Romanzi dal Congo e dal Camerun Tenebre da rischiarare di Viviana Rosi Sony Labou Tansi NEMICO DEL POPOLO ed. orig. 1983, trad. dal francese di Egi Volterrani, pp.185, € 12, Epoché, Milano 2003 Calixthe Beyala GLI ONORI PERDUTI ed. orig. 1996, trad. dal francese di Gaia Amaducci e Monica Martignoni, pp. 366, € 15, Epoché, Milano 2003 3wt? Isiry Nemico iW Se di fronte alla letteratura africana è inevitabile lo smarrimento, quando non addirittura l'indifferenza del lettore italiano, i motivi sono sempre gli stessi. Mancano in molti casi quelle coordinate culturali minime che consentono, in genere, di orientarsi con sufficiente abilità in territori narrativi più o meno lontani da quelli conosciuti o anche solo abitualmente frequentati. Si rischia a ogni passo di precipitare nel luogo comune esotico o nella fruizione indifferenziata di "africanità", "negritudi-ne", "tropicalismo", quasi non esistessero patrie, culture, appartenenze lontane e distinte in un continente enorme e plurilingue, in cui la stessa decolonizzazione ha assunto e ha ancora oggi tratti ed esiti niente affatto ac-comunabili se non per mera volontà divulgativa o, peggio, per colpevole generalizzazione. L'invito, più che mai ragionevole, a non porsi troppe domande pregiudiziali - invito rivolto nell'ormai lontano 1987 da Egi Volterrani, ora tra gli animatori della neonata casa editrice Epoché, ai lettori di casa nostra che si accingevano a scoprire il teatro africano (Teatro africano, Einaudi, 1987) - e a lasciarsi piuttosto attrarre nell'universo poli-semico di autori di sorprendente originalità espressiva, è rimasto inascoltato, almeno nella misura in cui il romanzo di "matrice africana" continua a essere nel nostro paese poco pubblicato, scarsamente conosciuto e, soprattutto, apprezzato da un pubblico davvero esiguo. La traduzione, seppure tardiva, di Nemico del popolo del congolese Sony Labou Tansi rappresenta, in un certo qual modo, il tentativo di rimediare parzialmente all'assenza sul mercato italiano dell'opera integrale dell'autore africano che, se non altro in ragione della sua prematura scomparsa nel 1995, meriterebbe senza dubbio maggiore attenzione critica oltre che editoriale. Di Sony Labou Tansi si lamentava già nel 1988, all'epoca cioè della pubblicazione einau-diana delle Sette solitudini di Lorsa Lopez, la mancata traduzione italiana del suo primo ro- manzo La vie et demie (Seuil, 1979), opera che da subito segnala Labou Tansi come scrittore di punta della nuova letteratura africana, quella per intenderci che segue il periodo "eroico" della lotta per l'indipendenza e segna il passaggio alle contraddizioni e alle disillusioni del post-colonialismo. Senza La vie et demie, senza la possibilità di conoscere almeno una parte significativa della notevole produzione narrativa, poetica e teatrale di Labou Tansi, così come senza adeguate coordinate storico culturali si entra in Nemico del popolo per la "porta stretta" della francofonia e delle sue innumerevoli implicazioni linguistiche, stilistiche e, ovviamente, politiche, oppure ci si ferma alla superficie narrativa, alla proverbiale "visionarietà" dello scrittore congolese, sorprendentemente abile nel rendere visibili, addirittura palpabili le tensioni emotive dei personaggi. Al lettore comu- ne e, potremmo aggiungere, "occidentale", a cui peraltro il romanzo si rivolge, sfuggirà forse l'importanza di editare oggi in Italia il primo vero lavoro narrativo di Labou Tansi, oggetto di un decennio di revisioni prima di approdare alla stampa, al posto del suo primo romanzo effettivamente pubblicato, ma nulla per questo verrà tolto al piacere di affrontare un testo complesso e di grande fascino. La vicenda di Da-dou, tormentato direttore scolastico mgiustamente accusato dell'omicidio di una studentessa, si sviluppa intrecciando di conti- dei ribelle e del pazzo. Su tutto aleggia l'ombra della dittatura corrotta e feroce, delle violenze che insanguinano