Narratori italiani Testi drogati di Lidia De Federicis Francesco Ghelli VIAGGI NEL REGNO DELL'ILLOGICO Letteratura e droga da De Quincey ai giorni nostri pp. 292, € 18, Liguori, Napoli 2003 L? accurata quarta di copertina, in una collana diretta da Stefano Manferlotto, soccorre il lettore nelle fitte selve della letteratura comparata, mostrandogli la strada grazie al "rovesciamento della razionalità dominante", formula interpretativa tanto efficace e duttile da poter compendiare il decorso dei testi drogati in due secoli. Apprendiamo i-noltre, dalle brevi notizie biografiche, che Francesco Ghelli ha già scritto, oltre che su droga, pure sul caso in letteratura. L'illogico, dunque, e il caso. L'informazione strepitosa di questo saggio dà conto infatti di un tema della modernità: il tema e il senso dell'insensatezza con adeguato corredo di teorie, il filo di una cultura in movi- mento, di un sovvertimento non solo linguistico, che perviene infine al! i deriva tecnomagica del già usurato postmoderno, dove la droga, "merce ideale", irradia metafore su cui tende a modellarsi ogni altra vita e linguaggio, dalla politica allo sport. Non è la merce, al centro del libro, bensì la sua estetizzazione. Ghelli stesso provvede a definire tempestivamente, p. 38, il punto di vista che ha scelto, "quello della rappresentazione letteraria degli effetti della droga". Per contenere e sfaccettare la materia ha ideato una forma doppia. C'è un percorso che, senza far storia canonica né di droga né di letteratura, salvaguarda tuttavia la storicità, specie della ricezione, e muovendo dalla domanda "la droga, che cos'è?", e dalla sua genesi ottocentesca, procede fino alle discussioni attuali, anche oltre la critica letteraria. Chiarissima, nell'additarci l'allargamento metaforico al sociale, l'ultima citazione, p. 265, che è del non-letterato Guido Viale. Rispetto all'uso di sostanze psicotrope (provoca Viale) "la dipendenza dall'automobile è assai più forte, diffusa e nociva" e proprio essa richiederebbe "un massiccio programma di disintossicazione". L'altro principio ordinatore è tendenzialmente di sistema. Ghelli individua ricorrenze e analogie, elabora connessioni e reti, collega la droga all'inconscio e quindi all'infanzia, alla follia, all'estasi. Nel suo discorrere non c'è nome che prima o poi non ci faccia incontrare, dai classici della trasgressione, i Baudelaire e Rimbaud, a certi nostri scrittori di culto, fantascientifici e innamorati (dell'eroina), come Tommaso Pincio, l'autore di Lo spazio sfinito (2000) e Un amore dell'altro mondo (2002). Pincio, ovvero Marco Colapietro, è una presenza d'eccezione. In letteratura infatti c'è poca Italia nei viaggi mentali e nel regno dell'illogico, o dell'antilogica, che è l'ambito privilegiato dall'esperienza di droga. Qui ritrovo però il Primo Levi spesso trascurato delle Storie naturali del 1966, un Sandro Veronesi quasi principiante con Gli sfiorati, 1990, e Tabucchi per un cenno di Requiem, 1992. Un saggio ricco è destinato a farsi usare in libertà, prendendone ciascuno quel che gli serve o gli piace. In questo di Ghelli, nato a Pisa nel 1971, laureato a Pisa, addottorato a Bergamo, non trascurerei neppure la pagina dei Ringraziamenti, che è diventata da qualche anno, come la quarta di copertina, un genere letterario con le sue regole. Ghelli la mette in apertura e le dà un allegro passo narrativo, che ci accompagna dai maestri agli amici ai gatti, infine ai genitori, e ricrea un ambiente, una cerchia giovanile (un viaggio di formazione nella stanza dei libri). ■ L. De Federicis è studiosa di storia della letteratura e di scritture di oggi Questi fantasmi Da quando la notte con la sgualdrina lo aveva riavvicinato alle pratiche sensuali, Venere la dea e Venere il pianeta avevano iniziato a mischiar-glisi nella testa. Sempre più spesso pensava al transito come al sospirato appuntamento con una dea polputa. Vista dal mare, la città di Pondicherry gli parve meravigliosa e Le Gentil occupò l'inutile tempo dell'attracco a studiare quale punto dei dintorni fosse favorevole per sistemare il telescopio e le sue carte. Così non si accorse dell'imbarcazione di delegati in avvicinamento e neppure dei funzionari inglesi che ne