figure femminili passionali e tenere, colte nei gesti più semplici e gioiosi, più difficili e straziati. L'autrice sembra impegnata a inseguire l'eco che si prolunga, avanti e indietro, in ogni gesto, da ogni evento, come se vedesse la continuità di amori e dolori che ogni giorno, ogni attimo porta con sé, affondando in remote radici e affacciandosi sul turbamento del domani. La scrittura cerca di catturare questo infinito del momento, di fissare la nostalgia del passato che è già nel presente, l'ansia di futuro che protende in avanti ogni sguardo sull'oggi. Di qui il grande lavoro di Loewenthal sullo stile, chiamato a congiungere semplicità e chiarezza con profondità e mistero, a dire con le parole di tutti quello che fermenta dentro uno, porgere il grande e insondabile della vita col piccolo e ben noto linguaggio di tutti i giorni. Una scommessa che, forse, solo una scrittrice poteva tentare, perché se esiste (io ne dubito un po', in verità) una scrittura "al femminile" è certo che questa dà il meglio di sé nel ricamo semplice e fitto dei sentimenti, dei moti più nascosti e riservati dell'animo, nelle parole delle attese e dei ricordi silenziosi, dei trasalimenti più intimi e delle passioni più decise. E riuscita la scommessa di Loewenthal? Spesso; non sempre, a mio parere. A volte, della concentrazione sulla scrittura (così lavorata da riuscire a nascondere accuratamente anche ogni traccia di eccessiva elaborazione) fa le spese la storia, e viceversa, come se il lavoro sulla lingua calamitasse l'attenzione della narratrice e ne ostacolasse la marcia; mentre quando l'ansia e le ragioni di raccontare prevalgono, lo stile si fa meno cesellato e più precipitoso. Loewenthal forse racconta meglio quando argomenta (come nei fortunati Ebraismo spiegato ai miei figli e Lettera agli amici non ebrei) che quando narra, sembra eccellere più in una riflessione pacata e affabulante che nella pura narrazione; ma è comunque uno degli scrittori più sicuri e autentici di questi anni, da cui non è difficile prevedere altre e ancora più belle prove, sia saggistiche che narrative. ■ Cieco sangue ancestrale di Roberto Gigliucci Cesare Pavese e Bianca Garufi FUOCO GRANDE a cura di Mariarosa Masoero, pp. XLV1-74, €9, Einaudi, Torino 2003 v E il 27 novembre del 1945, un'aurora quasi nordica, in una Roma dove c'è un po' della nebbia di Torino, ma dove incombe una divinità femminile minacciosa. Pavese scrive sul diario, il Mestiere di vivere•: "E l'alba, un'alba di nebbia diffusa, viola fresco. Il Tevere ha lo stesso colore. .. Ho visto l'alba non è molto, dalie sue finestre della parete accanto... Dorme Astarte-Afrodite-Mèlita. Si sveglierà scontrosa". L'amata dea è come Afrodite che viene dal mare, ha la dolcezza del miele, è tremenda come Astarte, la dea siro-fenicia che corrisponde alla Ishtar babilonese, all'Iside egizia e alla stessa Afrodite greca. È Bianca Garufi, nata nel 1918 nella Sicilia del mito, da una madre che si chiamava Giuseppina Melita (e in Pavese si creano cortocircuiti con la nereide Melìte di Esiodo, o la Mèlitta di D'Annunzio), segretaria alla sede romana dell'Einaudi in quel 1945 in cui l'Italia era appena uscita dall'inverno della guerra civile e in cui Pavese non teme di perdersi nell'amore per una Bianca che è l'incarnazione della grande dea mediterranea (Afrodite, Astarte, Circe, Leucotea) e per lei scrive i versi di La terra e la morte e comincia i Dialoghi con Leucò. Bianca è una giovane poetessa e studiosa di Jung, anche lei cosciente del dominio mitico e simbolico che governa esseri viventi e cose; vede in Pavese uno dei pochi uomini degni della sua