l'una e l'altra riva del fiume, della follia che pervade i gesti degli uomini e che rende l'amore della bella e coraggiosa Yealdara per Dadou niente di più che un'ossessione vanamente salvifica. A libro terminato ci si chiede di quale Congo abbiamo appena letto e se lo sforzo per penetrare nel realismo fantastico, nel sottotesto che tanto deve, forse, alla tradizione del messianesimo congolese, non ci abbia condotto, per faciloneria eurocentrica, troppo vicino al "cuore di tenebra" e troppo lontano, invece, dal fardello di colpe accertabili che si accompagna al neocolonialismo. Diversa, in questo senso, l'impressione che si ricava dal romanzo della camerunense Calixthe Beyala Gli onori perduti, dove l'appartenenza a una francofonia più matura, meno ineluttabilmente inseguita, ma piuttosto vissuta con nuova consapevolezza - "E Francese è francofono ma la francofonia non è francese", scrive in esergo Beyala -, ci regala l'opportunità di una lettura all'apparenza più semplice e immediatamente accattivante. La storia di Salda Bénérafa, la cui voce narrante ci accompagna per trecentosessante-sei pagine di spumeggiante affabulazione autobiografica, dice moltissimo su New-Beli alias Cuscus, emblematico quartiere periferico e disastrato di Douala, che ha in sé i tratti e i personaggi "tipici" di tutti i più poveri agglomerati urbani d'Africa, e altrettanto efficacemente ci rivela una Belleville che ha poco in comune con quella a noi più nota di Pennac. Calixthe Beyala, scrittrice bella e prolifica, spesso in odore di plagio, ha vinto nel 1996 con questo romanzo il Grand Prix Tra rabbia dialogo nuo amore e morte, "schifo" -parola semplice e bruciante che contraddistingue tutta la prima parte del romanzo - e "respiro" in quanto segno minimo di una sopravvivenza possibile. Dadou, il "signor Schifo" come lo chiamano le ragazze della scuola, attraversa scenari e situazioni di straordinaria forza icastica, seguendo un destino metamorfico che lo vede vestire i panni del "cittadino direttore", del protervo alcolista, del perseguitato "nemico del popolo", del fuggitivo, du Roman de l'Académie Fran-gaise, ma, a distanza di sette anni dal prestigioso riconoscimento, quello che maggiormente può interessare il lettore italiano è la rivelazione di un'"africanità" lucida e amara, combattiva e mai dolente che i personaggi femminili degli Onori perduti non a caso incarnano con indimenticabile convinzione. ■ vivi.rosi@tiscali.it V. Rosi si occupa di organizzazione culturale in ambito letterario di Clara Bartocci Sherman Alexie IL POWWOW DELLA FINE DEL MONDO a cura di Giorgio Mariani, pp. 190, € 19, Quattroventi, Urbino 2003 Con in copertina la riproduzione di un dipinto di Fritz Scholder, raffigurante un indiano che ha sulle spalle la bandiera americana, è stata pubblicata a cura di Giorgio Mariani una scelta di poesie e brevi brani in prosa di Sherman Alexie (con testo originale a fronte), tratti dai volumi The Business of Tancydancing (1992) e The Summer of Black Widows (1996), entrambi editi da Han-ging Loose Press di New York. Sherman Alexie, nato nel 1966 nella riserva indiana spokane a Wellpinit, nello stato di Washington, autore di otto libri di poesie, tre raccolte di racconti, due romanzi e due sceneggiature di film, è considerato uno dei più importanti scrittori statunitensi contemporanei, e la significativa immagine di copertina sembra rendere al meglio il dualismo - di cui Alexie si fa portavoce - tra la cultura originaria dei Nativi e quella che è stata loro imposta e da cui sono stati "avvolti" (Indian Wrapped in Flag si intitola il dipinto), fino al punto da decidere di portarsela volutamente e scopertamente sulle spalle, come un segno distintivo aggiuntivo, una componente ormai ineliminabile della loro personalità, storia e memoria. Lo stesso passaggio dalla tradizione orale tribale alla scrittura in lingua inglese, compiuto vari decenni orsono da parte degli intellettuali