N. 3 13 Saggistica letteraria Contenuti e rifrazioni di Giuliano Bacigalupo Michail M. Bachtin LINGUAGGIO E SCRITTURA ed. orig. 1925-30, trad. dal russo di Luciano Ponzio, a cura di Augusto Ponzio, pp. 206, € 18,50, Meltemi, Roma 2003 Meltemi ripubblica, in una nuova traduzione, con un nuovo titolo e sotto un nuovo autore, la raccolta di saggi di Valentin N. Volosi-nov comparsi fra il 1925 e il 1930 su diverse riviste sovietiche (la prima edizione italiana recitava invece Valentin N. Volosinov, Il linguaggio come pratica sociale, Dedalo, 1980). E appunto nella seconda metà degli anni venti del secolo scorso che è da collocarsi il periodo di intensa collaborazione intelle-tuale fra Michail M. Bachtin, Pavel N. Medvedev e Valentin N. Volosinov (il cosiddetto circolo di Bachtin) che a loro volta facevano parte di un più ampio gruppo di intellettuali, il cui ambizioso progetto consisteva in una rifondazione delle scienze umane. Anzi, essi vedevano nella Russia postri-voluzionaria le condizioni per un vero e proprio nuovo Umanesimo. A dimostrare che tali aspettative non erano del tutto mal riposte c'è la testimonianza dei testi del circolo di Bachtin, a partire da quello teoricamente più ambizioso, Marxismo e filosofia del linguaggio di Volosinov (1929; Manni, 1999). Gli articoli contenuti nel volume di Meltemi trattano gli stessi problemi di quest'opera fondamentale e, nonostante il loro carattere più divulgativo, non perdono minimamente in precisione concettuale. Essi si spingono per certi aspetti persino più avanti, diventando così indispensabili per comprendere l'originalità e il significato del lavoro svolto dal circolo. Riguardo al problema relativo all'attribuzione dei testi di Volosinov e Medvedev, cioè la tendenza dominante nella critica di attribuirli a Bachtin, mi limito a rilevare il pericolo che, così facendo, li si appiattisca sulle posizioni di quest'ultimo e non si colgano così le differenze, anche notevoli, con testi coevi di Bachtin come Il problema del contenuto, del materiale e della forma nella creazione letteraria (in Estetica e romanzo, Einaudi, 1997, databile intorno al 1925) e la sua monografia Dostoevskij. Poetica e stilistica (1929, 1963; Einaudi, 1968). Il filo conduttore degli articoli può essere individuato nel riportare l'attenzione degli studiosi di letteratura in particola- Michail 5V1. Bachtin f'iritas.aggM» c scrittura re e di linguistica in generale sul carattere sociale di ogni forma di comunicazione, sia essa quotidiana, giuridica, politica o estetica. Per carattere sociale è inteso il legame inscindibile con una situazione extra-verbale, cioè un particolare rapporto fra parlante e uditorio e la condivisione di determinati valori. Impossibile a questo punto non vedervi un'implicita rivalutazione della retorica, nel senso alto, aristotelico, del termine, quello che era appunto uno dei caratteri distintivi dell'Umanesimo. La rivalutazione è implicita perché alla retorica non si accenna mai e si parla piuttosto di una poetica o stilistica sociologica, essendo l'oggetto principale di studio la comunicazione estetica verbale, la letteratura. Ma alla retorica e ad Aristotele rimanda direttamente l'affermazione del carattere entime-matico di ogni enunciazione (l'atto comunicativo concreto). In Aristotele l'entimema è una specie di sillogismo, proprio della retorica, nel quale non tutte le premesse hanno bisogno di venire esplicitate, perché già condivise dal pubblico. Qui invece con entimema si vuole indicare come ogni enunciazione si riferisca a un sottinteso (una parte non esplicitata), costituito dalla situazione, da una relazione fra parlante e uditorio e una valutazione comune. Il momento più originale di questa riflessione si trova però nel passaggio successivo: il sottinteso non influisce semplicemente dall'esterno sull'enunciazione (teoria contestuale della comunicazione) ma entra nell'enunciazione stessa al livello formale, inteso come intonazione, scelta delle parole e disposizione. Il nucleo delle considerazioni dell'autore consiste in una ridefinizione del contenuto proprio della lingua, il problema posto per la prima volta dai pensatori del romanticismo tedesco di ciò che è espresso non attraverso la lingua ma nella lingua, come ha notato l'attento studioso di questi ultimi