sbarcarono. Tantomeno si accorse dello stupore e dell'ira del comandante, della frustrazione dell'equipaggio. Solo quando la barchetta inglese ripartì e la grossa nave francese si spinse comunque sottocosta, solo quando l'aria fu sfregiata dalla palla di cannone che la fendeva per andarsi a disperdere in acqua, solo allora Le Gentil si riscosse. E seppe che la città era caduta in mano britannica e che non veniva loro concesso l'ingresso in porto. Protestò, cercò di persuadere il comandante a ritentare: la Corona non poteva impedire una missione cui lei stessa partecipava, in altre parti del mondo, con tanta alacrità e votandovi i suoi migliori ingegni astronomici. Il comandante gli ingiunse di tacere e alla fine fu costretto a rispedirlo in cabina. Lì Le Gentil attese inerme l'arrivo dei primi giorni di giugno quando gli toccò assistere allo sfolgorio di una giornata assolatissi-ma. Prese di malavoglia il cannocchiale dalle mani del comandante, e osservò, senza poter compiere nessuno dei calcoli precisi che a-vrebbero richiesto la stabilità della terraferma, il lento incedere di Venere sull'arancio dell'astro. Sbirciava indignato, cercando di non badare al dolore atroce degli occhi dietro alle lenti. Il comandante gli strappò lo strumento mentre, sulle guance di Le Gentil, qualche la- crima si seccava. Ma Monsieur era caparbio e, fin dal mattino seguente, annunciò all'equipaggio di aver deciso di rimanere nei Mari del sud per altri otto anni, in attesa che Venere transitasse di nuovo. Impiegò quel lento tempo errando fra le isole dei mari indiani, spingendosi sino nelle Filippine (dove l'effervescente vita coloniale lo turbò, nella nostalgia della sua Parigi). Soprattutto accumulò taccuini e taccuini di tavole astronomiche che si appuntava di notte, insonne di fronte a un cielo avvolgente come mai lo aveva visto, contornandoli di notizie sugli usi esotici, sull'architettura di quelle terre, sulla flora e sulla fauna. Quando anche il settimo anno si concluse, pianificò il trasferimento a Pondicherry, da cui gli inglesi erano stati nuovamente cacciati. Gli amici di Manila gli chiesero di non partire dal momento che il transito sarebbe stato visibile anche da lì. Le Gentil, però, voleva 1 India, terra agognata. A Pondicherry ottenne dal governatore d'installarsi nella fortificazione che anni prima aveva ammirato dal mare. Vi trascorse un'impaziente attesa di tre mesi, segnata da una calura e da una siccità senza precedenti. La mattina del 3 giugno 1769, mentre si alzava dal letto di fretta per sorprendere l'alba, udì rumori insoliti, misti a voci umane, provenire dal cortile. Quando si affacciò, vide che respon-.sabili del baccano erano le prime gocce di un potente diluvio, accolte dalle nenie di ringraziamento degli indiani e seguite dal sibilo di un vento furioso. La pioggia fitta durò diverse ore; poi venne il sereno. Il sole comparve ma Venere se n'era già andata. A Manila la giornata fu splendida. Scrisse Monsieur Le Gentil: "Questa è la sorte che tocca sovente agli astronomi. Ho fatto più di diecimila leghe, mi sono esiliato dalla mia patria e tutto questo per essere spettatore di una nuvola fatale, che coprì il Sole nel momento esatto dell'osservazione, per togliermi il frutto delle mie pene e delle mie fatiche". di Andrea Cortellessa Silvia Bellotto METAMORFOSI DEL FANTASTICO Immaginazione e linguaggio nel racconto surreale italiano del novecento pp. 300, €20, Pendragon, Bologna 2003 E raro che un singolo saggio ponga termine a un'importante tradizione di studi, o comunque vi metta una brusca sordina. E però il caso dell'In-troduction à la littérature fanta-stique di Tzvetan Todorov, 1970 (tradotto da Garzanti sette anni dopo), che teorizzava come le strutture del racconto fantastico "classico" (tra l'esaurirsi del romanzo gotico, diciamo, e l'affermarsi della fantascienza moderna) fossero state messe in crisi, in sostanza, dalla diffusione della psicoanalisi. Il Novecento si vede insomma annoverare, fra gli altri capi d'imputazione, anche quello di aver ucciso il fantastico. Non tutti sono d'accordo, ma già il fatto che ogni studio seguito a quello di Todorov senta la necessità di confutarlo denota come quest'interdetto abbia se non altro reso