4 L'INDICE ' ' I^Boei libri oel meseHI Un cannocchiale per non vedere Il gusto neobarocco di Giovanni Choukhadarian Giorgio Manganelli UFO E ALTRI OGGETTI NON IDENTIFICATI 1972-1990 a cura di Graziella Pulce, postafaz. di Raffaele Manica, pp. 220, € 14, Quiritta, Roma 2003 Ilibri pubblicati in vita da Giorgio Manganelli resistevano a qual si volesse tassonomia. Non serve neppure ricordarne i titoli: Manganelli era, ed è forse rimasto, un marchio di fabbrica, che non ha mai avuto bisogno di essere classificato. La situazione si è complicata dopo la morte dello scrittore. Esiste ora una produzione postuma di proporzioni notevoli, sparsa nei cataloghi di editori in apparenza addirittura incompatibili fra loro. A margine, ma nemmeno troppo, una pletora di raffinate plaquette, con ogni probabilità già irreperibili. Questo Manganelli post mor-tem è in buona parte costituito da raccolte di articoli, usciti per lo più su quotidiani. Non fanno eccezione gli Ufo, curati con de- vozione monacale da Graziella Pulce e postfati da Raffaele Manica. In apparenza, un'operazione editoriale come tante altre. E invece no. Ufo pone una questione capitale agli studiosi di Manganelli, che si erano forse già interrogati dopo titoli come II delitto rende, ma è difficile o il più recente II vescovo e il ciarlatano. La domanda è cioè se il Manganelli maggiore non sia da ricercarsi proprio nelle opere in apparenza meno impegnative, oppure soltanto più compatte nelle dimensioni. Non è Centuria il capo d'opera anche teorico? Quello nel quale sta scritto: "Verso le dieci del mattino, un signore di buoni studi e umori moderatamente malinconici, aveva scoperto la prova irrefutabile dell'esistenza di Dio (...) Verso le quattro del pomeriggio, tornando a casa, si accorse di aver dimenticato l'esatta formulazione di taluni passaggi della dimostrazione, e tutti i passaggi, naturalmente, erano essenziali". Lo stemma paradossale di Centuria è qui in certo modo ripreso dalla quarta di copertina, che cita da un articolo pubblicato sopra La Stampa: "Non ho mai visto dischi volanti, e questa è l'u- Narratori italiani nica prova a favore della loro esistenza che sono in grado di addurre. Infatti, se fosse un caso di psicosi collettiva, come qualcuno dice, io ci sarei cascato. Insomma, se non ci fossero stati, io certamente li avrei visti. Ma non li ho visti: dunque non è improbabile che esistano". È, beninteso, una prova fra tante del famoso gusto neobarocco di Manganelli; impiega tutte le strategie tecniche compositive che ha a disposizione; e intanto propone quasi un manifesto, una dichia- razione di come lo scrittore guarda il mondo (o ne è guardato, o addirittura gli parla, come nell'esilarante attacco di Dispetti da asteroide: "Buongiorno asteroide; veramente, mi piacerebbe chiamarti per nome, ma pare che tu non abbia nessun nome, o se l'avevi l'hai dimenticato; magari te lo porti addosso scritto come su una maglietta, o forse hai un numero di targa, ma noi non riusciamo a leggerlo"). Giorgio Manganelli, dopo aver letto tutti i libri (compresi quelli di fantascienza, cui sono dedicati cinque articoli), guarda il mondo attraverso un inesistente - e quindi per lui affatto esistente - cannocchiale aristotelico. Nella sua postfazione, Raffaele Manica fa dettagliato riferimento all'"infinita replicabi-lità dei suoi [di Manganelli, n.d.r.] meccanismi non meno che all'originalità o alla capacità di variare questi meccani- smi". Si tratta di una valutazione senz'altro generosa, dal momento che la qualità dei pezzi è assai alterna. Ci sono articoli senz'altro memorabili, come quello sul "telefono da tasca", cioè il telefonino: qui Manganelli vede addirittura Mikhail Gorbaciov che alza il telefonino nel mezzo di un Comitato centrale e sbotta: "È il solito Manganelli che cerca il vinaio" (inutile domandarsi perché proprio il vinaio, beninteso). Altri titoli sembrano frutto di un'ispirazione meno felice, come però succedeva anche negli Improvvisi per macchina da scrivere, che pure contengono pagine tra le più felici di Manganelli. Con che, non si è risposto