Walter Benjamin. In altre parole, nella lingua non si ha una semplice riflessione della realtà (funzionalità della lingua) ma una rifrazione, e in questa distanza è da individuare il contenuto proprio della lingua (metafora usata spesso dal circolo e ripresa da Augusto Ponzio nella sua introduzione). La ridefinizione consiste in quanto accennato poco sopra, cioè l'entrare del sottinteso nell'enunciazione come suo momento formale. Il grande merito di questa soluzione è dunque il rinnovato tentativo di superamento da una parte della concezione funzionale del linguaggio e dall'altra del suo complemento, una teoria della letteratura che nega a quest'ultima una qualsiasi referen-zialità. ■ giulianobacìgalupoShotmail. coiti G. Bacigalupo è dottorando in letterature comparate all'Università di Bologna Riflessioni sul canone Un'inversione da Guerra fredda di Francesco Guglieri Frederic Jameson UNA MODERNITÀ SINGOLARE Saggio sull'ontologia del presente ed. orig. 2002, trad. dall'inglese di Barbara Gastaldello ed Elena Marongiu, introd. di Carla Benedetti, pp. 234, € 18, Sansoni, Milano 2003 G/IIIIm Siamo assediati dalla letteratura. Non ci si può distrarre un attimo passando accanto a un'edicola che si è immediatamente circondati da Classici, Grandissimi, Giganti, Immortali e così via, fino all'ultimo allegato di quotidiano o rivista. Tutti i grandi quotidiani sembrano proporre un loro personale canone, una scelta - più o meno originale - di testi e autori degni di arredare i salotti degli acquirenti (cosa c'è di meglio di una cinquantina di volumi, tutti della stessa altezza e colore, per riempire una libreria? È il sogno di ogni mobilificio brianzolo!) e di assaltare il mass-mar-ket, a quanto pare l'unico da cui poter trarre ancora qualche profitto con i libri. Per effetto di una paradossale inversione proprio mentre a scuola "si studia" il giornale (con tanto di tema di maturità da scrivere "in forma di articolo"), i giornali - o meglio: i grandi gruppi editoriali, il mercato e i mediatori culturali - si occupano di classici della letteratura. Come fanno a rivenderci quegli stessi tomi su cui generazioni di studenti si sono immolati controvoglia? E non solo riescono a smerciarne in quantità elevatissime: che cosa dire, allora, della qualità di questi testi tanto impegnativi quanto complessi, opere il cui valore - "è Grande Letteratura, baby!" - sembra al di sopra di ogni sospetto? La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un grande esorcismo. Come a dire che siamo sopravvissuti al postmoderno, che possiamo farla finita con quegli anni diabolicamente euforici in cui cultura alta e cultura di massa o popolare stavano sullo stesso piano e tutti i valori erano annullati: quando dire Grande Letteratura era la peggior offesa al tribunale del politicamente corretto. In fondo, in anni come i nostri, tragici e grotteschi, pieni di crack finanziari e guerre permanenti, a cosa aggrapparsi se non agli stabili valori del canone letterario, al gold standard dei classici? Forse non risponderà a questi interrogativi, ma certo può essere utile per sbrogliare l'intreccio confuso di corsi e ricorsi - tra ritorno del rimosso e repackaging del retro - la lettura di Una modernità singolare di Frederic Jameson, recentemente tradotto da Sansoni. Il nome del teorico statunitense (comparatista alla Duke University, di formazione marxista) si lega di solito al postmoderno, di cui è stato uno dei critici più acuti e originali. In questo ultimo saggio (l'edizione originale è del 2002), però, sono il moderno e tutte le sue possibili declinazioni a passare sotto la lente della sua serrata critica ideologica. Non la scampa neanche il concetto da cui siamo partiti, quel canone letterario che si scopre insospettato campione della modernità. Questo repertorio di autori e opere - "quanto di meglio sia stato pensato e detto", scriveva Matthew Arnold - è una selezione operata secondo determinati valori e ideologie: una scelta di inclusioni ed esclusioni che in realtà, dice Jameson, corrisponde "a quel fenomeno storico assai limitato chiamato modernismo e a quei frammenti del passato che il modernismo ha deciso di riscrive- K rea propria immagine e somiglianza". Esiste, allora, un'autentica "ideologia del modernismo" plasmata intorno all'ideale