indiano-americani, testimonia la loro presa di coscienza dell'avvenuta inscindibilità delle due culture e la necessità che il loro messaggio sia capito da entrambe per salvare dall'oblio l'eredità storica e mitologica del proprio popolo e far conoscere la propria testimonianza. Nelle poesie di Sherman Alexie, che per definizione dell'autore nascono dalla "rabbia" e si nutrono dell'"immaginazio-ne", il lettore implicito è sia indiano che bianco, come in Evo-lution, dove un Buffalo Bill dei nostri giorni apre un banco di pegni nella riserva e dopo che gli indiani, pur di comprarsi da bere, hanno impegnato tutti i loro averi - e persino l'essere (il "cuore") - "chiude il banco dei pegni, ricopre la vecchia scritta con una nuova // chiama la sua impresa museo delle culture native americane // e fa pagare agli indiani cinque dollari per l'ingresso". Come si può notare da questo piccolo esempio, e come mette in evidenza Mariani nell'ampia e documentata postfazione, i versi di Alexie sono animati da "un forte impulso narrativo" quasi a voler abbatte- re le distinzioni tradizionali tra prosa e poesia per rivendicare una sostanziale affinità di quest'ultima con l'arte dello storytel-ling. E dell'arte di "contar storie" o, se si vuole, di "cantastorie" Alexie è maestro, non solo per il sapiente uso della ripetizione e' della rimarcatura spesso enfatica dell'elemento reiterato, o per il ritmo che sa imprimere alle sue composizioni, o per il finale frequentemente a sorpresa, ma anche per certi squarci di umorismo, e per l'ironia che permette al poeta dai "due cuori" di mantenere la giusta distanza nel denunciare le degradazioni di entrambi i mondi e gli stereotipi fioriti intorno alla figura del selvaggio e al rapporto tra le due razze. In alcune poesie prevale la vena lirica, altre volte è un tono beffardamente tragico a prendere il sopravvento. All'immagine dell'America assetata di sangue si accosta, in Dentro Dachau, quella dell'Olocausto. Di fronte all'orrore del gelido campo di sterminio il poeta non riesce a provare, come si sarebbe aspettato, "emozioni semplici: odio, rabbia, dolore"; la sua mente si sposta d'istinto sui tanti genocidi della storia e immagina parellelismi e opposizioni tra l'essere ebreo e l'essere spokane mentre ossessivamente ripete: "Non ho nulla di nuovo da dire sulla morte". È come se il dolore di fronte allo spettacolo di un "teatro che non chiuderà mai" sia tanto intenso da intorpidire ogni reazione, come se il freddo abbia congelato ogni lacrima: "Mi chiedo quale popolo accenderà i prossimi fuochi //e quale popolo sarà in breve trasformato in fumo. // Dachau era cosi fredda che riuscivo a vedere il mio fiato. // Non ho nulla di nuovo da dire sulla morte". Ma la variegata scelta offertaci da Giorgio Mariani include anche poesie che permettono di mettere in luce un aspetto particolare dell'immaginazione di Sherman Alexie, impegnato, come dice lo stesso curatore, "nella delicata operazione di riscrivere una storia americana nella quale gli indiani entrano a pieno titolo, e dialogano da pari a pari con gli altri protagonisti della vicenda nazionale". La galleria dei personaggi della cultura bianca menzionati da Alexie comprende Emily Dickinson, James Dean, Janis Joplin, D.B. Cooper, JFK e Oswald, Shakespeare e così via fino alle prostitute uccise nel 1892 dal famigerato Jack lo squartatore. Alcuni dei più famosi tra gli americani sono chiamati come per incanto ad interagire con il mondo indiano e in esso trovano bellezza (Walt Whitman), conforto (Marilyn Monroe), o ammirazione (Fred Astaire), a significare che il contatto tra le due culture è stato ed è bidirezionale e che, come l'indiano si è in parte americanizzato, cosi l'America dell'uomo bianco non è mai stata, e non è, immune dal processo di "indianizzazione", un processo produttivo e altamente caratterizzante della sua identità. ■ cbartoxSunipg.i t C. Bartocci insegna letteratura americana all'Università di Perugia