alla domanda iniziale: qual è il Manganelli maggiore? Il lettore malizioso potrebbe riformularla altrimenti: qual è il Manganelli che si legge di più? Il tratto distintivo di tutta l'opera manganelliana è come noto l'ambiguità. La domanda può restare senza risposta, e intanto c'è a disposizione un altro mannello di scritti dispersi (e la raccolta, è facile immaginarlo, non è per nulla completata). ■ ohannesc@libero.it C. Choukhadarian è giornalista e critico letterario Giorgio Manganelli, Giovanna Sandri, Costruire ricordi, con prefazione di Giulia Niccolai e cura di Graziella Pulce, pp. 128, € 11,50, Archinto, Milano 2003. Raccoglie ventisei lettere inviate da Manganelli fra il 1955 e il 1958 all'amata Giovanna Sandri, accompagnate da testi di memoria predisposti da Giovanna stessa (poetessa e pittrice, 1923-2002). "Il prof. Manganelli è lieto di comunicarti che ti concupisce" (un guizzo nel Natale del 1956). Ma fra le lettere la più suggestiva è la numero 24, costituita da un foglio completamente bianco. Una semplice distrazione? Un segnale di non comunicazione? Cosa capita alla vista quando si perde nel bianco? Cronista d'asfalto di Vincenzo Aiello Davide Romano NELLA CITTÀ OPULENTA Microstorie di vita quotidiana pp-177,€8, Zisa/La Koiné, Palermo-Messina 2003 UDe vuoi andare in fretta, corri da solo; se vuoi andare lontano, cammina insieme". E ancora: "Ce la possiamo fare, ma solo insieme. Nel rispetto delle identità, perché la nostra diversità è la nostra forza". Quando si legge Nella città opulenta si pensa a questo duplice pronunciamen to che molti movimenti ecumenici pongono alla base del loro agire. Davide Romano è un lai-co-cattolico di quelli che Adriana Zarri definirebbe "credenti non codini". Di mestiere fa il cronista d'asfalto - "uno curioso ma non pettegolo" - e ha alle spalle molteplici esperienze lavorative che vanno dalla cronaca giornalistica agli uffici stampa. Il succo di questo libro, raccolta di reportage narrativi, è dato dalla prefazione di Diego Novelli che nel 1971, l'anno in cui Romano nasceva, era stato mandato in Sicilia dall'"Unità" per un'inchiesta sulla terra dei limoni. Novelli ritrova negli scritti di Romano la stessa situazione drammatica che aveva registrato trent'anni prima: molti, pochi, egoisti che si disputano il potere in qualsiasi campo si ritrovino e tanti poveri in canna ma non di spirito. Nella Chiesa, come nella burocrazia; nella politica come nella società civile, Romano mulina il suo occhio rispettoso e rinviene storie - "la realtà costa sempre qualcosa, la finzione è gratuita" - che dicono di uomini che vedono Dio come un pezzo di pane: da mangiare per tirare avanti. Romano non si accontenta però di riportare agli onori della cronaca - e anche agli interrogativi della coscienza - il vasto materiale di narrazioni umane ma, come nelle inchieste sull'omosessualità nella Chiesa e sui preti sposati, rintraccia nelle torbide gore dell'ipocrisia la presenza di uomini e donne con una faccia nascosta dalla Chiesa gerarchica; i primi sì ab-sconditi per un'unica colpa: quella di avere rischiato in ciò che credevano/ono amore. Una Chiesa che rallenta sui temi dei diritti civili e che non vuole mettere la propria identità dottrinale al rischio del dialogo interno ed esterno. Il risultato è che i credenti non codini ma socialmente attivi rischiano di allontanarsi dalla preghiera, che è il veicolo misterico dell'Ecclesia, e i consacrati-gerar-chi si allontanano dalla loro missione: stare assieme a tutti, vicini... Se la Chiesa d'asfalto di Romano crescerà - ut scandala eveniant - forse il raccolto di reportage potrà essere più proficuo. ■ perse la cecità e la meraviglia dell'infanzia. Lo spazio diventa curvo espressivo micidiale, preme addosso, crolla sulla testa, avvolge dentro una spirale: ha assorbito la relatività del mondo, il cambiare delle cose, la loro distanza di morte dal desiderio della vita. Eppure questo vortice tremendo ha un germe di vita nuova, ci toglie dai muri dritti, dall'inferno ortogonale. Fatale attorcigliato curvo è lo spazio disegnato dagli alberi