arduo articolare una teoria del fantastico in grado di dar conto delle multiformi vicende testuali ascrivibili a quello che non sappiamo nemmeno se definire "genere" o "modo". Se confrontiamo la ricca tradizione precedente al '70 (dal bellissimo almage-sto '39 di Albert Béguin, L'anima romantica e il sogno, di recente riproposto dal Saggiatore, a Nel cuore del fantastico di Cail-lois) con quanto viene dopo, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un campo dalle potenzialità ormai esaurite. Come se l'affermata impossibilità di un fantastico a venire avesse depresso anche la riflessione sul fantastico tout court. Ci si chiede insomma se il racconto fantastico non sia in stato di "catalessi", come dice con gustoso mimetismo una giovane studiosa dell'Università di Bologna, Silvia Bellotto, in un libro che allinea ampi saggi su una serie di autori italiani del Novecento: analizzati, nell'ordine, Savi-nio, De Chirico, Bontempelli, Landolfi e L'iconoclasta immaginativo" Delfini. Scrittori dunque della prima metà del secolo, ma ben successivi alla faglia indicata da Todorov (e infatti psicoanaliti-camente edotti se non addirittura eruditi: come Landolfi, che infatti avverte lucidamente L'anacronismo" della categoria di fantastico). E tutti altresì coinvolti nella vicenda di un altro "buco nero" del Novecento italiano, il surrealismo: che sulla psicoanalisi si fonda e che si può dire, da noi, pressoché assente (storiograficamente, un vero atto mancato...). Due interdetti incrociati - a un "fantastico" fuori corso, a un "surrealismo" mai acclimatatosi - collocano questi autori, dunque, in una posizione complessa da circoscrivere. Proprio per questo, però, facendoli candidare (come proposto in tempi non sospetti dal Contini dell'antologia Italie magique) a linea portante -seppur fantomatica - della nostra narrativa novecentesca. Bellotto individua almeno un paio di linee-guida per un possibile fantastico novecentesco (quanto meno italiano). Da un lato lo scenario quotidiano, se non proprio famigliare, che faccia da contrasto con lo scatenarsi libidico-figurale (si pensi al-l'incipit della Pietra lunare di Landolfi o al background auto-biografico-intimistico dei fratelli De Chirico) e già presente in un incunabolo come II tragico quotidiano di Papini. Dall'altro lo spostamento del metamorfismo figurale dal piano degli oggetti rappresentati al veicolo della rappresentazione. "Fantastico linguistico" definisce Bellotto quello che strania per prima cosa, appunto, la lingua: attraverso "il nonsense, l'anfibologia, il neologismo, il plurilinguismo, il pastiche". È soprattutto il caso di Sa-vinio, plurilinguista agli esordi di Hermaphrodito e poi patrocinatore della "fantasia di scrittura"; e di Landolfi, inventore di " paro-le-viticcio" (la labrena, il porro-vio...): "Una lingua di parole peculiarmente vuote, di segni senza significato". È con questi autori (fra i maggiori, a dispetto dei canoni vulgati, del nostro Novecento) che, sintetizza la studiosa, "il sovvertimento delle categorizza-zioni linguistiche appare sempre più la cifra distintiva del fantastico moderno". ■ corteilessa@mclink.it A. Cortellessa è dottore in italianistica all'Università "La Sapienza" di Roma Attualità del Settecento L'illuminismo è diventato un luogo comune, un illuminismo cattivo che ha idoleggiato la ragione e generato disastri, cattivo luogo comune della politica. Michela Volante invece ce ne rievoca co i leggerezza la complessità. Ricrea una voce settecentesca abbinando la ricerca della felicità in terra a una celeste passione, e ce ne svela infine l'ingenuità, l'ingenuità dei paradigmi fiduciosi. Con la saggezza di un philosophe, che abbia già percorso la parabola del moderno, l'astronomo registra infine la prepotenza del caso. Settecento e Novecento. Il tema dell'irrealtà collega il racconto di Volante al fantastico di cui s'occupa Cortellessa, all'illogico di Ghelli. Cristina Bracchi, guardando altrove e specificamente alla scrittura femminile, apre a un contesto concreto e attuale di scambio paritario tra forme del sapere accademico e nuovi saperi di giovani studiosi. Ma per chi si studia e si scrive? A chi vanno i lumi? Questa è l'illuministica preoccupazione.