dell'autonomia della sfera estetica, della letteratura in questo caso, dagli altri discorsi sociali: l'intera narrazione della modernità è ricostruita a partire da questo vincolo di separazione, autentico telos che organizza il racconto della progressiva emancipazione dell'artista prima, dell'opera e del testo poi, da ogni condizionamento estrinseco. La storia letteraria ci ha ben abituato a questa staffetta del-l'"assolutamente moderno", dove ai romantici succede Baudelaire, Rimbaud porta un po' avanti la corsa finché arriva Mallarmé e così via, fino a giungere a una letteratura del significante, slegata da qualsiasi preoccupazione referenziale, o a una dimensione allegorica - secondo una certa interpretazione di De Man (a lungo affrontato da Jameson nel libro) - che si lascia alle spalle ogni pretesa "simbolica" di immediata identificazione col mondo. Ma, lungi dall'essere una condizione trans-storica, l'autonomia è un'invenzione recente: con quello che è forse lo scarto più interessante del libro, Jameson sottolinea come l'ideologia del modernismo che dà forma al canone (e ne impone la purificazione da ogni elemento estrinseco, culturale e popolare) non appartiene al modernismo stesso, non è un'elaborazione contemporanea a Eliot, Pound o Proust, né al proto-modernismo di Baudelaire o Mallarmé. Al contrario, è una costruzione successiva alla seconda guerra mondiale, un'invenzione da Guerra fredda, la teorizzazione della pratica di autori come Nabokov e Beckett. L'ideologia, che ora possiamo definire tardo-modernista, dell'autonomia della letteratura, di una forma perfetta e chiusa in sé, di un linguaggio non mimetico e distaccato dal mondo, proietta sul modernismo la propria ansia da epigoni: come in un labirinto di specchi vige un clima di ripetizione generalizzata dove "le sperimentazioni moderniste sono a disposizione dei tardo modernisti come un arsenale di tecniche già date da rimettere in scena simbolicamente". Ma questa dimensione auto-refenziale e metaletteraria che effettivamente domina la scrittura di Nabokov, Beckett e soci (si pensi, in Italia, all'ultimo Calvino), secondo Jameson, è ben diversa dall'autocoscienza modernista. Quella tardo-mo-dernista è la problematicità dello scrittore il cui ruolo sociale viene messo in discussione dalla nascente cultura di massa e consumista (l'elemento popolare che deve quindi essere rimosso dal canone), laddove i primi modernisti erano costretti a operare in un contesto in cui per loro non esisteva nessun ruolo sociale riconosciuto o codificato, in cui mancava perfino un concetto per le loro opere: testi che dovevano designare allegoricamente il proprio processo, in qualche maniera contenere in sé le proprie condizioni d'esistenza, cercarsi un pubblico che ancora non esisteva. Analizzare questa strategia di riappropriazione, insiste Jameson, permette di comprendere i meccanismi ideologici attraverso i quali funziona tutto il moderno, non solo il modernismo letterario. L'autore s'impegna in un'analisi formale dove il moderno non è un concetto di cui si debba fare l'archeologia alla ricerca del significato autentico da riscoprire. La modernità è vista, piuttosto, come un tropo, un meccanismo retorico atto a produrre e manipolare una carica libidinale. Una narrazione che, separando il passato dal presente e selezionando sempre nuovi momenti di frattura, permette di rendere desiderabile, di "valore", il presente. In tal senso è una figura retorica tutta particolare, dal carattere performativo, il tropo del moderno è moderno in se stesso: mettendo in scena le proprie richieste di riconoscimento proietta sui contenuti storici la propria struttura retorica. Quella riconosciuta da Jameson all'opera nel moderno è una logica ferocemente astrattiva: produce "valore differenziale", qualcosa di ancora più astratto del valore di scambio, di ancora più lontano dalla concretezza delle opere: un piano popolato da sempre nuove next big thing, da "etichette" create da giornali o dall'ultima corrente inventata dall'editore d'avanguardia. Uno strano tavolo anatomico su cui possono incontrarsi e stringersi la mano un certo tipo di storia letteraria e il marketing editoriale. " francesco.guglieri®libero.it F. Guglieri è dottorando in letterature comparate all'Università di Torino