incondizionata ammirazione. Insieme i due, tra il febbraio e l'aprile del 1946, scrivono, senza completarlo, un romanzo a quattro mani, in cui i capitoli dispari, dal punto di vista del personaggio maschile Giovanni, sono scritti da Cesare Pavese, mentre quelli pari, dal punto di vista della protagonista Silvia, da Bianca Garufi. Nel 1959 (Pavese si era tolto la vita nell'agosto del '50) questo spezzone di undici capitoli esce per cura di Italo Calvino, col titolo Fuoco grande dato dall'editore, ove quello originale era Viaggio nel sangue. Oggi ne abbiamo una ristampa, arricchita da introduzione, apparati bio-bibliografici, filologici e storico-critici splendidamente allestiti da una specialista dell'atelier pavesiano torinese come Mariarosa Masoero. La studiosa ricostruisce nelle pagine introduttive il processo elaborativo del romanzo negli scambi fra i due autori, talora bruschi e rudi, talora teneri o entusiastici. Cesare si atteggia a padre e maestro e richiama la giovane scrittrice alla disciplina ferrea del mestiere letterario, oppure la elogia massimamente per la capacità di dire e non dire, di tacere abilmente e insieme di affondare l'occhio nell'ignobiltà e nella brutalità della materia umana; Bianca ora si irrita e ringhia, ora si sottomette e invoca aiuto. Alla fine però l'esperimento abortisce, Garufi sembra allontanarsi (pubblicherà nel 1962 la versione tutta sua della storia di Silvia e Giovanni nel romanzo Il fossile, sempre per Einaudi), mentre Pavese ritorna alla propria solitudine gelida desertica, come confesserà nel diario a fine giugno 1946. Negli undici capitoli che ci restano, Silvia e Giovanni, legati da un rapporto amoroso più torturato che vissuto, scendono da Roma alla terra originaria di lei, Maratea, in un meridione miti-co-primitivo, dove trovano il bimbo Giustino che sta morendo, la madre e il patrigno di Silvia. Giustino è in realtà frutto della violenza del patrigno sulla giovanissima Silvia, ed è finto suo fratellino. Nella notte in cui muore il bambino, Giovanni consuma un amore furioso con Silvia, fino a morderla cruente-mente sul collo. Poi, nell'ultimo capitolo, comprende in un lampo la verità oscura, il segreto tenuto nascosto in quella famiglia dove schiuma un "cieco sangue ancestrale". Secondo uno schema dattiloscritto (si veda la trascrizione dell'ottima curatrice), il romanzo avrebbe dovuto in seguito raccontare della fuga di Silvia col patrigno a Roma, del loro rapporto disperato e insieme "porcino", delle umiliazioni di Giovanni, del suo avvicinarsi a Flavia, amica di Silvia, della gelosia di costei e infine del di lei suicidio, dopo una "crisi generale di depressione". In Fuoco grande il suicidio è legato al motivo della rupe, "nido perenne agli uccelli svolazzanti dal mare". In quella vertigine dura e schiumante come il destino o il sangue, Silvia sente il proprio destino di morte. Constatiamo così l'intima aderenza del frammento narrativo Fuoco grande ai Dialoghi con Leucò, dove proprio il mito di Leucotea, ovverò Leucò (abbreviativo alla greca), cioè Bianca, ci narra di Ino, moglie di Ata-mante, la quale fugge il consorte impazzito che vuole uccidere il figlio piccolo e, nella fuga disperata, si getta da un precipizio nel mare con il bimbo fra le sue braccia. Anche il Giustino di Fuoco grande muore, figlio sacrificato a una colpa familiare, nata in un nucleo umano tenebroso come quelli della tragedia classica ma privo di riscatto. Insomma, tutto si tiene nelle scritture pavesiane per Garufi, e Fuoco grande è una testimonianza davvero preziosa, oltretutto materiata di pagine fra le bellissime del narratore. ■ robertogigliucci@tiscal'i. it