nel Parco di Chateau noir da Cézanne. I tronchi si piegano sulla strada chiudendola in un gorgo, stanno per perdere la stazione eretta si avventano sullo spettatore, come le sue arance scivolano dal tavolo su cui cerca di posarle. Il ripiano si ribalta e i frutti sembrano cadere. La stanza e le tele si attorcono attorno alla statua di gesso di un Amorino sghembo da cui lo spazio si irradia esplodendo come un fiore. Non ce la fanno più queste creature a vivere nello spazio ortogonale. Tutto comincia a muoversi, a ruotare. Il pittore sente lo spazio, come Eugenia sente, da "cecata", l'azzurro del mare sulla pelle. Quando si sentono i tronchi curvarsi le pareti venire addosso le facce incombere e gettarsi, si ridiventa ciechi, non si vede lo spazio. Lo si vive, come succede a Eugenia quando mette gli occhiali per la seconda volta o come quando guardava il mondo da "cecata": "Uscì sul balcone. Quant'aria! Quanto azzurro! Le case come coperte da un velo celeste, e giù il vicolo, come un pozzo, con tante formiche che andavano e venivano... come i suoi parenti... Che facevano? Dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi, portando grosse briciole di pane, questo facevano, avevano fatto ieri, avrebbero fatto domani, sempre... sempre. Tanti buchi, tante formiche. E intorno, quasi invisibile nella gran luce, il mondo fatto da dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande...". Lo spazio che si vive è pieno di luce di buio di buchi di formiche di aria risplendente. E lo spazio della vita che cambia tutto, sempre. Comincia a curvarsi, a rutilare intorno a Vincent Van Gogh che apre la porta della sua stanza solitaria a Arles. Le pareti si piegano sul letto. I quadretti appesi sembrano cadere, la spalliera enorme blocca l'accesso a chi guarda il quadro e al pittore che cerca rifugio in casa sua. La finestra è chiusa. Un tempo gli uomini camminavano nelle linee rette della prospettiva che col suo fuoco li portava sicuri dentro un mondo di cui si sentivano padroni. Ora lo spazio divora, si attorce sulla bimba, sul pittore che cerca di non sbandare per percorrere 0 sentiero sotto gli alberi tremendi o per arrivare al letto della stanza, come può capitare al viaggiatore che sul treno si chiede in che direzione vado se io cammino in un senso, il treno va nell'altra direzione, e la terra in direzione opposta al treno? e tutta la galassia è in movimento e a casa mia moglie se n'è andata? Forse ,un figlio è partito per la guerra, un amico lo ha tradito. Allora lo spazio comincia il movimento. Bisogna cercare altre radici. Bisogna radicarsi in quello che si muove, farsi ciechi per sopportare la relatività del tempo dello spazio e della vita. Sentire la luce il buio l'aria i buchi il pozzo l'abisso di tutto il movimento ma anche l'azzurro del mare che entra nella pelle. Annamaria Ortese, Il mare non bagna Napoli, 1953 Cézanne, Nel parco du Chateau noir, 1900 ca.; Amorino in gesso e Anatomia di Michelangelo, 1895 ca.; Natura moria con frutta e caraffa, 1895-1900 Van Gogh, La stanza ad Arles, 1888 I linguaggi della vista È duplice il testo di Marosia Castaldi, che attraverso un racconto (realistico, visionario) della Ortese del 1953, ci restituisce la napoletanità d'epoca. E ne scrive Manica, rievocando l'opera di Domenico Rea e le ristampe attuali. Ma nel raffronto con Cézanne e Van Gogh l'immaginazione di Marosia s'appunta poi sulla vista, dei cinque sensi il più caro a pittori e scienziati, che hanno occhi nella fronte e nel cervello. Dagli occhi del cervello si fanno guidare i paradossi di Manganelli, che nella "non vista" sente come una garanzia di esistenza, di realtà. Invece in cerca di realtà va per le strade, va a guardare con gli occhi della fronte il giovane Davide Romano. Un cronista, come Diego Novelli che lo presenta, come Vincenzo Aiello, che anche lui ci tiene a guardare. Volevano essere cronache, cronache d'orrore, anche i pezzi di scrittura febbrile che la Ortese raccolse in Il mare non bagna Napoli. Occhiali e occhi, un filo conduttore. E gran mestiere quello del cronista. Lidia De Federicis