G. Gigliucci è assegnista di ricerca all'Università di Roma "Tor Vergata" Saturare il vuoto di Rossella Bo Antonio Moresco CANTI DEL CAOS Seconda parte pp. 406, € 16, Rizzoli, Milano 2003 Dio ha deciso: il pianeta Terra è in vendita. Per sostenere e divulgare questo business di importanza epocale, da cui dipende ovviamente il destino dell'umanità, si mobilita una fantasmagorica agenzia di pubblicità con tutti i ruoli al posto giusto (account, art, copy...), e un brief di durata inverosimile fa da contenitore alle extra-vaganti digressioni che sgorgano con inestinguibile vitalità e prepotenza dal ramo principale della vicenda. C'è dunque un pre-testo (la campagna pubblicitaria) e molti testi che a esso si affiancano, di cui sono protagonisti, in un montaggio spesso serrato, faticoso, enumerativo, i personaggi del primo volume dei Canti del Caos (Feltrinelli, 2001), indimenticabili nella loro assoluta inverosimiglianza e indipendenza rispetto alla trama: il Gatto, il Matto, la Meringa, la Musa, (['Ginecologo spastico, geniale portavoce di una visione laterale e sempre dinamica dell'universo. Un posto di rilievo spetta all'Interfaccia, possibile chiave di volta di tutta la storia, poiché nel suo ventre sta crescendo la salvatrice dell'umanità, un Gesù Cristo in gonnella che potrà forse sovvertire le sorti del mondo, destinato a soggiacere all'infame progetto divino. "Un libro illeggibilesecondo Guglielmi; aggiungerei: un libro impossibile, non solo da leggersi, ma anche da riassumersi, da raccontare, da recensire, tanto più che Moresco se la scrive lui, la recensione, già alla ventunesima pagina ("Tanto poi diranno solo: apologia delia violenza, pornografia, immoralismo, moralismo, romantici- smo, minimalismo, massimalismo, reazione, rivoluzione, insurrezione, eiaculazione, transustanziazione..."). Forse conviene davvero solo annusarlo, scordarsi le definizioni, le categorie, considerarlo per quello che è, un immenso buco nero in cui tutto entra e nulla più fuoriesce, in un delirio di penetrazione che mi pare costituisca la più autentica cifra dei Canti. Non vi è pagina in cui non sia citato almeno un buco, un orifizio, un taglio, una fessura, un pertugio e in tutti i casi questo anfratto viene colmato, stuprato, riempito, pertetrato appunto, senza fine, senza altro senso che non sia quello di cancellare un vuoto che eufemisticamente si potrebbe definire cosmico, fondante. Riempire, saturare, questa è l'unica legge che tenga, nell'universo magmatico e pornolalico di Moresco: con le parole, i suoni, gli odori, con tutte le sfumature dei sensi, in una concrezione di significanti che non ha requie per quattrocento pagine, fitte come il buio dal quale sono uscite. Qual è il premio per il lettore che osa affrontare una scrittura tanto ardua, a tratti respingente, repellente persino (sorge spontanea la domanda: chissà come sarà il terzo volume - è previsto -dell'opera)? Qualche vetta di poesia assoluta che scaturisce dalla "cosità" (è stato Freud ad affermare che l'inconscio tratta le parole come cose) del linguaggio di Moresco: un esempio per tutti, l'Uomo che pesta le merde, una sorta di angelo custode le cui gambe si muovono "pneumaticamente in più lunghe falcate" permettendogli di raggiungere in pochi passi "luoghi infinitamente lontani", le cui scarpe si sollevano via via dal suolo a causa degli strati di escrementi pestati, a cui l'uomo nemmeno bada, immerso com'è nella sua missione salvifica. Bellissimo. Maleodorante fin che si vuole, ma davvero soprannaturale e maestoso nella sua sfida silenziosamente gridata al cinismo del mondo. La stessa dei Canti.?